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Le grandi vittorie dell'esercito italiano
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E-book640 pagine9 ore

Le grandi vittorie dell'esercito italiano

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Info su questo ebook

Dalla Cernaia all’operazione Nibbio, le battaglie e le campagne militari più gloriose 

Nell’immaginario comune, quella dell’esercito italiano è una storia fatta di luci e ombre. In realtà le forze armate del nostro paese sono state protagoniste di gesta eroiche di grande valore, sebbene poco conosciute e quasi mai propagandate nella storia.
Questo libro, tramite l’accurata analisi storica di nove tra le campagne e le battaglie più importanti dal Risorgimento a oggi, vuole sfatare il mito di un’Italia povera di gloria militare, mettendo in luce i momenti in cui il suo esercito si è invece reso protagonista di straordinarie vittorie e di incorruttibile spirito di sacrificio. Dalla battaglia della Cernaia nel 1855 alla conquista del Monte Marrone nel 1944, fino all’Operazione Nibbio in Afghanistan nel 2003, Gianluca Bonci e Gastone Breccia ripercorrono la storia dell’Esercito italiano con una carrellata dei momenti più gloriosi.

L’appassionante e documentato racconto delle grandi battaglie in cui l’esercito italiano dimostrò tutto il suo valore

La battaglia della Cernaia (16 agosto 1855)
La campagna piemontese nell’Italia centrale (11-29 settembre 1860)
La conquista della Libia (ottobre-dicembre 1911)
La battaglia degli Altipiani (15 maggio-10 giugno 1916)
La battaglia del Solstizio (15-20 giugno 1918)
Le due battaglie di Bir el Gobi (19 novembre e 3-7 dicembre 1941)
La carica di Isbuscenskij (24 agosto 1942)
La presa di Monte Marrone (31 marzo 1944)
L’Operazione Nibbio (15 marzo-15 settembre 2003)
Gianluca Bonci
È nato a San Severino Marche nel 1973, lavora attualmente in Polonia. Laureato in Scienze dell’Informazione e in Scienze strategiche, ha conseguito i Master in Studi internazionali strategico militari presso l’Università “Roma Tre”, in Scienze strategiche presso l’Università di Torino e in Servizi logistici e di comunicazione per sistemi complessi presso l’Università “Sapienza” di Roma. Autore di numerosi saggi storico militari (tra cui Le spade di Allah, La guerra russo-afghana 1979-1989 e Controguerriglia. Un’analisi di casi storici), è conferenziere accademico su tematiche militari e geopolitiche e collabora attivamente con svariate riviste e periodici, tra cui «Rivista Militare» e «Focus Wars».
Gastone Breccia
È nato a Livorno nel 1962, dal 2000 insegna Storia bizantina e Storia militare antica presso l’Università di Pavia. Ha curato il volume miscellaneo L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz e pubblicato molti saggi di argomento storico-militare, tra cui L’arte della guerriglia; 1915. L’Italia va in trincea; Lo scudo di Cristo. Le guerre dell’impero romano d’oriente, IV-IX secolo; Scipione Africano. L’invincibile che rese grande Roma; Corea. La guerra dimenticata. Dalla sua esperienza sul campo sono nati Guerra all’Isis. Diario dal fronte curdo (2016) e Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan (2020). Con la Newton Compton ha pubblicato Epidemie e guerre che hanno cambiato il corso della storia, scritto insieme ad Andrea Frediani, La grande storia della guerra e Le grandi vittorie dell'esercito italiano, scritto con Gianluca Bonci.
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2021
ISBN9788822761484
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    Anteprima del libro

    Le grandi vittorie dell'esercito italiano - Gianluca Bonci

    EN.jpg

    Indice

    Introduzione

    1. «Una gloriosa giornata»

    Spezzare l’assedio?

    Prima dell’alba

    L’assalto russo

    Il contrattacco dei bersaglieri

    La fine

    2. Fermate Garibaldi!

    La situazione politica

    Il piano operativo sabaudo

    Il dispositivo militare pontificio

    Gli avvenimenti precedenti il combattimento

    17 settembre 1860: la vigilia del combattimento

    Il piano operativo pontificio

    La battaglia

    Una città da conquistare

    L’assedio e la presa

    Conclusioni

    3. La «Quarta sponda»

    Guerra a ogni costo

    Il tricolore a Tripoli

    Sciara Sciat

    Una guerra irregolare

    Ain Zara

    Un fatto incompiuto

    4. Sangue sugli altipiani

    I piani operativi prebellici

    Dottrina e organizzazione prebellica del Regio Esercito

    Il piano austriaco per la Frühjahrsoffensive

    Resistere a ogni costo

    Storie dimenticate

    Conclusioni

    5. La leggenda del Piave

    L’ultima offensiva della Duplice Monarchia

    L’assalto: Radetzky

    L’assalto: Albrecht nord

    L’assalto: Albrecht sud

    Una lotta senza speranza

    L’inizio della fine

    6. I leoni di Bir el Gobi

    La situazione in Nord Africa nel 1941

    L’ordinamento delle divisioni italiane e inglesi

    L’operazione Crusader

    Il pozzo del Diavolo

    La seconda battaglia di Bir el Gobi

    Conclusioni

    7. «Savoia ha caricato, Savoia ha vinto»

    Gli italiani in Russia

    Fall Blau

    La prima battaglia difensiva del Don

    «Una manovra magnifica»

    8. L’aurora di un giorno migliore

    Il 1° raggruppamento motorizzato

    La presa e la difesa del Monte Marrone

    Lo sfondamento della linea Gustav

    Conclusioni

    9. Il giardino del Diavolo

    L’intervento internazionale in Afghanistan

    L’operazione Nibbio

    Conclusioni

    Ringraziamenti

    Bibliografia essenziale

    saggistica_fmt.png

    771

    I capitoli 1, 3, 5 e 7 sono stati scritti da Gastone Breccia

    I capitoli 2, 4, 6, 8 e 9 sono stati scritti da Gianluca Bonci

    Prima edizione ebook: ottobre 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l.

    ISBN 978-88-227-6148-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Gianluca Bonci e Gastone Breccia

    Le grandi vittorie

    dell’esercito italiano

    Dalla Cernaia all’Operazione Nibbio,

    le battaglie e le campagne militari più gloriose

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Questo libro è dedicato ai soldati italiani:

    per non dimenticare che sono sempre

    caduti in difesa degli interessi nazionali

    e per l’interesse della collettività.

    O straniero, riferisci agli Spartani che qui noi giacciamo

    in obbedienza ai loro ordini.

    Simonide, Epitaffio per i caduti delle Termopili

    Introduzione

    L’anima di un esercito è la sua storia, come l’anima di un uomo è la sua memoria. E la storia di un esercito è fatta di vittorie e sconfitte. Talvolta le sconfitte sono altrettanto importanti delle vittorie: anche nelle condizioni più disperate, infatti, singoli uomini o interi reparti possono dimostrare una forza fisica e morale capace di lasciare un segno profondo, e positivo, nella coscienza collettiva; ma sono i successi, ovviamente, a costituire la fonte principale dell’orgoglio, della fiducia nei propri mezzi, della volontà di dimostrarsi all’altezza delle gesta compiute dai padri. In pochi altri campi dell’agire umano la tradizione ha un ruolo altrettanto importante: per combattere e mettere a rischio la propria vita è fondamentale la consapevolezza di appartenere a un organismo dinamico e attivo nel presente, ma che affonda le radici in un terreno profondo, fertile, ricco di valori condivisi.

    All’origine del nostro libro c’è il desiderio di guidare i lettori in un viaggio attraverso un terreno comune, una parte del passato che viene troppo spesso trascurata da chi dovrebbe averne cura e trasmetterla alle generazioni future. C’è anche un senso di insoddisfazione: perché la storia dell’Esercito Italiano – Regio Esercito fino al 1945, a sua volta diretto erede dell’esercito del Regno di Sardegna: motivo per cui abbiamo deciso di aprire il volume con la battaglia della Cernaia (16 agosto 1855) e con la campagna piemontese in Italia centrale (settembre 1860), che appartengono ancora all’epoca sabauda ma rientrano a pieno titolo nella memoria collettiva nazionale – è stata spesso gloriosa, ma contrastata e scarsamente condivisa.

    Viviamo in un Paese meraviglioso e siamo un popolo ricco di qualità: siamo però anche un Paese e un popolo divisi da passioni politiche che non riescono a comporsi nemmeno di fronte al sacrificio di tanti concittadini chiamati alle armi, che hanno ritenuto di fare il proprio dovere in nome del bene comune. Guelfi e Ghibellini sono nella nostra tradizione: per strano che possa sembrare – e sembra davvero strano, spesso, a chi ci osserva dall’esterno – ci sono italiani che gioiscono delle sconfitte italiane, come se fossero da attribuire a una parte e non a un tutto. Adua, Caporetto e l’8 settembre 1943 hanno i loro paradossali estimatori, forse non del tutto consapevoli del danno che arrecano alla forza morale di un popolo intero.

    Perché l’esercito di una nazione è espressione del suo popolo: ne riflette pregi e difetti, combatte in ottemperanza agli ordini di chi è stato scelto per governarlo, giuste o sbagliate che siano le motivazioni. Lotta e si sacrifica senza chiedere, in obbedienza agli ordini dei compatrioti, come gli opliti spartani delle Termopili venticinque secoli fa. Sono valori eterni, ma non facili da mantenere vivi e attuali nel mondo di oggi: per questo abbiamo scelto di illustrare, in maniera scientificamente rigorosa ma accessibile anche a un pubblico di non specialisti, alcuni episodi in cui è risultato evidente non soltanto il valore dei soldati italiani, ma la loro professionalità, lo spirito d’iniziativa, la capacità dei comandi di guidarli al successo in situazioni difficili. Nella speranza di contribuire in piccola parte a creare una tradizione condivisa tra militari e civili di cui andare tutti orgogliosi, che serva come solida base per affrontare le sfide future.

    G.B. – G.B.

    1. «Una gloriosa giornata»

    La battaglia della Cernaia, 16 agosto 1855

    Spezzare l’assedio?

    16 agosto [1855], giovedì. Sereno. Caldo eccessivo.

    Verso le 03:30 del mattino un fuoco di fucileria ci annunciò la presenza del nemico ai nostri avamposti. Dall’osservatorio fu dato il segnale d’allarme convenuto e la 5a brigata ricevette tosto l’ordine dal comandante la divisione di procedere verso la valle della Tchernaia, movimento che si eseguì immediatamente, e si prese posizione al di qua del canale¹.

    Nel buio, guidati dai propri ufficiali e dal rumore della fucileria, gli uomini del generale Filiberto Mollard iniziarono a scendere verso il «piccolo fiume nero» (in russo Чёрная речка, Ciòrnaia rièchka, «la Cernaia» per il comando italiano)², visibile come un sottile nastro argenteo tra le sponde prive di vegetazione. Sulla sinistra iniziarono d’improvviso a tuonare i cannoni della fortezza di Sebastopoli, distante appena una decina di chilometri in linea d’aria: il cielo limpido a nord-ovest, ancora immerso nelle tenebre, si riempì di lampi rossastri all’orizzonte, appena sopra il profilo dei colli. Non fu subito chiaro se fosse un semplice scambio di cortesie tra gli artiglieri russi e quelli anglo-francesi che li stringevano d’assedio, o se si trattasse invece di qualcosa di più serio; ma i bersaglieri italiani non avevano motivo di preoccuparsene, perché tra loro e la piazzaforte nemica c’era il grosso del Corpo di spedizione alleato.

    Mappa della zona delle operazioni in Crimea.

    La guerra in Crimea durava ormai dal 16 ottobre 1853, e l’assedio di Sebastopoli dal 17 ottobre dell’anno successivo. Il contingente inviato dal Regno di Sardegna agli ordini del generale Alfonso la Marmora – due divisioni su quattro brigate per un totale di circa 18.000 uomini appoggiati da 36 cannoni³ – era stato schierato a difesa del porto di Balaklava, vitale base di rifornimento alleata. La valle della Cernaia costituiva la linea principale di resistenza; a Traktir, circa sette chilometri a nord-est di Balaklava, esisteva il solo ponte in muratura che permetteva di attraversare il corso d’acqua senza difficoltà, la cui difesa rientrava però nel settore affidato alle truppe francesi.

    Sebastopoli era la chiave dell’intera campagna: caduta la fortezza, i russi sarebbero stati costretti ad abbandonare l’intera penisola. Ai primi di luglio del 1855 era ormai chiaro che la sua guarnigione non avrebbe potuto resistere molto più a lungo: lo sapevano gli alleati e ne era convinto anche lo zar Alessandro II, salito al trono il 2 marzo di quell’anno, che decise di tentare comunque un’ultima grande offensiva prima di rassegnarsi alla sconfitta. Alessandro ordinò quindi di inviare al generale principe Mikhail Dmitriyevich Gorchakov, comandante delle forze russe in Crimea, tre nuove divisioni fino a quel momento rimaste a disposizione della riserva imperiale. Il generale Gorchakov rispose senza mezzi termini che «sarebbe stata una follia andare all’assalto contro un nemico numericamente superiore trincerato in posizioni così forti»⁴, ma il sovrano non si lasciò convincere. Bisognava fare qualcosa, anche se le possibilità di successo erano molto scarse: limitarsi alla resistenza passiva voleva dire accettare la sconfitta finale. Il 30 luglio Alessandro scrisse nuovamente al principe Gorchakov informandolo di essere convinto della necessità di passare all’offensiva, perché in caso contrario «tutti i rinforzi che vi ho appena inviato, come è già accaduto prima d’ora, verranno risucchiati in quel pozzo senza fondo che è diventata Sebastopoli»⁵.

    Lo zar aveva ragione: se non si spezzava l’assedio in tempi brevi, le truppe chiuse nella fortezza erano condannate. Il principe Gorchakov, dopo l’arrivo delle tre nuove divisioni, aveva forze sufficienti per tentare un’azione decisiva. Le speranze di successo erano poche: fondamentale sarebbe stato poter contare sul vantaggio della sorpresa almeno per alcune ore, in modo da conquistare una superiorità locale sufficiente a superare le posizioni difensive francesi e sarde oltre la Cernaia e mettere così in pericolo l’intero Corpo di spedizione nemico. Gli alleati avevano un unico vero punto debole: la vulnerabilità della linea di comunicazione tra le loro truppe schierate di fronte a Sebastopoli e il porto di Balaklava, che proprio in corrispondenza del ponte di Traktir distava appena tre chilometri dal fiume.

    Non c’era bisogno di un grande stratega per intuire cosa avrebbero fatto i russi prima di abbandonare la partita. Un attacco diretto verso le opere d’assedio, come quello fallito il 5 novembre del 1854 a Inkerman, era assai improbabile⁶; la sola alternativa era spezzare il fronte più a sud, puntando non sulla possibilità di portare immediato soccorso alla piazzaforte, ma sugli effetti della gravissima crisi logistica che sarebbe inevitabilmente seguita, per le forze alleate, in caso di interruzione della strada tra Sebastopoli e Balaklava. Il 9 agosto Gorchakov, sempre titubante, convocò i propri ufficiali superiori per discutere la situazione. L’anziano ed esperto generale Dmitri Osten-Sacken, comandante della guarnigione di Sebastopoli, dichiarò che la caduta della città era ormai inevitabile, e qualsiasi tentativo di attaccare le fortissime posizioni nemiche si sarebbe risolto in un’inutile carneficina. Molti dei presenti condividevano il suo pessimismo, ma nessuno ebbe il coraggio di appoggiarlo apertamente, sapendo di andare contro i desideri dello zar. Quando il generale Stepan Khrulev – che aveva guidato un altro assalto fallito il 17 febbraio precedente – disse che bisognava tentare comunque, e che in caso di sconfitta Sebastopoli andava distrutta per lasciare soltanto rovine fumanti in mano al nemico, Osten-Sacken fu nuovamente il solo a opporsi. Gorchakov si disse allora in favore di un’offensiva sulla Cernaia, tra Traktir e Karlovka, e il consiglio di guerra diede il suo assenso. Ma il comandante in capo era il primo a nutrire poche speranze di vittoria: sei giorni dopo, alla vigilia dell’attacco, Gorchakov scrisse al ministro della guerra che avrebbe «marciato contro il nemico, perché altrimenti Sebastopoli sarebbe caduta molto presto», ma non si sarebbe assunto la colpa di un eventuale fallimento, e in quel caso avrebbe provveduto a evacuare la fortezza senza subire ulteriori perdite⁷.

    Non erano certo le parole di un comandante che guarda con fiducia al futuro: nonostante questo Gorchakov si mise subito all’opera con il suo Stato Maggiore per elaborare un piano d’attacco efficace. Come si è detto non c’era altra scelta, per i russi, se non quella di travolgere di slancio le difese alleate più lontano possibile dalle formidabili opere d’assedio di Sebastopoli. Questa mancanza di alternative strategiche era un grave problema: sarebbe stato molto difficile, infatti, sorprendere i reparti francesi e sardi che tenevano il settore più vulnerabile del fronte lungo la Cernaia, e che non potevano non aspettarsi un’azione offensiva nemica.

    Le divisioni russe iniziarono a radunarsi per l’offensiva la sera del 14 agosto. Gorchakov divise le truppe disponibili in due ali della stessa forza: la sinistra (6a e 17a divisione) al comando del generale Pavel Liprandi di fronte ai colli di Karlovka e Ciorgune tenuti dai sardi, mentre l’ala destra, formata dalla 7a e dalla 12a divisione agli ordini del generale N.A. Read, si preparava ad attaccare il ponte di Traktir e le alture Fediukhine, dove erano schierate tre divisioni francesi⁸. Altre due divisioni (la 4a e la 5a) erano in riserva d’armata, pronte a essere impiegate a discrezione del comandante in capo dove si fosse rivelato opportuno. Il 15 agosto vennero distribuiti ai reparti munizioni e vodka in grande quantità. Mentre scendeva la notte i soldati russi, ammassati al riparo dalla ricognizione nemica nei profondi valloni sulla riva destra della Cernaia, udirono canti e acclamazioni levarsi dai bivacchi sulla sponda opposta del fiume: per i francesi era la fête de l’émpereur e gli uomini brindavano rumorosamente alla salute di Napoleone III. Dall’accampamento piemontese, un paio di chilometri più a sud-est, si levò un canto più sommesso, perché gli italiani celebravano l’Assunzione di Maria. Anche tra loro si consumava cibo migliore del solito, accompagnato da una dose generosa di vino.

    I rumori dei festeggiamenti continuarono fino a notte fonda, attutiti dalla nebbia che si andava addensando nelle valli. Alle tre del mattino gli ufficiali russi iniziarono a formare i loro reparti. Quarantasettemila fanti e diecimila cavalieri, appoggiati da più di duecento cannoni, si prepararono a dare l’assalto alle linee nemiche lungo un fronte di circa sei chilometri, tra gli acquitrini a nord del ponte di Traktir e il colle di Karlovka. Contro ogni aspettativa, la sorpresa sembrava riuscita: adesso, per volere dello zar Alessandro II, bisognava tentare di spezzare l’assedio di Sebastopoli. In poche ore, a qualsiasi costo.

    Prima dell’alba

    Gorchakov poteva essere soddisfatto: decine di migliaia di uomini si erano schierati a ridosso delle linee alleate, nel settore più vulnerabile, senza che nessuno si accorgesse di loro. Pareva impossibile. E in effetti non era stato possibile. Nel tardo pomeriggio del 15 agosto 1855, infatti, il generale Armand d’Allonville, comandante della cavalleria francese, aveva ricevuto i rapporti dalle pattuglie mandate in ricognizione sulla riva destra della Cernaia, che segnalavano la presenza di forze nemiche pronte all’attacco. D’Allonville aveva deciso di mettere in allarme il suo pari grado Émile Herbillon, che guidava la 1a divisione di fanteria e aveva la responsabilità della difesa delle alture Fediukhine e del ponte di Traktir⁹. Il suo dispaccio, per la verità, venne formulato in modo piuttosto impreciso:

    La battaglia della Cernaia.

    Attaque probable de deux côtés. Prendre les précautions nécessaires. Serons bien faibles etc. si se reste interrompu par la brume¹⁰.

    Quali direzioni? Quale sarebbe stato, secondo d’Allonville, l’obiettivo principale dell’azione nemica? Il ponte di Traktir, come sembrava verosimile, o la passerella in legno gettata sulla Cernaia circa tre chilometri a sud-est, che collegava le posizioni sul monte Hasfort (o Colle del Telegrafo) con il cosiddetto Poggio dei Piemontesi, l’avamposto tenuto dagli uomini del Corpo di spedizione sabaudo sulla riva orientale del fiume? Era più probabile, in altre parole, un attacco principale nel settore francese (Traktir) accompagnato da una finta in direzione delle posizioni sarde sul monte Hasfort, o viceversa? E l’invito a «non farsi interrompere dalla nebbia nel prendere le precauzioni necessarie» implicava l’invito a rafforzare subito le prime linee, la sera stessa del 15, o ad attendere che il sole del 16 agosto dissolvesse la nebbia mattutina?

    Il generale Herbillon non si era fatto particolarmente turbare dal dispaccio del collega. I cavalleggeri degli Chasseurs d’Afrique inviati in esplorazione oltre la Cernaia avevano svolto a dovere il loro compito, segnalando i movimenti di ingenti forze nemiche, ma la sera del 15 agosto la catena di comando francese non reagì con la necessaria prontezza, forse distratta dalla fête de l’émpereur: l’informazione sul probabile attacco da due direzioni, a quanto sembra, non venne trasmessa al quartier generale di Alfonso La Marmora, nel villaggio di Kamara, poco più di tre chilometri a sud delle linee francesi sulle alture Fediukhine. Per strano che possa sembrare, è certo che non fu dato alcun allarme: di conseguenza, appena terminati i festeggiamenti in onore di Napoleone III e dell’Assunzione della Vergine, negli accampamenti francesi e sardi la prima parte della notte trascorse tranquilla.

    Il comando del Corpo di spedizione sardo, in mancanza di segnalazioni sull’ammassamento di forze nemiche, non modificò gli ordini per il mattino del 16 agosto, che prevedevano l’avvicendamento delle truppe distaccate negli avamposti oltre la Cernaia. Così alle tre del mattino, in silenzio e ancora nel buio, i bersaglieri del 4° battaglione provvisorio si misero in marcia lungo il pendio che dal monte Hasfort scendeva verso il fiume: avanzavano tranquilli, certamente assonnati, ciascuno badando a dove metteva i piedi e a non perdere contatto dal compagno che lo precedeva.

    Nella quiete perfetta della notte che declinava non sembrava davvero ci fossero particolari motivi di allarme. Attorno ai bivacchi si parlava ormai da settimane di un imminente attacco nemico, ma la vita non era cambiata: i giorni di servizio agli avamposti si alternavano con quelli di riposo in seconda linea, e in entrambi i casi bisognava combattere non tanto contro i russi ma con il caldo feroce del mezzogiorno, il fastidio degli insetti, la dissenteria, e soprattutto contro il colera che aveva già falciato centinaia di uomini. Poco più di due mesi prima, il 7 giugno, si era arreso alla malattia anche il generale Alessandro La Marmora, fino ad allora alla testa della 2a divisione, fratello maggiore del comandante del Corpo di spedizione e inventore dei bersaglieri¹¹. I russi sembravano

    rassegnati alla sconfitta; la poca acqua pulita era il vero nemico che portava la morte.

    Verso le tre e mezzo del mattino la colonna del 4° battaglione attraversò il canale e il fiume senza incidenti, in perfetto ordine. Durante una breve sosta sulla sponda orientale della Cernaia vennero mandate avanti le pattuglie per prendere contatto con il 16° reggimento sul Poggio dei Piemontesi, in attesa del cambio. Pochi minuti dopo si distinse chiaramente il crepitare di una scarica di fucileria oltre il bordo del colle che incombeva sulla riva del fiume. Non era ancora abbastanza per un allarme generale: era già accaduto altre volte che gli avamposti del cosiddetto Zig-zag, circa un chilometro più a nord sul colle di Ciorgune, venissero attaccati dalla fanteria leggera nemica. Gli ufficiali piemontesi e i loro soldati restarono in attesa per capire se il fuoco andava spegnendosi, o se aumentava d’intensità.

    Alla prima scarica ne seguirono presto una seconda e una terza. L’eco della fucileria sembrava allargarsi rapidamente sia verso est, in direzione del colle di Karlovka, sia verso le posizioni francesi che proteggevano l’accesso settentrionale al ponte di Traktir. Subito dopo uno degli uomini mandati in avanscoperta scese correndo dal Poggio dei Piemontesi per riferire al comandante pro tempore del 4° battaglione, il capitano Emanuele Chiabrera¹², che dalla sommità del colle si distinguevano chiaramente masse di fanteria nemica incolonnate per l’attacco; Chiabrera, ovviamente, inviò una staffetta alla 2a divisione, sul monte Hasfort, per dare l’allarme e chiedere nuovi ordini.

    La distanza tra la base del Poggio dei Piemontesi e il posto di comando del generale Ardingo Trotti¹³ – che all’inizio di giugno aveva sostituito Alessandro La Marmora alla testa della 2a divisione – era di circa cinquecento metri, che il bersagliere mandato da Chiabrera coprì in pochi minuti. Il fuoco di fucileria non accennava a diminuire, e Trotti si rese subito conto della gravità della situazione: non si erano ancora delineati chiaramente lo scopo e l’ampiezza del movimento nemico, ma non potevano esserci dubbi sul fatto che si trattasse di un’operazione di vasto respiro. Il comandante della 2a divisione decise quindi di «far prendere le armi a tutte le sue truppe»¹⁴ senza aspettare istruzioni dal quartier generale; poi si mise personalmente alla testa degli altri tre battaglioni della 4a brigata provvisoria, accompagnati dalla 13a batteria da campagna, precedendoli lungo lo stesso itinerario seguito circa mezz’ora prima dai bersaglieri. Appena giunto al canale di drenaggio – uno scolmatore che si dipartiva dalla riva sinistra della Cernaia fino ai piedi del monte Hasfort – il generale Trotti si convinse della gravità della situazione, e diede ordine anche all’altra brigata della divisione, la 5a provvisoria, «di avanzare tosto anche essa colla sua batteria e di collocarsi in seconda linea». Albeggiava. Il cielo si era fatto ormai celeste pallido sulle colline a oriente della Cernaia, nella direzione da cui proveniva il crepitare della fucileria, quando a nord-ovest le batterie russe di Sebastopoli aprirono il fuoco, inondando di bagliori rossastri l’ultimo bastione della notte. Trotti si affrettò verso il Poggio dei Piemontesi. Iniziava la battaglia: con ogni probabilità avrebbe segnato il destino della piazzaforte assediata, e quindi dell’intera guerra. Quando il generale raggiunse i trinceramenti esterni del Poggio e poté spingere lo sguardo verso il colle di Ciorgune e i due valloni che lo lambivano, quello che vide gli tolse ogni dubbio:

    il nemico erasi avanzato su quattro colonne, ed aveva occupato colla prima di esse il monte che sovrasta a Ciorgune e Carlovska, sulla groppa del quale stabilì tosto delle artiglierie, [mentre] colla seconda e colla terza avanzava lungo il monte del Zig-zag all’attacco del trinceramento, l’una diretta al saliente di destra, l’altra all’ala sinistra, e colla quarta colonna alla estrema pendice nord del monte stava per scendere alla Cernaja presso al sito d’una antica ridotta spianata.

    Vedevasi più lontano una quinta colonna scendere verso la Cernaja per la strada del ponte di Traktir, ed a destra di essa spiegavansi numerose riserve facendo fronte alle nostre posizioni¹⁵.

    La colonna russa che scendeva dal colle di Ciorgune dirigendosi verso il ponte di Traktir era la chiave della situazione tattica: ma il generale Trotti non poteva darsene troppo pensiero, visto che quelle truppe si stavano allontanando dalle linee sarde mentre le altre colonne russe iniziavano l’assalto. Erano quasi le cinque del mattino e il sole era ormai sull’orizzonte, in faccia agli uomini della 4a brigata provvisoria; il suo comandante, il generale Rodolfo Gabrielli di Montevecchio, dopo aver preso commiato da Trotti sul Poggio dei Piemontesi montò a cavallo e si spinse avanti verso i trinceramenti dello Zig-zag, dove tuonava il cannone.

    L’assalto russo

    Il piano di Gorchakov prevedeva inizialmente un duplice, simultaneo attacco sia verso il Poggio dei Piemontesi da nord, lungo la dorsale del colle di Ciorgune, affidato alla 17a divisione del corpo del generale Liprandi, sia verso il ponte di Traktir da nord-est, affidato invece alla 12a divisione dell’ala destra del generale Read; solo in un secondo momento, quando gli fosse stato riferito in quale settore si stessero compiendo i progressi più promettenti, il comandante in capo russo avrebbe deciso dove impiegare le forze ingenti (due divisioni di fanteria, una di cavalleria e un centinaio di cannoni) tenute in riserva d’armata.

    La 17a divisione iniziò ad avanzare alle primissime luci del giorno aprendosi a ventaglio in cinque colonne principali, come avrebbe ben presto rilevato il generale Trotti una volta raggiunto il posto d’osservazione avanzato sul Poggio dei Piemontesi. I reparti russi all’estrema sinistra, dopo aver occupato senza difficoltà il colle di Karlovka, vi si attestarono assieme ad alcune batterie d’artiglieria, che aprirono subito il fuoco da sud-est prendendo d’infilata le posizioni sarde sullo Zig-zag. Contemporaneamente la seconda colonna, muovendo da nord a sud lungo la dorsale del colle di Ciorgune, investì frontalmente le linee del 4° bersaglieri, che aveva appena avuto il tempo di dare il cambio al 16° fanteria. Come si legge nella Relazione di Trotti, «il battaglione era tutto spiegato lungo i parapetti», con la 1a compagnia «distesa a destra nell’intervallo fra le due linee del trinceramento sul ciglio verso Ciorgune», mentre la 2a compagnia, che inizialmente si era spinta avanti oltre le fortificazioni campali, era stata costretta a ripiegare e si era schierata «appoggiando la propria destra al trinceramento, e prolungando la sinistra per la china fino alla Cernaja»¹⁶. Il capitano Chiabrera aveva poi distaccato la 4a compagnia «a custodire la gola della strada di Ciorgune», subito a est del colle, e trattenuto in riserva la 3a, ai propri ordini diretti e al centro del dispositivo difensivo del battaglione.

    I combattimenti più duri si accesero nel settore della 1a compagnia bersaglieri:

    l’assalto al trinceramento fu sostenuto con fermezza per circa tre quarti d’ora malgrado le soperchianti forze dell’attaccante ed il fuoco di rovescio delle sue artiglierie stabilite sul monte di Ciorgune. Molti furono feriti di baionetta al parapetto, e nella pressa del combattimento, mancando il tempo di ricaricare le armi, sono stati gettati sul nemico i sassi stessi del coronamento del parapetto. Si dovette infine cedere al numero essendo le ali del trinceramento oltrepassate.

    Erano circa le cinque del mattino. I bersaglieri, che rischiavano di restare accerchiati, si ritirarono combattendo dallo Zig-zag verso sud; contemporaneamente il battaglione del 16° fanteria – a cui avevano dato il cambio un’ora prima – «si ritirò per la groppa del monte sotto la protezione della 1a e 2a compagnia, e risalì dall’altra parte della strada a occupare i trinceramenti della rocca dell’acquedotto», ovvero del Poggio dei Piemontesi, dove si trovavano già altre due compagnie di fanteria. Il capitano Chiabrera, riordinati i suoi uomini, li dispose alle falde dell’altura, prolungando la propria linea a sinistra fino alla riva della Cernaia, in modo da coprire il ponticello che collegava gli avamposti italiani al monte Hasfort.

    La situazione era piuttosto critica, anche perché ancora non sembrava essersi manifestato il massimo sforzo nemico. Non era chiaro se i russi avrebbero attaccato a fondo verso il monte Hasfort, o più a settentrione. Il generale Gabrielli di Montevecchio, agendo probabilmente di propria iniziativa, si mise alla testa del battaglione del 10° fanteria, che guidava la colonna dei rinforzi della sua brigata, e si spinse avanti insieme a una compagnia del 5° battaglione provvisorio bersaglieri per riconquistare le posizioni dello Zig-zag. I piemontesi lanciatisi al contrattacco ricevettero il fuoco nemico sia frontalmente, da «una batteria d’artiglieria che si era già stabilita sul sito dei trinceramenti», sia dal loro fianco sinistro, perché «un nugolo di cacciatori» russi stava scendendo verso il fiume percorrendo il pendio occidentale del colle. Nonostante questo l’azione si stava sviluppando con successo, a quanto sembra, quando il generale Trotti ricevette un dispaccio dal comandante della cavalleria francese in cui gli veniva chiesto «di non allontanare le truppe dal fianco destro della sua posizione». Trotti diede subito ordine a Gabrielli di Montevecchio di interrompere l’attacco; visto che sarebbe stato imprudente lasciare gli uomini del 10° fanteria e i bersaglieri che li accompagnavano in posizione esposta sul ciglio meridionale del colle di Ciorgune, Trotti decise addirittura di «comandare una marcia in ritirata per scaglioni alla posizione primitiva dietro il canale, il che fu eseguito nel massimo ordine».

    Era contro i francesi, infatti, che si stava sviluppando il principale attacco russo. Nel settore del fronte difeso dalla 4a brigata sarda, dopo il ripiegamento del 10° fanteria, ci fu una pausa; al contrario, le sorti della battaglia stavano per essere decise al ponte di Traktir e sulle alture di Fediukhine, verso le quali convergevano due divisioni nemiche, precedute e affiancate da sciami di fanteria leggera e appoggiate da varie batterie di artiglieria. Gli uomini del Corpo di spedizione sardo, sul monte Hasfort, si trovavano nella posizione ideale per osservare lo svolgimento dell’azione:

    le colonne russe scese per la strada del ponte di Traktir e pel sito della ridotta spianata, con una quantità grandissima di cacciatori sul loro fianco sinistro […] e sostenute da numerosa artiglieria, che si valuta a quattro batterie da 24 [libbre], si slanciarono rapidamente e forzarono a destra la testa di ponte di Traktir, malgrado che fosse gagliardamente difesa, mentre a sinistra, ad 800 metri circa di distanza dalla nostra artiglieria, [i russi] passarono la Cernaja ed il canale su ponticelli portatili, ed arrampicandosi per il ripido declivio dell’altipiano della 3a divisione francese difeso da poche truppe già penetravano fin presso al campo degli zuavi.

    Il sole stava disperdendo la nebbia anche nel fondovalle. Lo spettacolo che si dispiegava davanti agli occhi degli ufficiali e dei soldati piemontesi era grandioso, paragonabile a quello delle grandi battaglie dell’epoca napoleonica, che erano state combattute con tattiche simili ma con armi decisamente meno letali. Il principe Gorchakov verso le sei del mattino inviò il tenente Andrii Krasovsky, uno dei propri aiutanti di campo, con un messaggio di sole tre parole (nell’originale russo) per il generale Read: «È il momento di iniziare». Il comandante dell’ala destra russa, che stava già dirigendo la sua 12a divisione contro i francesi al ponte di Traktir, pare abbia chiesto stupefatto a Krasovsky che cosa dovesse iniziare, senza ricevere risposta dal giovane ufficiale, che ignorava quanto lui le intenzioni di Gorchakov. Read decise che da lui si poteva volere una sola cosa, ovvero intensificare l’attacco e ampliare il fronte: diede quindi ordine anche alla sua altra divisione di passare la Cernaia e dare l’assalto alle alture Fediukhine, anche se non si vedevano ancora i rinforzi di cavalleria e artiglieria che gli erano stati promessi da Gorchakov qualora avesse deciso di esercitare il massimo sforzo sulla destra¹⁷.

    In realtà il comandante in capo russo aveva ancora le idee confuse. Il generale Liprandi, nel settore tenuto dai sardi, aveva fatto qualche progresso incoraggiante, conquistando il colle di Ciorgune, ma si trovava adesso davanti all’ostacolo costituito dal Poggio dei Piemontesi; quando lo avesse espugnato avrebbe dovuto ancora attraversare la Cernaia e il canale d’irrigazione, oltre il quale il nemico era saldamente trincerato sul monte Hasfort. Le possibilità di uno sfondamento decisivo in quel settore sembravano quindi piuttosto scarse, ma Gorchakov esitava ancora a gettare tutto il peso dell’attacco sull’ala opposta, dove Read non sembrava, per il momento, aver fatto molti progressi per respingere i francesi dal ponte di Traktir. Piuttosto che impegnare subito le due divisioni di riserva, il comandante in capo russo diede ordine a Liprandi di dar manforte all’ala destra: una colonna della 17a divisione russa venne quindi diretta dal colle di Ciorgune verso nord-ovest, per passare la Cernaia assieme alle unità di Read che stavano già muovendo all’attacco delle alture Fediukhine. Come ha scritto Orlando Figes nel suo fondamentale saggio sulla guerra di Crimea, «gli uomini di Read attraversarono il fiume vicino al ponte di Traktir, ma senza adeguato sostegno di cavalleria e artiglieria, marciarono verso la quasi certa distruzione»… Le dense masse di fanteria russa, ammirevoli per coraggio e spirito di sacrificio, vennero falciate inesorabilmente dagli artiglieri e dai fucilieri francesi che miravano su di loro dalle pendici delle alture Fediukhine. In venti minuti duemila russi erano stati abbattuti dal fuoco nemico: solo a quel punto Gorchakov si decise a inviare a Read almeno una parte della riserva d’armata – la 5a divisione – ma era già troppo tardi¹⁸.

    L’assalto russo venne immediatamente rinnovato con disperato coraggio, ma con scarso coordinamento tattico tra le varie unità. Il generale Read impiegò i rinforzi senza riuscire a individuare lo Schwerpunkt – il punto focale – della sua azione offensiva, che a quel punto era diventata chiaramente lo sforzo principale dell’armata zarista per vincere la battaglia, e quindi anche l’ultima speranza di rovesciare le sorti della campagna di Crimea. I francesi furono costretti a retrocedere di qualche centinaio di metri dal margine orientale delle alture Fediukhine: per loro era arrivato il momento più difficile, quando dal monte Hasfort il generale Trotti vide i nemici che «arrampicandosi per il ripido declivio dell’altipiano della 3a divisione francese difeso da poche truppe già penetravano fin presso al campo degli zuavi».

    La crisi non durò a lungo. I fanti della 2a divisione della guardia imperiale del generale Jacques Camou, schierata a sinistra della 3a divisione, non cedettero altro terreno; gli zuavi, inastate le baionette, contrattaccarono all’arma bianca, ricacciando indietro i russi già decimati durante l’avanzata dalla Cernaia alle alture. Intanto due batterie da campagna dell’esercito sabaudo avevano aperto un fuoco micidiale contro il fianco sinistro del nemico, prendendo d’infilata i battaglioni che cercavano ancora di alimentare l’assalto. Come scrive il generale Trotti nella sua Relazione,

    a respingere sì ardito attacco [russo], ripetutosi per ben due volte sulla destra delle posizioni francesi, ed a renderlo fatale al nemico concorsero – col gagliardo valore mostrato dalla 3a divisione francese e particolarmente dai zuavi – la 13a batteria d’artiglieria e quattro pezzi della 16a, che avevano a tal fine disposti i 10 pezzi a scaglioni sul versante sinistro del poggio che scende al ponte in pietra del canale, e fecero un fuoco continuato nel fitto della colonna d’assalto in tutto il tempo ch’esso ha durato e furono causa principale delle gravi perdite ivi subite dal nemico, che lasciò il suolo coperto dei suoi cadaveri¹⁹.

    Il generale Read, resosi conto che l’attacco era ormai fallito, cercò di guidare i propri uomini in salvo sulla riva destra della Cernaia, ma venne ucciso da una scheggia di granata. Erano circa le otto e mezzo e la battaglia per i russi era perduta. Gorchakov assunse direttamente il comando dell’ala destra: ma la sola cosa che poteva fare, ormai, era limitare i danni, e mantenere il controllo della situazione mentre le sue truppe, in buon ordine, rompevano il contatto con il nemico.

    Il contrattacco dei bersaglieri

    Le divisioni francesi che avevano sostenuto l’urto principale russo sulle alture Fediukhine, duramente provate, avevano bisogno di rifornirsi di munizioni e riordinare i reparti. Non così i battaglioni della 2a divisione sarda, che dopo l’aspro ma breve combattimento sostenuto nelle prime ore del mattino non erano più stati impegnati in maniera severa. Come avrebbe scritto poi il generale Trotti,

    era il momento opportuno di riprendere i trinceramenti del monte del Zig-zag come lo richiedeva l’onore delle nostre armi. A tal fine, appena le colonne nemiche avevano ripassata la Cernaja, ho fatto scendere dalla rocca dell’Acquedotto il 4° battaglione bersaglieri, e disteso in catena lungo il ciglio della riva elevata della destra della Cernaja, di fronte al monte del Zig-zag, per ricacciare i cacciatori nemici che ne occupavano la china, mentre una sezione di obici della 13a batteria ne copriva con molta giustezza di tiro la sommità e la faceva sgombrare dal nemico che trovassi quindi in piena ritirata da tutte le parti.

    Dunque furono proprio gli uomini del capitano Chiabrera, nonostante quel giorno avessero già combattuto più duramente di altri reparti, a essere mandati avanti per riconquistare le posizioni perdute «come richiedeva l’onore delle armi». Per visualizzare correttamente la loro azione, dobbiamo tener presente che i bersaglieri non erano addestrati per caricare in massa, ma per aprirsi sul terreno e prendere di mira i nemici: così fecero le compagnie del 4° battaglione, che ingaggiarono un duello a distanza con i cacciatori russi, loro omologhi, sul pendio che dalla Cernaia risaliva verso la sommità del colle di Ciorgune e i trinceramenti dello Zig-zag. Questo scontro tra tiratori scelti si prolungò per alcuni minuti, mentre due obici sardi bersagliavano la sommità dell’altura, dove si trovava ancora un reparto di fanteria di linea nemica. A quel punto Trotti diede ordine di proseguire l’attacco a fondo: due battaglioni del 10° e del 15° reggimento si portarono avanti seguendo la linea dei bersaglieri di Chiabrera, che intanto continuavano a incalzare il nemico verso settentrione, mentre alla loro sinistra, sul terreno pianeggiante tra il colle di Ciorgune e la Cernaia, si schierarono anche i battaglioni dell’11° e del 17° reggimento, sempre coperti dal tiro delle batterie del monte Hasfort. Un’azione ben concertata, un esempio di ottimo coordinamento tattico tra fanteria leggera, fanteria di linea e artiglieria, che garantì ai reparti della 2a divisione un rapido successo contro le forze russe già in ritirata.

    «L’attacco procedeva vigorosamente», conclude Trotti nella sua Relazione,

    ma fu trattenuto per gli ordini avuti dal generale Pélissier, il quale temette che si impegnasse perciò una nuova azione generale; se non ché la linea dei bersaglieri essendo in quel punto che l’ordine loro perveniva giunta sulla vetta, il nemico già sgombrava la posizione, e si poté senza pericolo ricuperarla alle ore 08:30. Ho dato quindi ordine al battaglione del 9° reggimento di occupare definitivamente i trinceramenti unitamente al 4° bersaglieri cui spettava di esservi in avamposti e collocai il battaglione del 10° nella gola inferiore.

    La battaglia dei piemontesi era durata cinque ore. Le perdite del Corpo di spedizione sardo erano state molto limitate:

    un ufficiale morto sul campo di battaglia, il sottotenente Andreis del battaglione del 9° reggimento, e di 13 sott’ufficiali e soldati; feriti 10 ufficiali e 149 sott’ufficiali e soldati, dei quali il luogotenente Bigini è morto nel giorno stesso allo spedale in conseguenza della sua ferita: due altri soldati mancanti furono visti feriti sul monte del Zig-zag e rimasero soli prigionieri del nemico.

    L’eroe della giornata era stato senza dubbio il capitano Chiabrera, leggermente ferito nel corso dell’ultimo attacco al colle di Ciorgune. Ma la perdita più dolorosa, per l’esercito sabaudo, era stata quella del generale comandante la 4a brigata, conte di Montevecchio,

    che dopo aver cambiato un cavallo ferito, cadde egli stesso d’un colpo mortale avanti al 10° battaglione mentre lo faceva stendere in bersaglieri animando la truppa, e nel dolore della sua ferita non ebbe altro pensiero né altre parole che per la patria e per l’onore delle armi piemontesi.

    Nel pomeriggio il grosso delle forze sarde ripiegarono sulla riva sinistra della Cernaia. Come il giorno precedente, due soli battaglioni rimasero di guardia negli avamposti dello Zig-zag, di Karlovka e del Poggio dei Piemontesi. Drappelli di cavalleria mandati in ricognizione verso oriente tornarono senza nulla da segnalare, ma verso sera una sentinella troppo nervosa diede l’allarme, costringendo i compagni a restare alcune ore con le armi al piede.

    La fine

    Non ci sarebbe stato nessun «ritorno offensivo» del nemico, né quella notte né in seguito²⁰. Il 17 agosto trascorse in una quiete irreale; sei parlamentari russi si presentarono al comando alleato e chiesero una tregua d’armi per seppellire i morti e recuperare i feriti. La tregua venne ovviamente concessa, anche se era ormai troppo tardi per soccorrere la maggior parte degli uomini rimasti ad agonizzare sul campo di battaglia. Il 18 agosto, prima dell’alba, iniziò il lavoro delle squadre di recupero, che proseguì ininterrottamente fino al tramonto.

    I russi erano stati duramente sconfitti: non solo perché avevano lasciato sul campo alcune migliaia di morti e feriti²¹, ma perché dovevano rassegnarsi all’imminente caduta della piazzaforte di Sebastopoli, visto che non sarebbe più stato possibile portare aiuto dall’esterno alla guarnigione ormai allo stremo delle forze.

    La guerra era perduta e lo zar Alessandro furibondo. Gorchakov scaricò la responsabilità della sconfitta sul generale Read, che da morto non poteva più difendersi, colpevole a suo dire di avere mal interpretato gli ordini iniziali, e poi di non aver saputo utilizzare in maniera efficace i rinforzi inviatigli per tempo. Erano accuse non del tutto prive di fondamento, ma ingenerose, visto che Read aveva guidato all’assalto i suoi reparti e pagato con la vita il fallimento. Certo avrebbe potuto utilizzare meglio la 5a divisione, quando finalmente gli era stata concessa per ridare slancio all’offensiva: ma spesso quello che sembra possibile realizzare sulla carta topografica non è altrettanto facile da mettere in pratica sul campo di battaglia. Il terreno aperto dove far dispiegare la 5a divisione, tra il margine dei colli e la riva destra della Cernaia, era acquitrinoso e ampio meno di un chilometro; in più, era battuto dall’artiglieria francese sulle alture Fediukhine e persino da quella sarda sul monte Hasfort. È probabile che il generale Read, piuttosto che lasciare la grande unità che gli era stata inviata di rinforzo esposta a perdite inutili, abbia preferito mandare avanti i battaglioni a mano a mano che si rendevano disponibili. Anche il fattore tempo aveva un’importanza decisiva: ogni minuto che passava rendeva più disperata l’impresa di spezzare il fronte francese, visto che anche il nemico stava certamente facendo affluire le riserve nel settore minacciato. La condotta tattica di Read può essere stata non all’altezza della situazione, ma è comunque difficile dimostrare che istruzioni differenti avrebbero permesso alla 5a divisione russa di intervenire in modo più efficace nella battaglia.

    Il principe Gorchakov, da parte sua, non poteva essere fiero della propria azione di comando. Non aveva trasmesso ordini chiari ai suoi due principali subordinati, né aveva deciso con la necessaria prontezza in quale settore esercitare il massimo sforzo: il successo iniziale sulla sinistra non era stato sfruttato oltre l’inutile occupazione del colle di Ciorgune, mentre l’azione di Read sulla destra era stata sostenuta dalle riserve solo dopo il sanguinoso fallimento del primo assalto alle alture di Fediukhine. Il principale responsabile della sconfitta del 16 agosto era lui, e lui soltanto.

    I giorni di Sebastopoli erano contati. L’8 settembre, dopo aver ammassato uomini e munizioni sufficienti per un ennesimo attacco in forze, gli inglesi attaccarono la ridotta del Redan e vennero sanguinosamente respinti; ma quella stessa mattina i francesi presero d’assalto il bastione di Malakoff, a poche centinaia di metri di distanza, cacciandone gli esausti difensori dopo due ore di combattimenti furibondi. Dal Malakoff era possibile colpire con precisione qualsiasi punto della città: la piazzaforte non era più difendibile, e la guarnigione si ritirò nelle fortificazioni a nord del porto durante la notte successiva. Il 17 ottobre 1855 una squadra navale anglo-francese bombardò le fortificazioni costiere russe sulla penisola di Kinburn, alla foce del Dnjepr, costringendole alla resa; quando anche l’Austria-Ungheria minacciò di entrare nel conflitto a fianco degli alleati, lo zar si convinse a discutere la pace, che venne firmata a Parigi il 30 marzo 1856²².

    Era stata una guerra lunga, difficile, sanguinosa, funestata dall’imperversare delle malattie e dall’incompetenza tattica di molti generali, abituati ancora a manovrare le truppe secondo l’esempio delle guerre napoleoniche su campi di battaglia spazzati dal fuoco dei nuovi fucili con canna ad anima rigata. Da parte sua, il piccolo Corpo di spedizione piemontese aveva combattuto poco ma bene: molti ufficiali – dai comandanti di divisione ai giovani sottotenenti – si erano dimostrati all’altezza del loro compito, capaci di guidare gli uomini con l’esempio; anche il servizio medico, messo per la prima volta alla prova lontano dalla patria, aveva fatto sforzi eccezionali per alleviare le sofferenze degli uomini colpiti da colera e tifo.

    Le parole finali della Relazione del generale Trotti sono significative dello spirito che regnava nell’accampamento piemontese all’indomani della battaglia della Cernaia. Rivolgendosi al suo superiore La Marmora,

    il comandante della 2a divisione così riassumeva quanto accaduto la mattina del 16 agosto:

    Il risultato di questa giornata, che non esito a dire gloriosa per le nostre armi, predisposto dalla S.V. coi provvidi ordinamenti coi quali fu preparato il terreno su cui abbiamo combattuto, fu compiuto dalla mirabile condotta della truppa e da quella degli ufficiali. Sarebbe troppo lungo indicare i nomi di tutti coloro che si distinsero più particolarmente e di citare i singoli fatti preziosi degni di lode. Vi fu una nobile gara in tutti d’onorare l’esercito e la patria in faccia agli alleati; molti soldati ed ufficiali malati nelle infermerie dei corpi ed estenuati da lunghe febbri si rinvigorirono alla chiamata dell’onore e vollero, malgrado i superiori, dividere i pericoli e le glorie dei compagni.

    Anche nel tono ingenuamente adulatorio e trionfalistico della Relazione si può isolare un particolare degno di nota: la vittoria conquistata sul campo, seppur minore dal punto di vista tattico, era stata fondamentale perché ottenuta in faccia agli alleati. Il generale Trotti aveva perfettamente ragione, perché era quello il vero scopo politico per cui il conte di Cavour aveva inviato il Corpo di spedizione in Crimea: mostrare a Francia e Inghilterra che gli italiani – o meglio, i sudditi del Regno di Sardegna, che ben presto sarebbero diventati italiani grazie al sostegno della Francia – sapevano combattere e morire a fianco dei loro alleati. I soldati e gli ufficiali caduti così lontano dall’Italia non dovevano essere dimenticati, perché avevano dato la loro vita per costruire la patria futura.

    ¹ AUSSME, fondo G-1, vol. 53, Diario storico del Comando della 2a divisione. Questo breve saggio sulla battaglia della Cernaia è basato in larga misura sui documenti conservati nell’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (da qui in avanti: AUSSME), nel fondo G-1, inventariato e ricchissimo di informazioni. Ringrazio il colonnello Emilio Tirone, direttore dell’archivio, e il suo personale civile e militare per avermi consentito di usufruire al meglio del materiale nei pochi giorni che avevo a disposizione. Come vedremo meglio più avanti, il movimento della 5a brigata di Mollard qui descritto avvenne su ordine del generale Ardingo Trotti, comandante della 2a divisione, poco prima delle quattro del mattino, mentre la brigata sorella – la 4a provvisoria del generale Rodolfo Gabrielli di Montevecchio – si trovava già impegnata sulla linea del fronte.

    ² Non ha molto senso l’uso del genere femminile per indicare il piccolo fiume nero, ma è ormai talmente consolidato nella pubblicistica italiana che si è deciso di mantenerlo.

    ³ Cfr. P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Einaudi, Torino 1962, p. 586. Una terza divisione (agli ordini del generale Giorgio Ansaldi), formata da una brigata di fanteria e un reggimento di cavalleria, era in riserva di corpo d’armata.

    ⁴ Citato in O. Figes, Crimea. The Last Crusade, Allen Lane, Londra 2010, p. 380.

    ⁵ Cit. in A. Seaton, The Crimean War. A Russian Chronicle, Batsford, Londra 1977, p. 195.

    ⁶ All’alba del 5 novembre 1854 il comandante della piazza di Sebastopoli, principe Aleksander Menshikov, lanciò un attacco a fondo nei pressi della foce della Cernaia, investendo con oltre 40.000 uomini le posizioni britanniche sui colli che dominavano la riva destra del fiume, note agli alleati come Inkerman Ridge («cresta di Inkerman») dal nome delle rovine di un villaggio vicino. Dopo furiosi combattimenti i russi vennero respinti lasciando sul terreno circa 12.000 caduti.

    ⁷ Cfr. A. Seaton, op. cit., p. 381.

    ⁸ D. Richards, Conflict in Crimea. British Redcoats on Russian Soil, Pen&Sword Military, Barnsley 2006, p. 146. Due delle tre divisioni francesi erano state inviate da pochi giorni in quel settore tranquillo del fronte per recuperare energie e morale dopo le dure perdite subite negli assalti contro la ridotta del Mamelon a Sebastopoli, ed erano quindi piuttosto indebolite. In tutto sulle alture Fediukhine e negli avamposti al ponte di Traktir

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