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Le cento battaglie che hanno cambiato la storia
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E-book1.111 pagine14 ore

Le cento battaglie che hanno cambiato la storia

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Dalla battaglia di Megiddo, che nel 1479 s.C. consolidò il dominio egiziano in Palestina, a quella del Golfo contro l'Iraq di Saddam Hussein

Cosa sarebbe successo se nel 546 a.C. Ciro non avesse sconfitto i Lidi a Sardi, dando vita all’impero persiano? Se nel 1066 a Hastings, nella battaglia che segnò l’inizio del regno normanno in Inghilterra, avessero invece vinto i Sassoni? Se nel 1532 gli Spagnoli fossero stati sconfitti dagli Inca a Cajamarca? Se in Normandia le truppe alleate fossero state respinte dall’esercito tedesco? Non c’è dubbio: il mondo sarebbe oggi molto diverso. Questo libro seleziona cento battaglie – da quella di Megiddo, che nel 1479 a.C. consolidò il dominio egiziano in Palestina, al Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein – che hanno avuto un ruolo chiave nella storia. Sono state scelte in base ai cambiamenti politici o sociali che hanno determinato o perché hanno rappresentato un punto di svolta nella tecnica bellica. Di ogni battaglia vengono descritti il contesto storico, il luogo, le forze in campo, lo svolgimento e le perdite subite dai contendenti, analizzando inoltre l’influenza che essa ha avuto e in che modo ha cambiato il corso della storia. Mappe e bibliografie corredano i singoli episodi. Questo libro, particolarmente adatto agli studenti e agli appassionati, costituisce anche un’eccellente fonte per specialisti e studiosi di storia militare.


Paul K. Davis
nato in Texas nel 1952, si è laureato in Storia delle guerre al King’s College di Londra. Attualmente vive a San Antonio, in Texas, dove insegna Storia all’università. È autore di numerosi testi di storia militare.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854155558
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    Le cento battaglie che hanno cambiato la storia - Paul K. Davis

    MEGIDDO

    15 maggio 1479 a.C.

    Forze impegnate

    Egiziani: sconosciute (probabilmente circa 10.000 uomini)

    Comandante: il faraone Thutmosi III

    Alleanza Qadesh: sconosciute

    Comandante: il re di Qadesh

    Importanza

    Ripristinando la dominazione egiziana in Palestina, Thutmosi diede inizio a un periodo in cui l’impero egiziano raggiunse la sua massima estensione.

    Contesto storico

    Nei primi anni del XVIII secolo a.C., la potenza del Medio Regno egiziano stava declinando, fatto questo che coincise con l’immigrazione degli Hyksos, un popolo semitico proveniente probabilmente dalla regione palestinese, che si servì di armamenti superiori per rovesciare la traballante XIII dinastia. La dinastia Hyksos iniziò a governare l’Egitto nel 1786 a.C. e durò fino al 1575 a.C., quando ormai era divenuta paga e fiduciosa al punto da perdere forza e consentire alla popolazione egiziana di riassumere il controllo del proprio Paese. Il faraone che diede inizio all’era del Nuovo Regno fu Ahmose, che guidò l’Egitto dal 1575 al 1550 a.C. Non soddisfatto di riprendere semplicemente possesso della sua terra, Ahmose decise di allargare i confini nord-orientali per stabilire una forte zona tampone; volle inoltre estendere la supremazia della sua gente, perché il contatto con popoli forestieri aveva dato agli Egiziani il gusto di cose che si potevano trovare soltanto al di là delle loro frontiere. Perciò, le guerre mosse dal faraone furono motivate dal desiderio di conquista e da ragioni di commercio e di sicurezza.

    Seguendo l’esempio di Ahmose, i suoi successori estesero l’autorità egiziana nella regione lungo il Mediterraneo orientale e, verso sud, in Nubia, l’odierno Sudan. Sotto la guida di Thutmosi I, nipote di Ahmose, l’Egitto stabilì la propria egemonia in Palestina e in Siria. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1510, l’espansione egiziana subì però una battuta d’arresto a causa del comportamento del nuovo faraone, Hatshepsut, l’unica donna che lo sia mai diventata, figlia di Thutmosi I e sorellastra nonché moglie di Thutmosi II. Quando questi morì, nel 1490, in un primo tempo Hatshepsut governò il Paese in qualità di reggente per il giovane figlio Thutmosi III, ma ben presto gettò la maschera e governò apertamente come faraone. La sua amministrazione (1490-1468 a.C.) fu caratterizzata da oltre 20 anni di pace, durante i quali l’Egitto intraprese un serio programma di costruzione di templi e monumenti.

    La passiva politica estera di Hatshepsut, tuttavia, incoraggiò i re assoggettati del Medio Oriente a considerare l’idea dell’indipendenza: sotto la guida del re di Qadesh, sostenuto dal potente popolo dei Mitanni stanziati a est dell’Eufrate, la Siria e la Palestina si liberarono dal dominio egiziano più o meno all’epoca della morte di Hatshepsut.

    Visto che le prime avvisaglie di malcontento non erano state sedate dalle forze egiziane, il re di Qadesh, che probabilmente esercitava la sovranità sulla maggior parte della Siria e della Palestina, chiese e ricevette dichiarazioni di fedeltà da parte dei re a lui soggetti. Tuttavia, alcuni piccoli regni nel sud della Palestina esitarono, memori forse di Ahmose e della punizione riservata a chi si comportava slealmente; perciò, Qadesh inviò truppe per obbligarli a cooperare, e sembra che il regno dei Mitanni fornisse segretamente il proprio appoggio.

    I Mitanni erano essi stessi una potenza nascente, che allora rivaleggiava con quella altrettanto in embrione degli Assiri: se Qadesh avesse avuto successo nel colpire l’Egitto, certamente i Mitanni ne avrebbero ricavato dei vantaggi, o almeno così speravano.

    La causa della morte di Hatshepsut non è stata mai appurata con sicurezza: potrebbe essersi trattato di un assassinio commissionato da Thutmosi III: in ogni caso, costui era impaziente di salire al trono e ripristinare la potenza egiziana. Dopo avere ordinato di cancellare il nome di Hatshepsut da tutti gli edifici pubblici, si accinse a riorganizzare un esercito rimasto inoperoso per oltre due decenni. I confini meridionali del Paese erano sicuri, poiché i Nubiani si erano sempre più egizianizzati, ed egli poteva quindi concentrarsi sui re ribelli dei territori nord-orientali senza doversi preoccupare che il suo esercito venisse minacciato alle spalle.

    Non è stato mai accertato quanti uomini componessero le forze di Thutmosi: la maggior parte degli storici ritiene che nessun corpo di spedizione egiziano abbia mai contato più di 25.000-30.000 soldati; quasi sicuramente, perciò, questo primo esercito in movimento dopo un intervallo così lungo dovette essere numericamente inferiore. L’esercito egiziano era composto soprattutto dalla fanteria, equipaggiata con scudi e armi portate al fianco, asce o spade a lama curva; l’aristocrazia combatteva a bordo di cocchi, probabilmente con l’arco; le armi dell’epoca erano di bronzo. Le truppe affrontate dagli Egiziani avevano dotazioni molto simili.

    Nel suo secondo anno di regno, Thutmosi III condusse in azione l’esercito. A quanto pare, si rivelò un organizzatore capace, perché i rapidi progressi delle sue forze indicano un ben congegnato sistema logistico; inoltre, egli fu verosimilmente il primo faraone a portarsi dietro i propri cronisti, dal momento che i particolari della marcia e della battaglia coincidono con la campagna militare. Megiddo rappresentò la prima battaglia della storia per la quale si possa affermare ciò. Thutmosi lasciò il delta del Nilo da Tharu il 19 aprile 1479 e dopo soli 9 giorni era a Gaza, dopo aver percorso circa 260 chilometri lungo la costa. Vi giunse nell’anniversario della sua incoronazione, ma non perse tempo in festeggiamenti: il mattino successivo, le truppe erano in marcia.

    La battaglia

    Dodici giorni dopo la partenza da Gaza, gli Egiziani si accamparono a Yehem, a 130-145 chilometri di distanza, probabilmente a circa 25 da Megiddo. L’obiettivo era questa città fortificata, poiché i servizi segreti di Thutmosi avevano riferito che il re di Qadesh e tutti i suoi vassalli si trovavano qui. A questo punto, il faraone aveva a disposizione tre possibili direttrici: la strada che passava a nord di Aruna, lungo il crinale del monte Carmelo, girava a nord-est di Megiddo e conduceva direttamente alla città attraverso uno stretto valico; la via a nord-nord-est, poco oltre Aruna, che si intersecava con la strada di Tannach, a nord di Megiddo; la strada che portava a Damasco. Quest’ultima partiva da Yehem dirigendosi a est e piegando poi verso nord-nordovest attraverso Tannach, e avrebbe permesso a Thutmosi di raggiungere la sua meta da sud. I suoi consiglieri gli raccomandarono la seconda o la terza alternativa, poiché il valico era troppo angusto e invitava a predisporre un agguato; il faraone ignorò gli avvertimenti e decise di prendere la via diretta, dicendo loro che potevano scegliere la strada che preferivano: egli avrebbe transitato attraverso il passo. «Perché essi, i nemici, disprezzati da Râ, diranno Se Sua Maestà ha scelto un’altra strada, vuol dire che ci teme, questo penseranno» (Petrie, A History of Egypt, vol. II, p. 105). I suoi sottoposti accettarono a malincuore di andare con lui.

    Fosse per l’accuratezza del suo giudizio o per la bontà delle informazioni ricevute, la scelta di Thutmosi si rivelò opportuna. A quanto pare, al re di Qadesh non venne mai in mente che il faraone potesse essere tanto stupido da rischiare la vita dei propri uomini facendoli passare attraverso una stretta gola, perciò concentrò il grosso dell’esercito sulla strada nei pressi di Tannach. Il 13 maggio, Thutmosi guidò i suoi da Yehem verso Aruna; giunti nelle vicinanze del passo, assunse con il carro la posizione di testa, una decisione certamente studiata per ispirare fiducia ai soldati e assicurarli dell’esattezza della sua scelta. Superato il valico, incontrarono soltanto una piccola forza di protezione, che venne rapidamente spazzata via. A questo punto, il faraone volle dare ascolto ai suoi subordinati e, invece di lanciarsi all’inseguimento, acconsentì a schierare gli uomini in posizione difensiva per consentire a tutta la colonna di uscire dalla gola. Avvertito dell’arrivo dell’esercito egiziano, il re di Qadesh fece ripiegare le sue truppe verso Megiddo.

    Nel pomeriggio o nella serata, Thutmosi decise di non attaccare le forze di Qadesh, preferendo invece attestarsi a ovest della città. Spiegò le truppe ad arco attraverso il piccolo fiume Kina, con i fianchi piazzati su alcune alture: questo gli offriva una buona via di ritirata, se fosse stato necessario. Nella notte del 14 maggio, i due eserciti si accamparono uno di fronte all’altro. All’alba, Thutmosi divise le forze in tre gruppi: si pose al comando del centro, mentre il fianco sinistro si stendeva a nord-ovest di Megiddo per assumere una posizione in grado di bloccare qualsiasi ritirata nemica sulla strada che dalla città conduceva in quella direzione. I particolari della battaglia sono troppo frammentari per capire come si svolse. Tutti i cronisti dell’epoca concordano nell’affermare che il nemico fuggì davanti alle truppe del faraone: «Sua Maestà avanzava sul cocchio d’oro e d’argento ornato con le sue insegne di guerra, come Horus, il signore della forza, armato di artigli, come Mentu di Tebe, mentre suo padre Ammone-Râ gli affilava le armi» (ivi, p. 107).

    A parte i dettagli mancanti, gli Egiziani presero il sopravvento e il nemico fuggì precipitosamente a rifugiarsi tra le mura della città, abbandonando il campo e gran parte dell’equipaggiamento: fu questo che salvò gli Egiziani, almeno temporaneamente. Le truppe egiziane, attratte dalla prospettiva del bottino, trascurarono l’inseguimento, preferendo darsi al saccheggio; ciò permise al nemico di mettersi in salvo, anche se a stento: gli abitanti della città, infatti, chiusero le porte troppo in fretta, e i soldati in fuga dovettero issarsi sulle mura per mezzo di corde fatte con gli abiti. Thutmosi non fu contento del comportamento dei suoi uomini e li rimproverò aspramente: «Se aveste conquistato la città, in questo giorno mi vedreste offrire ricchi doni a Râ, perché tutti i capi di tutti i Paesi che si sono ribellati si trovano al suo interno» (Breasted, A History of Egypt, p. 290).

    Non essendo riuscito a espugnare subito Megiddo, Thutmosi organizzò l’assedio: ordinò di costruire un muro di cinta con il legname dei boschi circostanti e il cui bastione venne chiamato Thutmosi, l’accerchiatore di asiatici; nella cinta fu ricavata una sola porta, attraverso la quale potessero uscire gli assediati desiderosi di arrendersi. I particolari dell’assedio furono trascritti su un rotolo di pergamena conservato nel tempio di Ammone, ma di esso rimane soltanto la menzione. La campagna era abbastanza ricca da permettere agli Egiziani di trarre un buon nutrimento dai campi, dai bovini e dai greggi di pecore. La durata dell’assedio è controversa: le stime vanno da 3 settimane a 7 mesi, anche se probabilmente si trattò di un’operazione breve. In ogni caso, gli assediati finirono per restare a corto di cibo e si arresero.

    Conseguenze

    Sebbene molti re venissero presi prigionieri dopo essersi arresi durante l’assedio o alla caduta della città, il re di Qadesh riuscì a sfuggire alla cattura, probabilmente subito dopo la battaglia. Thutmosi non infierì troppo sui re prigionieri o sulla città, anche se trasferì in Egitto buona parte delle ricchezze di quest’ultima. Tuttavia, aveva catturato sul campo di battaglia il figlio del re, e lo portò in Egitto come ostaggio, insieme ad alcuni membri della famiglia reale e ai figli di altri re ribelli, ormai umiliati. La descrizione delle prede di guerra è lunga e impressionante, e comprende 924 cocchi, 2238 cavalli, 200 corazze e la tenda appartenente al re di Qadesh, con tutti i mobili e le suppellettili. Aggiungendo il bottino delle successive vittorie riportate nel corso della campagna, in totale furono incamerati 193 chili d’oro e d’argento.

    Con Megiddo ormai saldamente nelle sue mani, Thutmosi guidò l’esercito verso nord, in direzione del Libano, prendendo possesso di Yenoam, Hernkeru e Nuges. Non sappiamo se queste città avessero fatto atto di sottomissione al faraone durante l’assedio di Megiddo, o se Thutmosi dovette conquistarle volta per volta: in ogni caso, caddero rapidamente sotto il suo controllo. Egli ordinò di costruire una fortezza nella regione per sventare eventuali minacce del re di Qadesh sfuggito alla cattura, e procedette a ristabilire l’egemonia egiziana accettando la sottomissione dei re locali, oppure sostituendoli con altri a lui fedeli. Come aveva fatto con il figlio del re di Qadesh, portò in Egitto anche i figli di quei governanti: ciò non solo gli assicurava la loro collaborazione, ma gli permetteva di far educare gli ostaggi immergendoli nella cultura e nella potenza egiziana, rendendoli così molto più controllabili quando fossero stati pronti a succedere ai padri.

    MEGIDDO NELLA STORIA

    Anche se gli storici sono a conoscenza di battaglie precedenti quella combattuta tra Thutmosi III e il re di Qadesh nel 1479 a.C., Megiddo può essere considerata la prima nella storia documentata da testimoni diretti: tuttavia, a causa delle dispute causate da diversi sistemi di datazione usati dagli storici, non sappiamo con certezza quando si svolse. Nel 1905, James Breasted stilò un dettagliato resoconto della battaglia, e la data da lui indicata viene considerata la più precisa, non solo relativamente all’anno, ma anche al mese e al giorno. La traduzione di William Petrie degli Annali di Thutmosi III fornisce date contemporanee, non in anni avanti Cristo ma in termini di anni di regno del faraone: quindi, apprendiamo che Thutmosi iniziò la campagna di Megiddo quando lasciò la città di Tharu, nel delta del Nilo, il venticinquesimo giorno del mese Pharmuthi nel ventiduesimo anno del suo regno. Anche questo crea qualche problema, perché il suo regno decorre non dall’anno in cui successe ad Hatshepsut, ma dalla morte di suo padre e dall’anno in cui avrebbe dovuto iniziare a governare. Di conseguenza, la battaglia di Megiddo viene collocata negli anni più diversi, nel 1458, 1467, 1469 e così via.

    Megiddo era un punto di riferimento importante nell’antichità, situata all’incrocio tra gli Ittiti a nord e gli Egiziani a sud, attraversata dalle rotte commerciali che andavano dall’Oriente mediterraneo agli imperi assiro, babilonese e persiano. Il Libro dei Giudici descrive una battaglia avvenuta nell’XI secolo a.C. lungo il fiume Kishon, che scorre nella piana di Esdraelon, su cui si affaccia Megiddo. In quella battaglia, le forze israelitiche guidate da Deborah e Barak sconfissero quelle cananee di re Jabin. Nel 609 a.C., re Giosuè di Giuda venne sconfitto e ucciso a Megiddo dal faraone egiziano Necao.

    La data dell’ultima battaglia di Megiddo è ancor meno precisa di quella della prima: il termine ebraico per Megiddo è Armageddon, descritta nell’Apocalisse come luogo della battaglia finale tra le forze del bene e del male. Ed ecco annunciata una delle grandi ironie della storia: la storia militare che vede il suo inizio e la sua fine nello stesso luogo.

    Thutmosi tornò a Tebe, la capitale, agli inizi di ottobre, padrone di un nuovo e più stabile impero egiziano. Non sarebbe stato sempre felice: dovette infatti condurre altre quindici campagne nelle regioni nord-orientali, sia per domare ribellioni, sia per sventare minacce straniere. Nel corso dell’ottava di tali campagne, combatté e sconfisse i Mitanni sull’altra riva dell’alto Eufrate, portando l’impero al massimo della sua estensione e trasformando completamente l’Egitto come nazione: la ricchezza che affluiva nel Paese sotto forma di tributi annuali era talmente enorme da permettere la costruzione di quei templi ed edifici pubblici che ancor oggi lo rendono famoso, oltre alle piramidi e alla Sfinge.

    Durante tutto l’Antico e il Medio Regno, l’Egitto aveva cercato di rimanere isolato; dopo la cacciata degli Hyksos e le guerre del Nuovo Regno, il commercio con le potenze straniere si rivelò così redditizio da impedire per sempre il ritorno al passato. L’amministrazione di un impero richiedeva l’istituzione di una vasta burocrazia e il mantenimento di un numeroso esercito, entrambi assai costosi. La prosperità era un dono degli dèi, perciò anche la classe dei sacerdoti si sviluppò, acquistando ricchezza e potere. Per costruire i loro templi erano necessari i migliori artigiani, e la vita artistica dell’Egitto ne trasse beneficio. Duecento anni dopo Thutmosi III, Ramsete II condusse guerre per difendere i confini dell’impero: nessun faraone combatté altrettanto spesso, ma nel XIII secolo a.C. la potenza egiziana aveva raggiunto l’apice. Da allora in poi, i Popoli del Mare, gli Ittiti, gli Assiri, i Persiani, i Greci e alla fine i Romani indebolirono l’Egitto o lo dominarono.

    FONTI: Douglas Benson, Ancient Egypt’s Warfare, Ashland, OH, Book Masters, 1995; James Henry Breasted, A History of Egypt, London, Hodder & Stoughton, 1905; Richard Gabriel – Donald Boose, The Great Battles of Antiquity, Westport, CT, Greenwood Press, 1994; William Petrie, A History of Egypt, Freeport, NY, Books for Libraries Press, 1972 [1904], vol. II; George Steindorff – Keith Seele, When Egypt Ruled the East, Chicago, University of Chicago Press, 1957.

    THYMBRA

    546 a.C.

    Forze impegnate

    Persiani: forse 50.000 uomini

    Comandante: Ciro II il Grande

    Lidi: sconosciute, ma probabilmente più numerose di quelle persiane

    Comandante: Creso

    Importanza

    La vittoria diede a Ciro il controllo delle vaste ricchezze della Lidia e privò Babilonia di un forte alleato; inoltre, gli permise di sfidare e vincere il trono neo-babilonese, fondando l’impero persiano.

    Contesto storico

    Nel 612 a.C., l’impero assiro, che aveva dominato e terrorizzato le regioni tra il Golfo Persico e il Mediterraneo sin dalla metà dell’VIII secolo, venne abbattuto. In quell’anno, due popolazioni sottomesse, i Babilonesi e i Medi, unirono le forze e conquistarono Ninive, la capitale assira. In seguito alla vittoria, l’impero fu diviso tra i due vincitori: Nabopolassar di Babilonia governò la metà meridionale, mentre Ciassarre di Media ebbe la parte settentrionale. Media era chiamata originariamente la regione che oggi comprende l’Iran nord-occidentale, lungo la riva meridionale del mar Caspio, verso l’Armenia. Sotto Ciassarre, la potenza dei Medi si estese a Occidente fino alle frontiere dell’Asia Minore, e a Oriente fin quasi all’Afghanistan. Ciassarre morì nel 585 a.C., l’anno in cui egli e il re di Lidia, in Asia Minore, avevano concordato che il fiume Halys dovesse segnare il confine tra i loro territori: a Ciassarre successe Astiage, che si rivelò un tiranno e si inimicò l’aristocrazia dei Medi affidandosi a consiglieri religiosi per la formulazione della sua politica.

    Nel 580 a.C., la figlia di Astiage diede alla luce un bambino, che venne chiamato Ciro. Secondo la leggenda, Astiage, avendo sognato che il nipote lo avrebbe detronizzato, ne ordinò la morte, ma il bimbo si salvò in maniera praticamente identica a quella di Mosè in Egitto. In ogni caso, Ciro visse nella regione chiamata Persis (Persia), che oggi si estende nell’Iran sud-occidentale, vicino alla costa del Golfo Persico. Lo storico greco Erodoto afferma che nel 553 Ciro fu avvicinato da Arpago, già comandante dell’esercito dei Medi, che gli chiese di guidare una ribellione contro Astiage: se lo avesse fatto, sarebbestato sostenuto dall’aristocrazia. È difficile stabilire la durata della rivolta, perché le fonti dell’epoca (e di quelle immediatamente successive) discordano notevolmente. Probabilmente, andò avanti per 4 anni, fino alla battaglia di Pasargadai (la capitale di Persis), quando Arpago passò dalla parte di Ciro. Alleandosi con gli Sciti e gli Ircani, Ciro conquistò Ecbatana, la capitale della Media, tra il 550 e il 549. Facendo il possibile per dimostrarsi un conquistatore giusto e misericordioso, Ciro ottenne immediatamente la fiducia non solo dell’aristocrazia, ma anche di quasi tutti gli ex sudditi di Astiage. Molti dei capi militari medi ricevettero posti di comando nell’esercito persiano. Mentre Ciro consolidava il trono, alla frontiera occidentale si preparavano difficoltà. Il re di Lidia, Creso, era figlio di Aliatte, il re che insieme a Ciassarre aveva posto lungo il fiume Halys il confine tra la Lidia e la Media. A quanto sembra, Creso era stato in buoni rapporti con Astiage e considerava Ciro un pericolo. Egli cominciò a organizzare alleanze con l’Egitto, Babilonia e Sparta. La Lidia era famosa per la superiorità della sua cavalleria e, con l’aggiunta di altre truppe, avrebbe potuto rappresentare una seria minaccia per il nuovo regno di Ciro. Questi, mentre si trovava a Elam in visita presso Gubaru, futuro satrapo di Susa, fu informato che Creso aveva condotto truppe oltre l’Halys, nella provincia della Cappadocia, e stava saccheggiando la regione. Ciro raccolse le sue forze e, nella primavera del 547, mosse verso Occidente. L’esercitò marciò lungo la frontiera medo-babilonese, attraversò il fiume Tigri ad Arbela (luogo che vide in seguito una vittoria di Alessandro Magno), ricevette alcuni rinforzi dall’Armenia e dal Kurdistan, e scese nella pianura della Cappadocia alla fine dello stesso anno.

    La battaglia

    I due eserciti si scontrarono all’inizio dell’inverno nei pressi della città di Pteria, combattendo un’aspra quanto inconcludente battaglia: non si hanno notizie al riguardo, se non che non vi fu alcun vincitore. Dal momento che la pianura della Cappadocia era stata privata delle sue risorse durante l’occupazione lidia, Creso decise che sarebbe stato meglio ritirarsi a Sardis, la sua capitale: dopo avervi svernato, avrebbe riunito le forze, integrate da quelle degli alleati, riprendendo la guerra in primavera. Tornato a Sardis, egli congedò le truppe mercenarie greche e inviò messaggi agli alleati, specificando le sue necessità militari per la campagna della stagione successiva.

    Dopo la battaglia, Ciro si consultò con i suoi consiglieri, ricevendone un suggerimento analogo: tornare in patria per l’inverno e riprendere le operazioni in primavera. A questo punto, però, egli mostrò il primo lampo di genio: certo che Creso non avrebbe mantenuto sul libro paga i mercenari durante la cattiva stagione e che gli alleati della Lidia non avrebbero probabilmente inviato rinforzi prima di qualche mese, decise di puntare a sua volta su Sardis. Concesso al re nemico il tempo sufficiente per tornare in patria e congedare le truppe, Ciro marciò a tappe forzate attraverso l’Anatolia. A Creso giunsero alcune voci sull’avvicinarsi di Ciro, ma non ne tenne conto: infatti, fu costretto a ricredersi solo quando le forze persiane giunsero in vista delle porte della città.

    Nonostante le previsioni di Ciro, Creso riuscì a radunare un esercito numeroso: quanto, non si sa, ma quasi certamente molto più di quello persiano. Secondo Senofonte, le forze di Ciro ammontavano a 200.000 uomini, ma probabilmente il numero era compreso tra 20.000 e 50.000. I due eserciti si scontrarono appena fuori Sardis, nella piana di Thymbra, all’inizio del 546. Ciro organizzò le sue truppe in formazione quadrata, con la cavalleria sui fianchi e i reparti montati su cocchi alla retroguardia. I Lidi si schierarono nella maniera tradizionale, disposti su lunghe file parallele. La battaglia iniziò con un tentativo di accerchiare il quadrato persiano da parte della cavalleria lidia, le cui unità centrali, però, si portarono troppo in avanti, aprendo dei vuoti nello schieramento. Fu a questo punto che Ciro mise in campo la sua arma segreta: a Pteria, uno dei suoi generali aveva notato che i cavalli lidi si erano imbizzarriti alla presenza dei cammelli persiani usati per il trasporto; Ciro formò con questi animali le prime truppe cammellate della storia e le fece avanzare: percependone l’odore, i cavalli dei nemici furono presi dal panico.

    I cavalieri smontarono e cercarono di combattere a piedi, ma le loro lance si dimostrarono troppo poco maneggevoli per essere efficaci. Dall’interno del quadrato persiano, gli arcieri scoccarono nugoli su nugoli di frecce contro i ranghi lidi, aumentandone la confusione. La fanteria e i cocchi sui fianchi caricarono i cavalieri lidi appiedati, quindi, una volta aperti ampi vuoti su entrambi i lati al centro dello schieramento avversario, Ciro vi lanciò attraverso la sua cavalleria. Il risultato fu la rotta, mentre i lidi superstiti correvano a rifugiarsi tra le mura di Sardis. Le forze persiane circondarono immediatamente la città e la assediarono per 14 giorni. Venuto a conoscenza di un probabile punto debole nelle difese – dove le mura incontravano alcune rocce, fondendosi in esse – Ciro inviò un piccolo contingente sull’altura che in quel punto sovrastava la cittadella, dove le sue truppe penetrarono rapidamente, prendendo Creso prigioniero. Il mattino successivo, la città aprì le porte al vincitore e, da quel momento, la Lidia cessò di esistere come regno indipendente.

    Conseguenze

    Pur conseguita nel 546 a.C., 7 anni prima della conquista della Babilonia, la vittoria di Ciro su Creso a Thymbra segnò nella campagna il punto di svolta che permise la fondazione di un impero persiano. Babilonia, in quanto coerede dell’impero assiro, rappresentava un nemico naturale, nonostante avesse fatto ben poco per provocare Ciro.

    Il re babilonese Nabonide si trovava nel bel mezzo di una crisi interna. Malgrado gli sforzi per mantenere stabili le rotte commerciali tra il Golfo Persico e il Mediterraneo, cosa che avrebbe naturalmente continuato a far prosperare le più ricche tra le antiche città, Nabonide irritò il suo popolo nelle questioni religiose. Giunto al potere grazie alla sua posizione di generale, invece che per diritto di nascita, egli diffidava della classe dirigente babilonese; inoltre, al culto di Marduk, la divinità nazionale, preferiva quello di Sin, la dea della luna, e in suo onore fece costruire templi a Babilonia, inimicandosi la popolazione.

    In seguito a un sogno, inviò l’esercito nella città di Harran per ripristinarvi il tempio di Sin. Trascorse sette anni conducendo campagne in Arabia, occupando tutta la regione fino a Yathrib (Medina) e colonizzando una striscia di oasi che attraversava il Paese, sebbene non sia chiaro se fosse spinto a farlo da ragioni militari o commerciali.

    Questa spedizione gli alienò ulteriormente la simpatia dei Babilonesi: era previsto, infatti, che il re presenziasse ai festeggiamenti del nuovo anno, mentre Nabonide ne mancò sette di seguito. A sovrintendere alle faccende di governo pensava Belsatsar, suo figlio e reggente.

    Quando Ciro, dopo aver esteso la sua potenza a Oriente per mezzo di campagne fino alla Bactria (l’attuale Afghanistan), si diresse verso Babilonia, Nabonide cercò finalmente di rabbonire i propri sudditi e difendere la patria. Ordinò che tutti gli idoli di Marduk venissero portati nella città per rafforzarne le difese spirituali, ma evidentemente era ormai troppo tardi. Sembra che Ciro si fosse messo in contatto con i capi religiosi babilonesi, rassicurandoli sulla sua tolleranza religiosa e istigando così un movimento di resistenza in casa dello stesso Nabonide.

    Esistono due resoconti completamente differenti a proposito della resa di Babilonia a Ciro. Secondo la prima versione, nel settembre del 539 a.C. l’esercito persiano sconfisse i Babilonesi a Opis, ex capitale dell’Accadia, che Ciro fece distruggere. Il 10 ottobre, la città di Sippar si arrese senza combattere. Informato di ciò, Nabonide fuggì da Babilonia. Uno dei suoi ex governatori, Ugbaru, che aveva amministrato Gutium (un territorio da qualche parte a est del Tigri), passando poi tra le file di Ciro, entrò nella città senza incontrare opposizione; fu quindi la volta dello stesso Ciro, che il 29 ottobre ricevette una trionfale accoglienza da parte degli abitanti, che lo proclamarono rappresentante del dio Marduk per averli liberati dall’eretico Nabonide.

    L’altra versione, suggerita da Erodoto, parla di un assedio durato due anni, dal 539 al 538 a.C., durante il quale Ciro fu sul punto di rinunciare perché gli abitanti di Babilonia avevano ammassato un’enorme quantità di provviste. Invece, decise (o fu consigliato) di deviare il ramo dell’Eufrate che scorreva attraverso la città verso un terreno paludoso, facendo così abbassare il livello del fiume fino a permettere alle truppe persiane di guadarlo e penetrare in Babilonia attraverso le chiuse. «Gli stessi Babilonesi raccontano che, a causa della grande estensione della città, i sobborghi caddero senza che gli abitanti del centro ne sapessero nulla: erano in corso dei festeggiamenti, ed essi continuarono a danzare e divertirsi fino a quando appresero la notizia nel modo peggiore» (Erodoto, Storie).

    La conquista di Babilonia segnò la riunificazione dell’antico impero assiro, ampliato da Ciro fino a comprendere l’Asia Minore e le coste del Golfo Persico, raggiungendo quasi l’India. Una volta fondato l’impero persiano, Ciro continuò a condurre operazioni militari, rimanendo ucciso in combattimento nei pressi del fiume Jaxartes durante il diciassettesimo anno di guerra contro le forze scite.

    Fu la campagna contro la Lidia, tuttavia, che privò Babilonia di un potente alleato e rese sicuro il fianco occidentale di Ciro, mettendo questi nella posizione di diventare imperatore: «Una volta sottomessa la Lidia, l’equilibrio del potere e gli interessi di Babilonia e dell’Iran (Persia) entrarono in conflitto». La resa dei conti fu probabilmente inevitabile, e Nabonide non poteva competere con Ciro.

    Quello persiano si rivelò il primo impero mondiale della storia. Prima di allora, vi erano state conquiste su vasta scala, come quella degli Assiri, i quali occuparono un territorio che era un impero nelle dimensioni, ma non nell’amministrazione. Proprio a questo diede vita Ciro, un’amministrazione imperiale.

    Dimostrando tolleranza religiosa, offrendo pace e migliorando la rete stradale per facilitare il commercio, i Persiani continuarono a costruire sulle fondamenta gettate da Ciro e ad ampliare ulteriormente l’impero, includendo l’Egitto e regioni dell’Europa sud-orientale, anche se a Maratona e Salamina, all’inizio del V secolo a.C., trovarono degni rivali nei Greci. Di fatto, Ciro era adorato dai sudditi, non perché lo pretendesse come un faraone, ma perché lo meritava.

    La sua liberazione degli Ebrei, rimasti per decenni prigionieri a Babilonia, portò alla ricostituzione di una nazione israelitica che durò fino al I secolo d.C., quando i Romani ne dispersero di nuovo gli abitanti. Anche se considerato dagli Ebrei uno strumento inviato da Dio per liberarli (esattamente come lo vedevano i Babilonesi), consentendo loro di tornare sulle coste orientali del Mediterraneo, Ciro aveva certamente i suoi buoni motivi strategici, perché in tal modo si assicurava che una zona abitata da una popolazione amica fungesse da cuscinetto contro una possibile espansione egiziana. Per tutti, egli rappresentò un gradito cambiamento rispetto alla brutalità degli Assiri, gli ultimi grandi conquistatori della regione: con la sua politica tollerante, Ciro ricevette immediatamente sostegno dove gli Assiri avevano ottenuto unicamente malcontento e odio.

    A differenza dell’impero assiro, che fu rovesciato da una rivolta, la vita di quello persiano, durata più di due secoli, ebbe fine soltanto con l’arrivo di Alessandro Magno.

    FONTI: J.M. Cook, The Persian Empire, New York, Schocken Books, 1983; Erodoto, Storie, Roma, Newton & Compton, 1997; Ilya Gershevitch, The Cambridge History of Iran, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 1985, vol. II; Harold Lamb, Cyrus the Great, Garden City, NY, Doubleday, 1960; Senofonte, Ciropedia, Roma, Newton & Compton, 1996.

    MARATONA

    presumibilmente 21 settembre 490 a.C.

    Forze impegnate

    Greci: 10.000 Ateniesi e 1000 Platesi

    Comandante: Ciro II il Grande

    Persiani: presumibilmente 20.000 uomini

    Comandante: Dati

    Importanza

    La sconfitta persiana evitò una massiccia invasione dell’Europa e affermò l’esercito greco come una forza con cui dover fare i conti. Inoltre, preparò la successiva invasione persiana, che venne fermata a Salamina e Platea.

    Contesto storico

    Agli inizi del V secolo a.C., la Persia dominava su un territorio che si estendeva dall’India al Mediterraneo. Fondato due generazioni prima da Ciro il Grande, l’impero persiano era allora governato da Dario, l’architetto delle campagne militari che ne avevano ampliato il territorio fino agli attuali confini, sempre affamato di nuove terre. I Persiani conquistavano nuove terre, per poi integrare nella loro ben organizzata burocrazia i Paesi occupati; di conseguenza, l’esercito era composto da un gran numero di razze con vari livelli di capacità militari. Il suo nucleo era formato dalle popolazioni originarie dell’impero, i Medi e i Persiani, le cui truppe erano le meglio addestrate ed equipaggiate, nonché le più motivate; queste due popolazioni fornivano anche gli ufficiali che comandavano i soldati provenienti dalle nazioni conquistate. All’inizio del V secolo, l’esercito persiano veniva considerato imbattibile, perché nessun nemico era mai riuscito a contrastarne la potenza.

    Nel primo decennio di quel secolo, tuttavia, sorsero dei problemi che alla fine portarono Dario a inviare una spedizione in Grecia. L’impero persiano esercitava l’egemonia sulla costa occidentale dell’Asia Minore, allora chiamata Ionia, che era abitata da coloni greci. I Greci ionici avevano giurato fedeltà all’impero e fornivano truppe, ma non erano entusiasti del governo persiano.

    Conducendo una campagna nella valle del Danubio, nel 512 a.C., Dario lasciò un contingente di Greci ionici a guardia di un ponte lungo la sua linea di rifornimenti; quando gli Sciti, a cui Dario stava facendo guerra, ebbero la meglio su di lui, i Persiani ripiegarono verso il ponte. Il comandante greco, Milziade, propose di distruggerlo, lasciando che gli Sciti annientassero i Persiani, ma gli altri capi ionici rifiutarono. Dario si pose in salvo, giurando però vendetta contro Milziade, che abbandonò la sua patria, il Chersoneso (l’attuale penisola di Gallipoli) e fuggì ad Atene, dove era nato. Qui entrò nella politica cittadina.

    Atene aveva recentemente rovesciato il tiranno Ippia, che era fuggito in Persia, dove fu ammesso alla corte di Dario. La città, sotto la guida di Clistene, nel 510 proclamò la repubblica, irritando alcuni membri dell’aristocrazia, che si rivolsero allo stato militare di Sparta per liberarsi di lui. Gli Spartani intervennero, ma Clistene (con il sostegno di gran parte della popolazione) riuscì a cacciarli; poi, temendone la reazione, considerò l’idea di sollecitare l’aiuto persiano. Anche se Atene finì per concedere a Sparta la supremazia politica in Grecia, una fazione di Ateniesi rimase favorevole all’intervento persiano.

    Nel 499, le città-stato ioniche si ribellarono alla Persia e chiesero aiuto alle città-stato greche. Sparta e quasi tutte le altre rifiutarono, ma Atene fornì venti navi da guerra e la città-stato di Eretria altre cinque. La più importante città persiana, Sardis, in Asia Minore, venne data alle fiamme dai Greci nel 498. Quando Dario represse la rivolta ionica, giurò di vendicarsi di Atene, che aveva osato sostenere i ribelli. Questo, insieme al fatto che il suo nemico Milziade era impegnato nella politica ateniese, gli fornì un doppio motivo per l’invasione. Nel 492, Dario inviò un esercito per sottomettere la Tracia e, nel corso dell’operazione, costrinse il regno di Macedonia a giurargli fedeltà. In tal modo, i Persiani ebbero la possibilità di invadere la Grecia da nord, ma una tempesta distrusse la loro flotta, costringendoli a organizzare un secondo tentativo.

    Dario lanciò l’attacco nel 490 a.C. (o nel 491, secondo alcune fonti), inviando 600 navi cariche di fanteria e cavalleria per conquistare Atene e affermare la potenza persiana in Grecia. Prima di iniziare la campagna, tuttavia, mandò messaggeri a chiedere la resa di tutte le città-stato greche. Quando, al comando del generale Dati, la spedizione salpò, di essa faceva parte anche Ippia, il deposto tiranno ateniese; suo compito era quello di mobilitare gli Ateniesi scontenti e di suscitare una rivolta: in cambio, avrebbe governato la Grecia all’interno dell’impero persiano. Come abbiamo visto, nella città esisteva una fazione favorevole alla Persia e pronta a entrare in azione.

    Quando le forze persiane salparono, i Greci erano nel caos, con lotte politiche interne ad Atene e una latente ostilità da parte degli Ateniesi verso Sparta. Le truppe del più grande impero che il mondo avesse mai conosciuto fino ad allora marciavano contro un piccolo gruppo di città-stato prive di una reale esperienza militare. Tutti i pronostici erano in favore dei Persiani.

    La battaglia

    Il sistema militare ateniese era organizzato in modo che ciascuna delle tribù della città-stato avesse un capo al comando delle sue truppe, con un polemarco che fungeva da comandante generale. Nel momento il cui i Persiani si mossero, il polemarco in carica era Callimaco, mentre Milziade era uno dei capi tribali.

    Quando la flotta persiana attraversò l’Egeo e attaccò la città-stato di Eretria, gli Ateniesi interpretarono correttamente la strategia del nemico. Dati, comandante della flotta, sperava di attirare le forze avversarie fuori dalla città per marciare in aiuto di Eretria: ciò avrebbe offerto ai Persiani sia la possibilità di distruggere l’esercito greco in campo aperto, sia quella di aggirarlo, dirigendosi direttamente su Atene per attaccarla mentre era priva di difese. Il 9 settembre 490, gli Ateniesi mandarono un messaggero a chiedere aiuto agli Spartani, ma appresero con disappunto che l’intervento di Sparta sarebbe stato rinviato per motivi di carattere religioso: vi era una festività da osservare, e l’esercito non poteva muoversi fino alla luna piena, la notte tra il 20 e il 21 settembre. Di conseguenza, Atene doveva contare per qualche tempo sulle sue sole forze.

    Non si conosce la consistenza dell’esercito persiano, ma presumibilmente era composto da circa 25.000 fanti e 1000 cavalieri. Dati lasciò una parte dei suoi uomini al comando di Artaferne e salpò con gli altri verso la baia di Maratona, distante una quarantina di chilometri da Atene, sbarcando quindi nella piana con una forza di 12.000-15.000 soldati. Gli Ateniesi giunsero in 10.000 e occuparono le alture sul lato occidentale della pianura, dove presto ricevettero 1000 uomini di rinforzo da Platea, una città-stato da lungo tempo alleata di Atene.

    I due eserciti si fronteggiarono per 8 giorni: i Greci restii a lasciare la sicurezza della loro posizione, i Persiani riluttanti ad attaccarla. Mentre il consiglio di guerra ateniese discuteva se fosse meglio agire o aspettare, il nono giorno giunse la notizia che Eretria era caduta, il che significava l’imminente arrivo di rinforzi persiani. Metà dei comandanti era incline ad attendere l’aiuto degli Spartani, le migliori truppe che la Grecia potesse offrire. Milziade, invece, espresse parere contrario: sapendo che ad Atene vi era una fazione favorevole alla pace a tutti i costi (il che voleva dire consegnare ogni cosa ai Persiani e accettare il ritorno del tiranno Ippia), egli argomentò che una vittoria ottenuta con una rapida azione avrebbe reso meno probabile l’eventualità di essere pugnalati politicamente alle spalle. Il voto decisivo fu quello di Callimaco, che si dichiarò d’accordo con lui.

    Il 21 settembre (presumibilmente), Milziade mise in formazione l’esercito ateniese. La piana di Maratona era fiancheggiata da acquitrini e tagliata in due dal torrente Charadra. La cavalleria persiana, contro la quale i Greci non potevano opporre una forza analoga, non era presente, essendosi recata nell’acquitrino a nord per fare provvista di acqua; dal momento che si trovava a quasi due chilometri di distanza e dall’altro lato dell’impetuoso Charadra, i Greci speravano di riuscire a condurre un’azione rapida e decisiva nella metà meridionale della pianura. Le loro forze si stendevano su un fronte di circa un chilometro e mezzo, come la fanteria avversaria. Milziade assottigliò i ranghi centrali per allungare il fronte e rafforzare le ali. La classica formazione greca, la falange, era composta da astati normalmente disposti su otto file; quel giorno, il centro ne aveva soltanto quattro e i fianchi otto (dodici, secondo alcune fonti).

    Dal momento che le forze in campo erano quasi equivalenti, i Greci facevano assegnamento sulla rapidità dell’attacco per neutralizzare il settore più pericoloso dell’esercito nemico, gli arcieri. Quando scesero dalle alture, avvicinandosi ai Persiani, schierati con il mare alle spalle e parallelamente ad esso, in un primo tempo avanzarono con passo regolare; ma quando furono a poco meno di duecento metri dalle linee avversarie, cioè alla distanza efficace di tiro degli arcieri, cominciarono improvvisamente a correre per sottrarsi più rapidamente possibile alla minaccia delle frecce.

    Non sappiamo se intenzionalmente o no, i primi Greci a raggiungere lo schieramento persiano furono quelli che componevano le ali, così che il centro rimase indietro.

    Di ciò approfittarono i nemici, che contrattaccarono proprio al centro, costringendolo a retrocedere. Nel frattempo, le ali greche stavano prendendo il sopravvento, facendo ripiegare l’esercito persiano. Di conseguenza, le ali persiane arretrarono verso l’interno della loro posizione, mentre i soldati del centro avanzavano per inseguire i Greci davanti a loro. La parte centrale dello schieramento ateniese sgomberò la piana e si ritirò sulle alture, dove si riorganizzò, lanciandosi quindi al contrattacco e respingendo il nemico tra la massa confusa delle ali in rotta, così che tutto l’esercito persiano cominciò a disintegrarsi. La cavalleria non riuscì mai a mettersi in formazione per soccorrere la fanteria: quando si rese conto del pericolo e fu pronta per la battaglia, era ormai troppo tardi. I soldati persiani sopravvissuti al massacro fuggirono sulle loro navi, lasciandosi dietro, secondo lo storico greco Erodoto (Storie), 6400 morti e sette navi distrutte, mentre i Greci persero 192 uomini.

    Conseguenze

    Anche se per gli Ateniesi la battaglia rappresentò una vittoria travolgente, non potevano concedersi il tempo di festeggiare, dal momento che Artaferne stava salpando da Eretria e Dati aveva ancora parecchi uomini e navi al suo comando. Lasciarono quindi rapidamente Maratona e marciarono per tutta la notte verso Atene. In effetti, i Persiani avevano riunito le forze, facendo vela verso la città, ma quando il giorno dopo si avvicinarono e videro l’esercito ateniese schierato e pronto ad accoglierli, decisero di rinunciare allo sbarco e ripresero il mare diretti in patria.

    Gli Spartani arrivarono troppo tardi: venuti a conoscenza dell’accaduto, marciarono su Maratona per esaminare i soldati persiani morti; accertato l’esito della battaglia, si congratularono con gli Ateniesi e tornarono a casa. I vincitori raccolsero i loro 192 caduti e li seppellirono in una fossa comune, il cui tumulo fu da allora in poi uno dei maggiori punti di riferimento della piana di Maratona.

    L’esito della battaglia di Maratona viene riferito ad Atene. Incisione non datata (Corbis- Bettmann).

    La leggenda vuole che Filippide, un corriere ateniese, corresse dal campo di battaglia fino ad Atene per annunciare la vittoria, cadendo poi morto per lo sforzo. In realtà, egli era il messaggero inviato qualche tempo prima per chiedere aiuto a Sparta, che aveva percorso i 240 chilometri in due giorni; la corsa ad Atene dopo la battaglia, però, probabilmente non ebbe luogo, anche se la distanza da lui ipoteticamente percorsa per annunciare l’esito della battaglia rappresenta la base della maratona moderna.

    La vittoria conseguita dai Greci a Maratona non fu definitiva, in quanto non allontanò per sempre i Persiani, i quali tornarono 10 anni dopo, per essere nuovamente sconfitti nell’ancor più decisiva battaglia di Salamina. Tuttavia, Maratona segna un importante punto di svolta.

    I limiti dell’impero persiano erano stati raggiunti, e Dario, che aveva esteso l’impero fino a terre così lontane, non visse per vederlo ingrandirsi oltre. Egli morì nel 486, per cui fu il suo successore, Serse, a guidare la seconda invasione della Grecia.

    Maratona rappresentò anche un cambiamento nelle forze del tempo. Gli Sciti, pur avendo inflitto una sconfitta ai Persiani (come si è visto), non avevano saputo sfruttare la situazione; i Greci, invece, si servirono della vittoria come di un trampolino verso la loro futura potenza mondiale. Non erano mai stati messi alla prova da serie minacce militari, ma a Maratona si affermarono come un esercito degno di rispetto.

    Soprattutto, il successo costituì uno sprone psicologico nei successivi conflitti: dieci anni dopo, infatti, in occasione del secondo attacco, non avevano più timore di un invincibile esercito persiano. Come scrive J.F.C. Fuller, la vittoria «diede ai vincitori la fiducia nel loro destino, che era quello di andare avanti per tre secoli, durante i quali sarebbe nata la cultura occidentale. Maratona fu il primo vagito dell’Europa» (Fuller, A Military History of the Western World, vol. I).

    FONTI: A.R. Burn, Persia and the Greeks: The Defence of the West, c. 546-478 BC, Stanford, CA, Stanford University Press, 1984 [1963]; Edward S. Creasy, Fifteen Decisive Battles of the World, New York, Harper, 1851; Erodoto, Storie, Roma, Newton & Compton, 1997; J.F.C. Fuller, A Military History of the Western World, New York, Funk & Wagnalls, 1954, vol. I; Victor Hansen (a cura di), Hoplites: The Classical Greek Battle Experience, London, Routledge, 1991.

    SALAMINA

    23 settembre 480 a.C.

    Forze impegnate

    Greci: 370 galee

    Comandante: Temistocle

    Persiani: circa 1000 galee

    Comandante: Serse

    Importanza

    La sconfitta della flotta persiana, seguita da quella dell’esercito a Platea, mise fine al tentativo di estendere l’impero persiano in Europa e rese i Greci il popolo più importante della regione del Mediterraneo e della stessa Europa.

    Contesto storico

    Nonostante il fallimento del suo tentativo di occupare la Grecia nel 490 a.C., Dario non aveva intenzione di lasciare i Greci impuniti per l’aiuto precedentemente fornito alle province ribelli della Ionia. Avrebbe organizzato subito un’altra invasione, ma doveva prima affrontare una rivolta in Egitto; nel 486 a.C., però, prima di essere riuscito a domarla, morì, lasciando il trono al figlio Serse. Questi, portate a termine le operazioni in Egitto, cominciò a prepararela spedizione punitiva contro la Grecia. È impossibile sapere con certezza quanti uomini vi partecipassero, dal momento che i cronisti dell’epoca sono rimasti famosi per le loro esagerazioni, sia allo scopo di far apparire più gloriosa la vittoria, sia perché la macchina bellica persiana sembrava talmente smisurata da annoverare, come afferma Erodoto, 2,6 milioni di uomini. Se però si presuppone che questa cifra includesse non solo i soldati, ma anche tutto il numeroso personale di supporto (cuochi, impiegati, lavandai e così via), allora, forse, non è proprio eccessiva. Erodoto, comunque, dichiara che, inclusi gli addetti ai vari servizi di assistenza, il numero totale dei partecipanti alla campagna di Serse superava i 5 milioni di persone. Scrittori più moderni (Maurice, in «Journal of Hellenic Studies»; Munro, in The Cambridge Ancient History) stimano che le forze combattenti annoverassero tra i 150.000 e i 180.000 uomini, provenienti da tutte le parti dell’impero persiano.

    Dopo la grande vittoria conseguita sui Persiani a Maratona nel 490, i Greci non si erano concentrati come i loro avversari sulla guerra imminente. Atene, Sparta e gran parte delle altre polis (città-stato) avevano ripreso a polemizzare e litigare tra loro; tuttavia, nell’inverno del 481, quando giunsero notizie dell’avvicinarsi delle forze di Serse, si decisero finalmente a superare i contrasti, indicendo una conferenza panellenica nell’istmo di Corinto sotto la presidenza di Sparta, anche se molte delle polis del nord non inviarono rappresentanti. Il maggior punto di discussione fu dove stabilire la posizione difensiva. Secondo Sparta, ci si sarebbe dovuti attestare all’istmo di Corinto, perché il Peloponneso, la penisola dove vivevano, rappresentava il cuore dell’indipendenza greca; una simile decisione, però, significava abbandonare alla Persia senza combattere tutta la zona settentrionale e centrale del Paese, con la possibilità che le polis a nord dell’istmo passassero a Serse per salvare i loro territori dalla distruzione. Se, invece, la difesa fosse stata organizzata in una posizione più avanzata, gli angusti valichi delle Termopili o della valle di Tempe avrebbero potuto essere controllati da un piccolo contingente, mentre lo stretto tra la terraferma e l’isola di Eubea offriva poco spazio per manovrare, rendendo inutile la superiorità numerica delle navi persiane.

    Una spedizione venne inviata a nord, ma, rendendosi conto che i passi da difendere erano troppi, la forza tornò a sud, dando agli abitanti della regione settentrionale la sensazione di essere abbandonati a se stessi. A peggiorare le cose, quando i Greci consultarono il famoso oracolo di Delfi, ricevettero un responso estremamente negativo: Atene sarebbe stata distrutta, mentre le altre polis si sarebbero salvate se si fossero tenute in disparte. Fu fatto un secondo tentativo, e questa volta la risposta fu più positiva, anche se piuttosto ambigua: gli Ateniesi avrebbero dovuto difendersi dietro «i muri di legno», il che poteva significare sia le mura della città, sia le murate delle loro navi. La maggioranza accettò questa seconda interpretazione, e venne richiesto alla colonia greca di Siracusa di inviare la sua potente flotta; ciò non fu possibile, perché la colonia stava per essere attaccata dai Cartaginesi del Nord Africa, probabilmente per ordine di Serse, che controllava i Fenici, fondatori di Cartagine. Infine, i Greci decisero di attestarsi a nord, essendo gli Spartani troppo timorosi di dover difendere da soli l’istmo di Corinto.

    Intanto Serse, nella primavera del 480, dopo aver attraversato l’Ellesponto (lo stretto dei Dardanelli) su due ponti di barche con una delle più notevoli imprese di ingegneria di quei tempi, cominciò a muovere le sue imponenti forze lungo il perimetro dell’Egeo. Come aveva fatto Dario prima di lui, inviò messaggeri in Grecia a chiedere pegni di sottomissione, ricevendo risposte positive soltanto dalle città-stato più settentrionali. Lasciata l’Asia Minore ed entrate in Europa, le truppe di Serse marciarono lungo la costa, mentre la flotta trasportava i rifornimenti. I Persiani seguivano il contorno dell’Egeo avvicinandosi ai Greci, che li aspettavano alle Termopili e nello stretto braccio di mare dell’isola di Eubea.

    La battaglia

    Una forza di 7000-8000 uomini al comando del re Leonida di Sparta era attestata al passo delle Termopili, un tratto di costa lungo il golfo Maliaco. Trecentotrentatré navi presidiavano il braccio di mare attraverso cui avrebbero dovuto transitare quelle persiane, se volevano continuare a rifornire l’esercito. I Greci speravano in una battaglia navale decisiva, mentre l’esercito rappresentava soltanto una scusa per costringere la flotta nemica a entrare in quelle acque anguste. Per loro fortuna, gli avversari incapparono in una tempesta, perdendo 400 unità da guerra; Temistocle, che comandava le navi ateniesi, consigliò di attaccare immediatamente, approfittando del disastro. Furono combattute due battaglie, ma entrambe finirono in parità; i Greci, tuttavia, si ritirarono quando giunse la notizia che le loro forze alle Termopili erano state tradite e sopraffatte dopo un’eroica resistenza del re Leonida con le sue 300 guardie del corpo.

    Mentre l’esercito persiano avanzava, gli abitanti di Atene decisero di abbandonare la città, lasciando soltanto un contingente a difesa dell’Acropoli: le loro speranze erano riposte nelle murate di legno delle navi greche. Temistocle guidò la flotta nelle acque racchiuse tra la costa sotto Atene e l’isola di Salamina. Se i Persiani avessero aggirato Salamina su entrambi i lati, i Greci si sarebbero trovati imbottigliati, tuttavia il comandante ateniese scelse quella pericolosa posizione per indurre gli avversari ad attaccare, invece di aggirarli per dirigersi direttamente verso gli Spartani attestati a difesa dell’istmo di Corinto. Nel frattempo, l’esercito di Serse sbaragliava i difensori e dava alle fiamme la città. Mentre la flotta persiana si avvicinava, sorsero dissensi tra i capi di quella greca. Il comandante in capo era lo spartano Euribiade, anche se il contingente navale di Sparta era esiguo: questa città guidava l’intera difesa greca, quindi anche al comando della flotta doveva esservi uno spartano. Molti capitani non volevano mettersi nella pericolosa posizione suggerita da Temistocle, che però l’ebbe vinta quando minacciò di ritirare le navi ateniesi (che costituivano il grosso dell’intera forza navale), lasciando le altre al loro destino. Poi, la mattina del 22 settembre 480, egli rischiò ancora di più: inviò segretamente un messaggio a Serse, offrendogli il proprio tradimento nel mezzo della battaglia, se la flotta persiana avesse attaccato. Non aveva alcuna intenzione di farlo, ma questo forzò la mano a Serse, così come costrinse gli altri capitani a combattere quando le navi nemiche remarono verso di loro la mattina del 23 settembre.

    Serse inviò un contingente di 200 navi egiziane ad aggirare la costa occidentale di Salamina per impedire una ritirata greca, mentre il resto della flotta penetrava nelle ristrette acque da est, entrando direttamente nella trappola di Temistocle. Le 1000 navi furono costrette a dividersi per doppiare l’isola di Psittaleia e spingersi nel canale di Salamina, quindi dovettero girare intorno a una lunga penisola per entrare nel braccio di mare vero e proprio, che era troppo angusto per consentire la manovra a un numero così grande di imbarcazioni.

    La flotta persiana faceva affidamento sulla velocità e la manovrabilità, ma a questo punto aveva perso sia l’una che l’altra. Le 370 galee greche, più grandi e pesanti, non dovettero fare altro che remare in avanti tra le disorientate unità avversarie, urtandole e speronandole nella loro avanzata. Per 7-8 ore il rumore del legno fatto a pezzi e le urla di battaglia e di morte giunsero alle orecchie di Serse, seduto su un trono, intento ad assistere a quello che riteneva essere il suo coup de main navale. Invece, vide più della metà della sua flotta distrutta, mentre i Greci persero soltanto quaranta navi.

    Conseguenze

    Anche se rimase qualche altro giorno ad Atene, dando l’impressione di voler riprendere la battaglia, in realtà Serse stava organizzando la ritirata. Temendo che la flotta greca potesse inseguire le navi persiane superstiti fino in Asia Minore e distruggere i suoi ponti di barche, egli preparò la ritirata dell’esercito dall’Europa alla madrepatria. Lasciò un contingente, formato presumibilmente da 180.000 uomini, al comando del generale Mardonio col compito di dare il colpo di grazia alle truppe greche, seguendo il consiglio di Artemisia di Alicarnasso, una regina che non solo aveva fornito navi per l’invasione, ma si era anche distinta in battaglia sia a Eubea che a Salamina. Costei gli disse che tale soluzione era la migliore, perché, se Mardonio avesse vinto, egli avrebbe potuto attribuirsi il merito per avergli affidato il comando, mentre, se avesse perso, a lui, Serse, non si sarebbe potuta addossare alcuna colpa, perché non era stato personalmente alla guida delle operazioni. In realtà, nell’agosto successivo Mardonio fu sconfitto a Platea, dopo aver tentato di approfittare del fatto che gli avversari stavano litigando di nuovo: nella battaglia, egli aveva dalla sua parte alcuni alleati greci, ma gli 80.000 uomini al comando del generale spartano Pausania si dimostrarono una forza troppo disciplinata perché il poliglotta esercito persiano potesse opporvisi.

    Le battaglie di Salamina e di Platea misero fine a questa fase delle guerre greco-persiane; nei successivi 150 anni, Grecia e Persia combatterono in maniera discontinua, soprattutto nella Ionia, la costa orientale dell’Asia Minore originariamente popolata da coloni greci. Dopo queste battaglie, il mondo cambiò dal punto di vista navale, militare e politico.

    La flotta persiana aveva dominato il Mediterraneo orientale per mezzo secolo, con i Fenici che ne costituivano il grosso e le città ioniche che fornivano navi e basi. Inoltre, come si è visto, la colonia fenicia di Cartagine, agendo d’accordo con la Persia, estendeva l’egemonia di questa su quasi tutto il Mediterraneo. Dopo Salamina, la situazione si capovolse. Finché esistette, cioè fino al 331 a.C., quando venne sconfitto da Alessandro Magno, l’impero persiano conservò una flotta di tutto rispetto; dopo la vittoria di Salamina, però, fu quella ateniese a dominare i mari per decenni. Allo scoppio della guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, nella seconda metà del V secolo a.C., gli Spartani trattarono con i Persiani per usare la loro flotta contro gli Ateniesi; tuttavia, la potenza navale dell’impero non fu mai più quella di prima. Atene arrivò a controllare tutto il commercio nel Mediterraneo orientale, mentre le città ioniche, incoraggiate dal successo greco, cominciarono a creare problemi al loro padroni. Da allora in poi, mantenere l’ordine in Asia Minore divenne per i Persiani una preoccupazione costante.

    Militarmente, l’esercito greco era diventato il migliore del mondo: l’oplita pesantemente armato, il fante dotato di lancia, corazza e disciplina costituiva il modello sul quale erano misurati gli altri soldati, e la falange di cui faceva parte fu la formazione che dominò i campi di battaglia, fino a quando venne adottata dall’impero romano e modificata nella coorte. In effetti, da questo momento in avanti, i Persiani si servirono di soldati e formazioni greche, arruolando un gran numero di mercenari per combattere le loro guerre in Asia. Con gli opliti, Filippo il Macedone controllò la Grecia, mentre suo figlio Alessandro costruì un impero che raggiunse l’India.

    Il cambiamento maggiore avvenne in campo politico e sociale: molti commentatori indicano Salamina e Platea come il punto di svolta di tutta la storia europea, che portò l’Europa a diventare una civiltà basata sulla cultura greca, e non un vassallo degli imperatori orientali. Fuller (A Military History of the Western World, vol. I) afferma che queste due battaglie «si ergono come i pilastri del tempio dei secoli a sostegno dell’architettura della storia occidentale». Durant (The Life of Greece) definisce la vittoria greca come la più importante «della storia europea, perché rese possibile la nascita dell’Europa. Fornì alla civiltà occidentale la possibilità di sviluppare sue proprie istituzioni politiche, libere dalle imposizioni di re orientali. Indicò chiaramente ai Greci la via per il primo grande esperimento di libertà; ne preservò per tre secoli la mente dal debilitante misticismo dell’est e diede alle loro iniziative la piena disponibilità del mare». Quindi, le basi delle istituzioni politiche, del pensiero politico e delle scienze provengono dalla Grecia: oggi, ben poco si fa o si concepisce a cui i Greci non avessero già pensato oltre due millenni fa.

    Se i Persiani avessero vinto, avrebbero probabilmente esteso l’impero ben addentro l’Europa. Se fossero riusciti a mantenere qualche sorta di ordine nella stessa Grecia (certamente un ordine difficile da ottenere) e avessero arruolato soldati greci per integrare il loro già imponente e valido esercito, ben pochi ostacoli avrebbero trovato in Europa.

    Nessun popolo europeo possedeva un’organizzazione in grado di fronteggiarli: anche gli Sciti, che in precedenza avevano ottenuto qualche successo, sarebbero stati battuti da un esercito persiano reso più forte. Una flotta persiana che avesse incrociato nel Mediterraneo con a bordo i soldati dell’impero, avrebbe potuto persino soffocare la nascente potenza di Roma. In effetti, il mondo avrebbe potuto essere completamente diverso, senza il rischio corso da Temistocle a Salamina.

    FONTI: A.R. Burn, Persia and the Greeks: The Defence of the West, c. 546-478 BC, Stanford, CA, Stanford University Press, 1984 [1963]; Will Durant, The Life of Greece, New York, Simon & Schuster, 1939; Erodoto, Storie, Roma, Newton & Compton, 1997; J.F.C. Fuller, A Military History of the Western World, New York, Funk & Wagnalls, 1954-1956, vol. I; Charles Hignet, Xerxes’ Invasion of Greece, Oxford, UK, Clarendon Press, 1963; Frederick Maurice, The Size of the Army of Xerxes, in «Journal of Hellenic Studies», 50, 1930; J.A.R. Munro, in J.B. Bury – S.A. Cook – F. E. Adcock (a cura di), The Cambridge Ancient History, New York, Macmillan, 1928, vol. IV.

    SIRACUSA

    415-413 a.C.

    Forze impegnate

    Siracusani: sconosciute, anche se probabilmente equivalenti all’incirca alle forze ateniesi e comprendenti 4400 Spartani

    Comandante: Gilippo

    Ateniesi: circa 200 galee e 45.000-50.000 uomini

    Comandante: Nicia, sostituito poi da Demostene

    Importanza

    La sconfitta subita dagli Ateniesi tolse loro il predominio navale nel Mediterraneo orientale e portò alla caduta di Atene come principale polis greca, privandola della possibilità di affermare la sua autorità in tutto il mondo mediterraneo, comprese Cartagine e Roma.

    Contesto storico

    La prima guerra del Peloponneso vide Sparta e i suoi alleati della Lega peloponnesiaca contro Atene e gli alleati della Lega delia. Dopo la sconfitta inflitta agli invasori persiani a Salamina e Platea nel 480 e 479 a.C., Atene era salita al vertice della politica greca: come principale potenza navale, era il membro più influente della Lega delia, un consorzio di polis (città-stato) impegnate a fermare l’espansione della Persia e a muovere guerra ai suoi possedimenti in Asia Minore.

    Nessuna polis era in grado di contrastare l’egemonia di Atene, che era arrivata al punto di poter virtualmente pretendere qualsiasi contributo dagli altri senza dover rendere conto alla tesoreria della Lega delle somme ricevute. Invece di concentrarsi sulle spese per la difesa, gli Ateniesi usarono gran parte di quel denaro per trasformare la loro città in un centro culturale e architettonico; non c’è da meravigliarsi se ciò non fu gradito alle polis contribuenti.

    Atene strinse varie alleanze, alcune volontarie e altre imposte ai vicini più deboli. Tra il 460 e il 445, sfidò in una serie di battaglie le forze di Sparta e dei suoi alleati, cercando nello stesso tempo di aiutare i ribelli egiziani contro la Persia.

    Navi greche raffigurate sul bordo di una coppa ateniese del V secolo a.C.

    Dal momento che la lotta non portava a risultati definitivi, nel 445 Sparta eAtene firmarono un armistizio, pur restando politicamente rivali. È difficile trovare nella storia un insieme di circostanze così intricate come quelle che diedero inizio alla seconda guerra del Peloponneso. Le polis del nord non accettavano volentieri il costante controllo ateniese, mentre manovre diplomatiche e formazione di alleanze facevano pensare che Atene stesse meditando di fondare un impero greco.

    La sua flotta continuava a farsi rispettare e ad estendere quanto più possibile il predominio nel Mediterraneo. Alla fine, esasperata dall’atteggiamento sprezzante di Atene, la maggior parte delle polis greche si rivolse a Sparta. Nel 431, quando gli Ateniesi cercarono di intromettersi negli affari politici del Peloponneso, la penisola che da molto tempo era sfera d’influenza spartana, la lotta riprese.

    Spesso, questa guerra è stata definita il classico combattimento tra l’elefante e la balena: Sparta possedeva il migliore esercito del tempo e Atene la flotta più agguerrita, tuttavia nessuna delle due riusciva a mettere le mani sull’altra. Gli Spartani e i loro alleati strinsero Atene d’assedio dopo aver occupato la campagna circostante, ma non riuscirono a impadronirsi del porto del Pireo, per cui la città continuò a essere rifornita via mare di cibo e altre cose necessarie. Inoltre, la sua flotta effettuò scorrerie sul litorale di Sparta, liberando gli Iloti che lavoravano duramente sotto il dominio spartano. Le due potenze erano in grado di colpirsi a vicenda, ma non di annientarsi. La lotta proseguì con una certa regolarità per 10 anni, fino al 421, quando venne finalmente negoziata un’altra pace. I due principali contendenti furono contenti della tregua, al contrario di alcuni alleati, rimasti senza un trattato che

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