Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I dimenticati di Mussolini
I dimenticati di Mussolini
I dimenticati di Mussolini
E-book470 pagine6 ore

I dimenticati di Mussolini

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’incredibile storia dei soldati che dissero “no” ai nazisti

La storia dei militari italiani deportati nei lager nazisti e nei campi alleati dopo l’8 settembre 1943

All’indomani dell’armistizio, l’8 settembre 1943, oltre seicentomila italiani rifiutarono di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco. Molti di loro furono deportati nei lager nazisti. Gli IMI, gli “Internati militari italiani”, furono inizialmente trattati come prigionieri di guerra, al pari degli altri soldati alleati catturati, ma presto la ritorsione del Reich li sottrasse alle garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra. Per l’esercito dell’Asse erano traditori. Li attendevano sofferenze, privazioni e, soprattutto, la totale disumanizzazione: vissero in condizioni durissime, sottoposti allo stesso orribile trattamento delle vittime delle persecuzioni razziali. Vennero utilizzati come manodopera coatta fino alla fine della guerra, senza le tutele della Croce Rossa che spettavano loro. Il viaggio nei vagoni blindati verso la Germania, per giungere all’inferno dei campi, è l’aspetto che ha maggiormente segnato la memoria dei sopravvissuti. Una vicenda poco nota della storia recente del nostro Paese, che questo libro finalmente racconta. 

Chi erano gli IMI?

Da prigionieri a internati.
Il passaggio per i campi di raccolta o smistamento.
La vita nel campo di destinazione.
Giuseppina Mellace
nata a Roma nel 1957, di professione insegnante, è anche autrice di pièce teatrali, saggi, romanzi e racconti, soprattutto di tema storico. Ha scritto un romanzo a più mani con il laboratorio di Cinzia Tani. Per la Newton Compton ha pubblicato nel 2014 Una grande tragedia dimenticata, sull’eccidio delle Foibe, con cui nello stesso anno ha vinto il premio “Il Convivio” per la sezione saggistica storica; Delitti e stragi dell’Italia fascista e L’oro del Duce.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2018
ISBN9788822728791
I dimenticati di Mussolini

Correlato a I dimenticati di Mussolini

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia europea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I dimenticati di Mussolini

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I dimenticati di Mussolini - Giuseppina Mellace

    DALL’ARMISTIZIO

    AL DRAMMA DELLE DEPORTAZIONI

    L’Italia nel 1943. I primi prigionieri

    A poche ore dall’inizio della guerra ci furono i primi italiani catturati dagli Alleati ricordati dallo storico Arrigo Petacco: «il tenente Marco Giovannini e il sergente Salvatore Caputo, della divisione libica Cirene, catturati in uno scontro di pattuglie la sera del 10 giugno 1940. La guerra, per l’Italia, era iniziata da poche ore»².

    A parte quest’episodio e molti altri simili nel loro genere, la questione divenne drammatica verso la fine del ’42, soprattutto dopo la cocente sconfitta di El-Alamein, quando il Duce pensò concretamente di uscire dal conflitto dignitosamente. Il problema principale restava l’ingombrante alleato teutonico, sempre convinto della vittoria finale.

    Mussolini, in una lettera del 26 marzo dell’anno successivo, scriveva: «A mio avviso non si potrà distruggere la Russia neppure dopo un quanto mai improbabile intervento del Giappone, perché le distanze sono davvero enormi. Occorre quindi chiudere in un modo o nell’altro il capitolo Russia […] con una pace»³.

    Al contrario i tedeschi rimasero sulle loro posizioni, ma inviarono in Italia mezzi e uomini per creare quella che sarà poi la Divisione M che avrebbe dovuto far dimenticare i disastri in Africa e aiutare il Duce a smantellare gli avversari non solo esterni, ma soprattutto in casa.

    Primi fra tutti gli stessi Savoia, sempre più preoccupati di mantenere la Corona che badare alle sorti del proprio popolo; poi molti dei suoi generali che non credevano più nel successo della guerra; e il Vaticano, addolorato nel vedere peggiorare di giorno in giorno le condizioni della popolazione e il crescere del numero delle vittime non solo tra i militari e gli ebrei, che dopo le leggi razziali erano i nemici comuni con la Germania.

    Quest’ultima, vista la parabola discendente di Mussolini e il calo pauroso dei consensi, temendo quello che poi si avvererà con l’armistizio, si preoccupò di controllare la penisola divenuta vulnerabile dopo la perdita dell’Africa del Nord; in poche parole stava creando i presupposti di un proprio insediamento con o senza l’8 settembre.

    Infatti, il 7 maggio 1943 cadde Tunisi e due giorni dopo l’okw, Oberkommando der Wehrmacht, Alto Comando delle Forze Armate tedesche, comunicava la creazione di tre nuove formazioni di ausilio all’Italia e anche l’arrivo dalla Francia di altri reparti.

    Verso la metà di maggio la Divisione Corazzata paracadutisti Hermann Göring, che diverrà tristemente famosa per gli eccidi in Italia, giunse nella nostra penisola mentre un’altra si posizionava a Bari.

    Il tutto avveniva mentre crescevano i dubbi sulla tenuta italiana nella conduzione della guerra, sulla volontà della stessa monarchia e del popolo ogni giorno più stanco, sfiduciato e affamato.

    Sempre in quel fatidico mese di maggio, Keitel, comandante dell’okw, insieme agli altri capi dei comandi tedeschi incominciò a pianificare il futuro senza il debole alleato; tutto ciò fu redatto nel documento Panorama della situazione nell’eventualità del ritiro dell’Italia dalla guerra⁴.

    Di conseguenza quei rinforzi stavano diventando delle truppe occupanti come già accadeva anche sugli altri fronti, dove erano impegnati gli italiani che, più o meno inconsciamente e superficialmente, stavano cedendo le migliori postazioni.

    Rovesciando il punto di vista e prendendo in esame le considerazioni dei soldati semplici, possiamo notare come, anche tra la maggior parte di loro, incominciasse a incrinarsi quella fede granitica nel Duce e in ciò che avevano appreso con tanti anni di propaganda.

    Il nostro soldato Quinto, una volta arrivato in Grecia per conquistare l’altra sponda dell’impero e portare la civiltà italica, si accorse che quegli uomini e donne non avevano nulla di inferiore, anzi erano proprio come lui non solo fisicamente, ma soprattutto economicamente e socialmente; erano persone che dovevano sbarcare il lunario, lavoravano spaccandosi la schiena tutto il giorno e aspettavano la domenica per riposarsi e, magari, incrociare lo sguardo di una bella ragazza⁵.

    Intanto il 21 maggio 1943, quindi ancora lontano dall’Ordine Grandi del 25 luglio, «furono pronte le prime bozze delle direttive operative che dovevano regolamentare l’intervento della Wehrmacht nel caso di un mutamento politico-militare in Italia»⁶ senza che Vittorio Emanuele iii se ne preoccupasse, dimostrando quello che sarebbe stato il suo atteggiamento di monarca mentre la classe dirigente incominciava a perdersi, a smarrirsi creando dubbi, incertezze e confusioni che contribuirono al completo disfacimento dell’organizzazione fascista sempre più subordinata all’imponente alleato teutonico.

    Non a caso l’arrivo di soldati del Reich fu anche sollecitato dallo stesso Mussolini che vedeva scemare il consenso nei suoi confronti soprattutto dopo la caduta di Pantelleria con l’immediata resa dei suoi soldati senza neanche combattere gli americani l’11 giugno 1943, dimostrando tutta la stanchezza per una guerra che si stava perdendo e che era totalmente diversa da com’era stata propagandata.

    Di conseguenza, altre divisioni tedesche si disposero nel Meridione e alle porte della capitale quasi per esautorare il potere politico e militare.

    Lo sbarco in Sicilia del 10 luglio mostrò tutte le falle della difesa italiana preoccupando i tedeschi per un eventuale crollo della penisola e dello stesso Duce mentre a Roma si cercava, tramite la Chiesa, una pace separata.

    L’incontro di Feltre tra Hitler e Mussolini del 19 luglio⁷ non risolse i problemi fra i due alleati che ormai parlavano lingue diverse; il Duce, remissivo nei confronti del Führer, voleva giungere a una conclusione del conflitto almeno con l’urss ma Hitler sempre più utopico, farneticante e delirante era sempre convinto dell’immancabile vittoria finale.

    Nel frattempo, Roma veniva bombardata dagli Alleati che mettevano in luce la mancanza totale di difesa aerea della capitale.

    Molto probabilmente, prima del fatidico 25 luglio, il Duce incontrò il re, preoccupato più per il proprio futuro che per il popolo, assicurandogli che entro settembre l’Italia si sarebbe liberata di quell’alleato mai amato, ma solo ora temuto e che l’esercito italiano non era più in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati.

    Il colloquio, anche se non è rimasta una documentazione a dimostrarlo, è stato riferito dallo stesso Badoglio il successivo 18 ottobre, poiché dovette difendersi dall’accusa di tradimento da parte della Repubblica Sociale Italiana, essendo stato uno tra i militari più vicini a Mussolini, basti ricordare le campagne in Africa; qui ora entriamo nel mondo delle ipotesi e delle proprie verità alle quali si vuole credere.

    La destituzione del Duce il 25 luglio, dai contorni ancora non ben chiari⁸, accelerò i tempi provocando una profonda reazione nell’opinione pubblica tedesca e tra gli italiani stessi, soprattutto fra coloro che risiedevano nel Reich, temendo ritorsioni da parte teutonica.

    In questo particolare momento storico è da chiedersi come mai nessun gerarca o generale abbia preso le redini del fascismo che era ancora amato e rispettato nella penisola, aspettando che il Duce fosse liberato molto tempo dopo, il 12 settembre, da parte dei tedeschi, senza tentare né una presa di potere, né la liberazione dello stesso Mussolini, facendo trascorrere giorni, settimane e mesi fondamentali per il futuro dell’Italia e dando al Reich un vantaggio inimmaginabile che avremmo pagato poi a caro prezzo.

    C’è da dire che l’Italia aveva un sistema politico particolare, una specie di diarchia con il re e il Duce, fatto questo più volte sottolineato dallo stesso Hitler che aveva invitato il suo mentore Mussolini a sbarazzarsi dell’inutile Vittorio Emanuele iii, come aveva fatto lui stesso con il monarca tedesco.

    A causa di questo particolare sistema è probabile che i gerarchi e gli uomini politici del tempo fossero fedeli al re e al giuramento prestatogli.

    Comunque non ci sono pervenuti documenti di rilievo che attestino atti di ribellione ai Savoia: tutti lasciarono che il destino seguisse la propria strada.

    Nel frattempo, le parole di Badoglio sulla continuazione del conflitto a fianco della Germania non furono credute da nessuno, ma sfociarono in manifestazioni di malcontento che provocarono «93 morti, 500 feriti e migliaia di arresti»⁹.

    Soprattutto, i tedeschi non caddero nella trappola del Maresciallo d’Italia e iniziarono a sistemare le proprie divisioni nei punti nevralgici della penisola¹⁰, pensando addirittura di attestare la linea difensiva maggiore sul Brennero, dove poi avvennero scontri cruenti fra reparti italiani e tedeschi, che diedero vita a una nascente Resistenza; intanto i Savoia, pur vedendo concretizzarsi l’invasione del proprio regno, continuavano a preoccuparsi solo di salvare la monarchia.

    Anche qui la vicenda si tinse di giallo perché i fascisti accettarono passivamente, senza grandi clamori, il discorso del Maresciallo d’Italia mentre continuavano i feroci bombardamenti alleati su tutta la penisola, con la gente che continuava a morire.

    Sui vari fronti le notizie rimbalzavano tra scoppi di gioia e di incredulità, supponendo un’immediata fine della guerra; i fedelissimi del regime invece pensavano che la notizia della destituzione del Duce fosse stata confezionata ad arte dagli Alleati per creare scompiglio tra le file dei militari italiani, da sempre considerati il tallone d’Achille dell’Asse. Comunque, la confusione fu enorme e, incrinandosi la granitica certezza e fiducia nel fascismo, incominciò a palesarsi l’inizio di quella crescita che porterà molti di questi ragazzi ad accettare l’inferno del lager e a rispondere sempre no ai tedeschi, a colui che li aveva guidati per vent’anni e alla Repubblica di Salò.

    Nel periodo della prigionia del Duce, i generali italiani promossero diverse disposizioni anche contraddittorie fra di loro e soprattutto lacunose su diversi aspetti, al fine di scongiurare incidenti con i soldati di Hitler mentre la Wehrmacht s’impossessava del Brennero e dei territori limitrofi con l’arrivo di altre divisioni.

    Un’altra riunione tra i vertici dell’alleanza Roma-Berlino si tenne il 15 agosto a Bologna, dove Rommel si incontrò con il generale Roatta che prospettò un piano che, in caso di resa italiana, lasciava scoperte le divisioni tedesche; ciò avvalorò sempre di più la tesi del prossimo tradimento italiano affrettando i preparativi non solo di disarmo, ma anche di accaparramento delle risorse della penisola e di distruzione delle strutture per rallentare l’avanzata alleata.

    Roatta si guardò bene d’informare che tre giorni prima l’altro generale, Giuseppe Castellano, era partito da Roma con l’incarico di incontrare a Madrid l’ambasciatore inglese, sir Samuel Hoare per intavolare delle trattative di pace.

    Infatti, nell’agosto’43 il militare si incontrava con gli Alleati nella penisola iberica, prima nella capitale spagnola e poi a Lisbona, per dichiarare la disponibilità italiana a un armistizio, sperando in un rovesciamento di fronti quasi alla pari che non si attuò, ma che interessò gli Alleati che colsero la possibilità di accelerare la risalita della penisola.

    Gli anglo-americani assicurarono anche il trasporto in patria dei soldati italiani dai vari fronti purché questi si fossero fatti trovare sulle coste in prossimità dei porti al momento della resa, direttiva che fu inserita nel successivo documento di Québec, redatto a seguito dell’incontro tra Mackenzie King, Roosevelt e Churchill, dal 17 al 24 dello stesso mese. Qui furono presi accordi per la creazione e l’impiego di futuri ordigni atomici, ma per quello che ci riguarda da vicino, gli Alleati mantennero privilegiato il mar Mediterraneo come teatro delle operazioni nell’Europa del Sud, accantonando per il momento ciò che maggiormente premeva a Churchill, ovvero lo sbarco sulle coste dalmate per ostacolare l’ingerenza di Stalin.

    Tornando al generale Castellano, questi infittì gli incontri con gli Alleati durante tutto il mese di agosto per cercare di scongiurare la resa incondizionata che invece fu accettata il 3 settembre.

    Solo il ministro degli Esteri Raffaele Guariglio prospettò l’eventualità di ritorsioni tedesche e il fatto di lasciare lo Stato in balìa di due forze contrapposte che si sarebbero scontrate sul nostro suolo, come poi in realtà accadde senza avere un esercito pronto all’evenienza.

    Di tutto ciò non si curarono né il re né Badoglio: quest’ultimo aggiunse che era pronto a sacrificare buona parte degli uomini sui vari fronti non avvisandoli dell’imminente resa, per non destare reazioni in Italia da parte dell’ex alleato che poteva anche tentare un colpo di Stato, riportando Mussolini a Roma.

    A questo punto ci chiediamo ancora una volta perché non ci fu una reazione fascista: sembra quasi che i gerarchi non sapessero muoversi senza il loro capo, oppure confidavano in un successivo accordo con il re com’era accaduto con la Marcia su Roma e il delitto Matteotti.

    Intanto i nostri soldati erano all’oscuro di tutte queste manovre, compresi i loro comandanti, e continuavano a combattere a fianco a fianco con i tedeschi senza immaginare ciò che avrebbe scatenato la resa.

    Ormai per il Reich non c’erano più dubbi: bisognava neutralizzare l’esercito italiano. Infatti, il capo di Stato Maggiore del Gruppo di Armate F, il generale Winter, aveva ipotizzato che gli ex alleati pensavano che la guerra stesse per finire e che sarebbero stati ben felici di consegnare le armi pur di tornarsene a casa. Fu proprio quello che accadde per la maggior parte, con l’ausilio della confusione prodotta dalla pessima gestione dell’armistizio da parte del re e di Badoglio.

    Intanto, durante il mese di agosto, era stato creato un organismo all’interno dello Stato Maggiore dell’Esercito con il compito di monitorare le forze tedesche e di redigere delle direttive: si iniziò con la 111CT di metà agosto per arrivare alla Memoria 44 e al Promemoria 2.

    La seconda, conosciuta anche come Memoria Roatta dal nome del generale che la redasse, non giunse mai in tempo proprio come le altre e non accennava all’armistizio, ma conteneva solo disposizioni molto generiche e prive di ordini precisi riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti dei soldati del Reich, senza istruzioni dettagliate e pertinenti per i comandanti, lasciando la risposta alla reazione germanica alle singole iniziative.

    Qualche dettaglio in più era stato fornito per i confini: «Era inoltre prevista la costituzione di un gruppo di divisioni mobili che avrebbero avuto il compito di proteggere i porti di Trieste e Fiume dal nord e dall’est»¹¹.

    L’ordine era poi di distruggere questi documenti, compreso l’originale, redatti in numero molto limitato e pertanto arrivati solo a pochi comandanti.

    Anche il Promemoria non era chiaro e fu divulgato troppo a ridosso dell’armistizio per poter essere effettivo: «Particolari condizioni di ordine generale possono impedire di deporre le armi indipendentemente dai tedeschi […] seguivano poi una serie di istruzioni generiche e contraddittorie che mostravano la totale ignoranza della gravità della situazione nei Balcani»¹².

    Senza addentrarci nei meandri e nella tortuosa elaborazione del corto e del lungo armistizio, cerchiamo di capire gli effetti che questo provocò sui vari fronti.

    ____________________________________________

    ² Arrigo Petacco, Quelli che dissero no, Mondadori, Milano 2011, p. 9.

    ³ Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, 1943-1945, Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1992, p. 38.

    ⁴ Frederick William Deakin, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Einaudi, Torino 1990, p. 389.

    ⁵ Giuseppina Mellace, Io, soldato del Reggimento Regina, Albatros Il Filo, Roma 2010.

    ⁶ Gerhard Schreiber, op. cit., p. 42.

    ⁷ Per maggiori dettagli vedi Giuseppina Mellace, Delitti e stragi dell’Italia fascista, Newton Compton editori, Roma 2016.

    ⁸ Ead., L’oro del Duce, Newton Compton editori, Roma 2017.

    ⁹ Giulia Albanese, Quadro degli avvenimenti. La ii guerra mondiale, in Mario Isnenghi (a cura di), Il ventennio fascista. Italiani in guerra, Vol. iv, utet, Torino 2008, p. 15.

    ¹⁰ Giuseppina Mellace, Delitti e stragi dell’Italia fascista, cit.

    ¹¹ Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager. Dai campi nazisti, trent’ani dopo, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 17.

    ¹² Elena Aga Rossi – Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte, il Mulino, Bologna 2011, p. 98.

    L’armistizio e la resa italiana

    Abbiamo visto che tutta la gestione della resa italiana è stata costellata da infiniti errori, superficialità, ambiguità e speranze di poter raggirare sia i tedeschi sia gli Alleati, giocando su due tavoli contemporaneamente: gli italiani finirono per essere i veri sconfitti e beffati, pagando un tributo di vite umane e di sofferenze altissimo che Badoglio e il re avrebbero dovuto immaginare.

    Prima di tutto l’incapacità della monarchia che, lasciatasi trascinare in una guerra che doveva dare lustro e splendore a un regno poco stimato in Europa, continuò sulla linea di difesa unicamente della Corona, non preoccupandosi di lasciare il proprio popolo in balìa di un ex alleato, furente e vendicativo, che voleva contrastare a ogni costo la risalita della penisola da parte degli Alleati. Questi, da parte loro, per accelerare il cammino non si preoccupavano di bombardare città e infrastrutture, generando un numero elevatissimo di morti, feriti e distruzioni.

    La superficialità nell’entrare in guerra a fianco di chi sembrava invincibile la mostrò anche il Duce, sicuro che in sei mesi avrebbe riportato il Mediterraneo allo splendore dell’impero romano e invece si ritrovava prigioniero dei propri cobelligeranti.

    Inoltre, lo stesso Mussolini non aveva chiarito con Hitler il nuovo assetto politico che avrebbe preso il Mediterraneo in caso di vittoria.

    Sicuramente l’Italia avrebbe puntato al controllo dei mari del Sud Europa, cercando da una parte di tenere a bada il pressante alleato che già rivendicava Trieste e gran parte delle terre orientali della penisola, e dall’altra di sostituirsi a Francia e Inghilterra con una creazione di un impero nel Meridione europeo.

    Con la caduta del Duce, il Maresciallo Badoglio si allineò alla doppiezza del momento, lui portato ai vertici del potere proprio da Mussolini che rinnegò quando cambiò il vento, mantenendo tuttavia le ricchezze accumulate durante il fascismo.

    Per ultimi, ma non per questo meno importanti, i vertici delle Forze Armate che non seppero mai coordinarsi, prendere posizioni indiscusse e inequivocabili, dare ordini precisi ai vari comandanti anche perché timorosi di provocare l’inizio di un rovesciamento di fronti.

    Inoltre, come scrisse la studiosa Elena Aga Rossi, «vent’anni di regime totalitario avevano annullato ogni capacità della classe dirigente, e particolarmente dei quadri militari italiani, di assumere responsabilità e prendere decisioni»¹³.

    Nel frattempo la Germania accusava i generali italiani di non avere un atteggiamento onesto nei confronti di un’alleanza che ancora perdurava e minacciava di prendere «tutte quelle misure e a disporre i movimenti di truppe ritenuti necessari ai fini della sicurezza dei propri reparti e delle attività che questi svolgono contro il nemico sul territorio italiano.

    Stando così le cose, il responsabile delle relative conseguenze sarà soltanto e unicamente il Comando Supremo italiano»¹⁴.

    Infatti, l’8 settembre, lo Stato Maggiore non diede l’ordine di considerare i tedeschi nemici da subito, tergiversando fino all’11, limitandosi a fornire generici consigli sul comportamento da tenere, dando un enorme vantaggio al Reich che poté catturare gran parte dell’esercito, internarlo nei lager per poter usare quegli uomini come potenziali combattenti o lavoratori-schiavi, come poi accadrà nella maggior parte dei casi.

    Le parole del capo di Stato Maggiore, il generale Ambrosio, furono ambigue e disorientanti: «assumere nei confronti dei tedeschi quell’atteggiamento che apparirà meglio adeguato alla situazione, […] reagire immediatamente et energicamente et senza speciale ordine ad ogni violenza armata germanica et della popolazione in modo da evitare di essere disarmati e sopraffatti, […] non prendere l’iniziativa di atti ostili contro forze germaniche»¹⁵.

    La doppiezza dei Savoia continuò ad armistizio firmato poiché lo stesso 8 settembre a mezzogiorno, Vittorio Emanuele iii incontrò Rudolf Rahn¹⁶, assicurando che le voci che circolavano sull’argomento erano solo propaganda alleata, chiedendo anzi altre truppe tedesche e garantendo il proseguimento della guerra mentre continuava a inviare i beni della Corona all’estero con ben quaranta vagoni ferroviari.

    Parallelamente anche gli anglo-americani non fornirono le coordinate esatte dello sbarco, neanche i tempi giusti e le competenze per la difesa dall’ex alleato, poiché anche loro non si fidavano degli italiani, visti i precedenti.

    Tuttavia gli Alleati commisero il grave errore di non sfruttare l’antifascismo che stava maturando in Italia e soprattutto di non accelerare la presa della capitale che era stata frettolosamente abbandonata dal monarca e dai suoi fedeli collaboratori, mentre quello che restava dell’esercito italiano era lasciato a se stesso, dissolvendosi come neve al sole.

    Proprio a Roma si chiedeva a gran voce un’azione chiara e decisa contro lo Stato hitleriano che invece Badoglio e le alte sfere del potere rimandarono, sperando di ottenere vantaggi da ambo le parti anche dopo il colloquio avvenuto il giorno 7 settembre con il generale americano Taylor, per stabilire le linee guida dell’aviosbarco in sintonia con le truppe italiane.

    Il tutto poi non si realizzò poiché il militare americano si sentì dire che l’esercito sabaudo, «a corto di rifornimenti, non era in grado di assicurare la necessaria copertura, stante la massiccia presenza di contingenti tedeschi»¹⁷.

    Perché è stato risposto così all’aiuto americano resta ancora un mistero; probabilmente si voleva come al solito prendere tempo o effettivamente non avevamo carburante; fatto sta che si dimostrò ancora una volta una completa inettitudine e cecità militare.

    Mancò alle truppe italiane una vera preparazione militare e psicologica all’armistizio che, al contrario, generò un totale sbandamento producendo un caos e uno smarrimento che convinse molti della prossima fine della guerra e ad abbandonare le armi.

    C’è da chiedersi ancora una volta perché ci fu questo vuoto nelle comunicazioni dopo l’annuncio della capitolazione italiana proclamato dal generale Eisenhower a Radio Algeri quel fatidico 8 settembre alle ore 18:30 mentre ancora al Quirinale il re, Badoglio e i più stretti collaboratori discutevano.

    Un’ora più tardi, dai microfoni dell’eiar, Badoglio confermava la resa; probabilmente temendo una reazione tedesca cercò di guadagnare tempo e così facendo, di fatto, smarrì l’esercito che si trovò in una situazione a dir poco surreale.

    Ecco le parole che il Maresciallo più famoso d’Italia lesse alla radio:

    Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza¹⁸.

    Tale mancanza d’azione si riscontrò anche nell’informare il Reich della resa e dell’uscita dall’alleanza che non poté non scatenare l’accusa infamante di tradimento, lasciando i nostri soldati in un vuoto giuridico che li condannò ai campi di concentramento senza alcun tipo di tutela.

    A comunicazione alleata avvenuta, Badoglio inviò un telegramma al Führer con la convinzione che questi avrebbe compreso e perdonato l’uscita dall’Italia dal conflitto per evitare una pericolosa invasione che invece si realizzò.

    Assumendo la direzione del governo italiano nel momento della crisi provocata dalla caduta del regime fascista, la mia prima decisione nel proclama diretto al popolo italiano fu quella di continuare la guerra per difendere il territorio italiano dal pericolo imminente dell’invasione nemica.

    Non mi nascondevo la gravissima situazione nella quale si trovava l’Italia, le sue deboli possibilità di resistenza, gli immensi sacrifici ai quali essa doveva ancora sottomettersi, ma il sentimento del dovere che ogni uomo di stato responsabile ha di fronte al suo popolo prevalse su tali considerazioni, cioè a dire bisognava evitare che il territorio italiano divenisse preda di stranieri.

    L’Italia continuò a combattere, a subire bombardamenti distruttori, ad affrontare sacrifici e dolori nella speranza di evitare che il nemico, già padrone della Sicilia, potesse passare sul continente. Malgrado tutti gli sforzi le nostre difese sono crollate. L’invasione è in atto. L’Italia non ha più forze di resistenza. Le sue più grandi città, da Milano a Palermo, sono distrutte o occupate dal nemico.

    Le sue industrie sono paralizzate. La sua rete di comunicazione è sconvolta. Le sue risorse esauste. Non vi è alcun punto del territorio nazionale che non sia stato aperto all’attacco del nemico, il quale ha potuto sbarcare come ha voluto, spezzando ogni resistenza e rovinando il paese. In tali condizioni il paese non è più in grado di continuare una guerra che è già costata all’Italia, oltre alla perdita del suo impero coloniale, la distruzione delle sue città, delle sue industrie, della sua marina mercantile, della sua rete ferroviaria.

    Non si può domandare ad un popolo di continuare a combattere quando ogni legittima speranza di vittoria o di difesa non esiste più. L’Italia per evitare la totale rovina si sente costretta pertanto a domandare l’armistizio al nemico¹⁹.

    Da questo momento è molto importante esaminare la cronologia dei fatti e il successivo alternarsi degli avvenimenti per chiarire i prossimi sviluppi.

    Intanto Rudolf Rahn, credendo che Roma non sarebbe caduta immediatamente nelle mani tedesche, chiese e ottenne di poter lasciare la capitale con tutto il personale dell’ambasciata.

    Il loro treno diretto verso nord fu deviato sulla linea adriatica, lasciando i passeggeri all’oscuro per quasi tutta la giornata del 9 settembre.

    Una volta arrivati a Verona poterono apprendere che il Reich si era già impadronito di vastissime zone della penisola.

    Solo la notte dell’8 settembre fu diramato l’ordine n. 24202/Op che riassumeva le precedenti direttive e consigliava di portarsi lungo le coste in prossimità dei porti proprio come aveva stabilito con gli Alleati il generale Castellano nell’agosto precedente.

    L’ambiguità connotava anche questa direttiva poiché recitava che «non deve però essere presa iniziativa di atti ostili contro i germanici»²⁰, forse nella vana speranza che accogliessero le scuse di Badoglio o che fossero proprio loro a dichiararci guerra; intanto Hitler aveva diramato l’ordine dell’Operazione Achse (Asse)²¹, già definita nella primavera ’43 in un primo tempo per sostenere le difese italiane in vista di un probabile sbarco alleato soprattutto dopo la disfatta in Nord Africa.

    Alle ore 23:45 dell’8 settembre, Kesselring aggiungeva: «Il Governo Italiano, nel concludere alle nostre spalle l’armistizio con il nemico, ha commesso il più infame dei tradimenti. […] Le truppe italiane dovranno essere invitate a proseguire la lotta al nostro fianco appellandosi al loro onore, altrimenti dovranno essere disarmate senza alcun riguardo. Per il resto non vi è clemenza per i traditori!»²².

    Da questo momento si creava la qualifica di internati per coloro che erano stati catturati dopo l’8 settembre, svincolandoli da qualsiasi tutela internazionale e completamente in balìa del Reich senza che i Savoia si opponessero a questo lungo e tormentato sfruttamento dei propri sudditi.

    Solo a coloro che furono catturati dopo la dichiarazione di guerra alla Germania fu riconosciuto un trattamento diverso e la disposizione di essere separati dagli internati veri e propri come ha rilevato lo storico Vittorio Giuntella in un documento del 29 aprile 1944²³.

    Nel frattempo, Vittorio Emanuele iii rifiutò un incontro con lo stesso Führer proprio in quei giorni temendo il peggio per lui e la corte.

    A meno di ventiquattro ore dalla proclamazione della resa, la corte e il Maresciallo d’Italia con buona parte della classe dirigente e dei governanti abbandonavano Roma all’alba del 9 settembre per dirigersi verso Brindisi.

    L’unica scusante, se così si può dire, era che Vittorio Emanuele iii – molto anziano, aveva compiuto già settantatré anni – agli occhi di tutti era un sovrano ormai stanco e affaticato, non più in grado di guidare il proprio popolo soprattutto militarmente; preferì pertanto abbandonare Roma temendo che i tedeschi potessero catturarlo invece di organizzare la difesa della città.

    Ecco cosa succedeva a Roma in quel frangente: «Sono appena passate le sei, qualche soldato, fermo sul marciapiedi davanti agli edifici del ministero della Guerra e dello Stato Maggiore, saluta; ma gli altri, i più, restano come sono […] Annusano la fuga dei capi»²⁴.

    Diverse ipotesi erano state vagliate per la fuga: dalla Sardegna a qualche porto del Tirreno già in mano agli Alleati, ma immediatamente scartato per timore di qualche colpo di mano del Reich. Si optò per l’Adriatico, dove la presenza nazista era esclusivamente nel Nord.

    I fuggiaschi presero la via Tiburtina a bordo di una Fiat 2800 mentre il principe ereditario Umberto prendeva posto su una terza vettura con Badoglio che ignorò ripetutamente le sue perplessità sull’andare a sud e il voler mettersi alla guida delle truppe italiane.

    Fu dimenticata Mafalda di Savoia che era in Bulgaria e non era stata avvisata dai suoi parenti, cadendo successivamente prigioniera dei nazisti e morendo a Buchenwald²⁵.

    Dovevano raggiungere Pescara mentre altri notabili si aggiungevano al corteo reale lungo la strada; la cittadina abruzzese fu raggiunta solo nel pomeriggio e, una volta scartata l’opzione del volo, il re decise di proseguire per Ortona in macchina, pernottando nel castello ducale De Riseis-D’Aragona di Crecchio, in provincia di Chieti, insieme alla moglie, regina Elena, e al figlio Umberto mentre il resto dei viaggiatori pernottò a Palazzo Mezzanotte poco distante.

    Nel frattempo era stata richiamata da Zara la corvetta Baionetta che avrebbe dovuto raggiungere insieme ad altre imbarcazioni il porto di Pescara; tuttavia, per evitare problemi con la popolazione che era venuta a sapere della precipitosa fuga della corte, ancora una volta si cambiò itinerario e le navi furono indirizzate a Ortona, dove si trovava Vittorio Emanuele iii e la famiglia.

    Intanto Rommel, a mezzogiorno del 9 settembre, comunicava a Berlino il completo disfacimento e l’abbandono dei punti nevralgici non solo di Roma bensì dell’intera penisola italiana.

    Nello stesso tempo drammatica e surreale era la situazione della capitale poiché alla vigilia della resa, il generale Roatta ne aveva assunto la guida, ma il giorno dopo fuggì con il sovrano e Badoglio, lasciandola nelle mani del collega Carboni che ordinò la ritirata.

    Intanto a Frascati furono stipulati degli accordi sempre il 9 settembre tra Kesselring e il tenente colonnello Giaccone per la consegna delle armi nella capitale che non dovevano essere requisite, ma tutelate da entrambe le parti, così come per i soldati che avevano il via libera per tornare a casa, cosa che invece non avvenne divenendo prigionieri.

    A Roma restavano solo tre battaglioni della Piave.

    In quella stessa giornata i tedeschi erano riusciti a disarmare centomila soldati non incontrando praticamente resistenza.

    Con lo sbarco alleato a Salerno, avvenuto lo stesso giorno, si confermava la risolutezza nello smantellare le divisioni italiane da parte dei soldati della Wehrmacht, i quali aggiunsero eccidi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1