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Alphonse e il Corno Spaccavento
Alphonse e il Corno Spaccavento
Alphonse e il Corno Spaccavento
E-book348 pagine5 ore

Alphonse e il Corno Spaccavento

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Info su questo ebook

Alphonse è soltanto un giovane menestrello, ma è destinato a diventare un eroe, anche se non ne ha proprio l’aspetto: è grasso, calvo come una biglia e non paga le tasse. Eppure, si troverà costretto ad affrontare un lungo viaggio per compiere una profezia. Attraverserà così un deserto fatto di grafite, dove i miraggi possono essere disegnati. Affronterà troll, minitroll e mezzitroll (non necessariamente in quest’ordine). Scalerà montagne traballanti, si perderà in foreste abitate da streghe, cannibali e teschi parlanti e dovrà addirittura cavalcare un pollo-drago. Ma, alla fine, l’impacciato menestrello avrà vissuto la più grande avventura che si possa narrare, ed entrerà lui stesso nella leggenda.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2020
ISBN9788831655521
Alphonse e il Corno Spaccavento

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    Anteprima del libro

    Alphonse e il Corno Spaccavento - Daniel Bellinazzi

    Indice

    CAPITOLO I - Il Prescelto dal Cerchio

    CAPITOLO II - I nomadi del Deserto Nero

    CAPITOLO III - La torre in mezzo al deserto

    CAPITOLO IV - Troll, trollini e mezzitroll

    CAPITOLO V - Il re del fiume e il cacciatore

    CAPITOLO VI - Il corno del dio dimenticato

    CAPITOLO VII - Un piccolo aiuto

    Daniel Bellinazzi

    Alphonse e il corno Spaccavento

    Romanzo, Comic fantasy

    Youcanprint

    Titolo | Alphonse e il Corno Spaccavento

    Autore | Daniel Bellinazzi

    ISBN | 978-88-31655-52-1

    Prima edizione digitale: 2020

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi, 6 - 73100 - Lecce

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Le nuvole sono strane creature. Innanzitutto, sono vive.

    Non vive come me o te, ovviamente. Tanto per iniziare non hanno occhi e bocca, non respirano e non si lamentano dei capelli rimasti sul cuscino passati i quaranta o delle zanzare d'estate. Che poi, non avendo capelli da rimpiangere né sangue da farsi succhiare, sarebbe un po' difficile. E non si può di certo sopravvivere in cielo, dove ogni due per tre uno stormo di aironi ti trapasserebbe senza tanti complimenti fegato e intestino perché hai avuto la sfortuna di trovarti sulla traiettoria di migrazione. No, le nuvole sono vive allo stesso modo dei torrenti, delle montagne e delle idee.

    Sono vive perché cambiano sempre.

    Ne guardi una e ti sembra di vedere il naso di tua nonna o il viso occhialuto del tuo insegnante di matematica. E poi la stessa nuvola diventa un gatto oppure un giovane fagiano, un fagiano nel periodo degli amori e dopo ancora un fagiano in cerca di semi di gramigna da beccare. Se però non sei un appassionato di fagiani è più probabile che ti ricordi semplicemente un gatto.

    Quello che però la gente non si chiede mai, distratta com'è dalle forme che crede di vedere, è cosa c'è dall'altra parte di quella nuvola. E cioè, visto che noi stiamo qua sotto e le nuvole là in alto, cosa ci sia sopra le nuvole.

    Ebbene, di solito nel cielo sopra una nuvola non c'è un bel niente, a parte altro cielo e magari qualche piccolo cirro che si è perso e non trova più papà cumulonembo. Alle volte però capita che un angelo decida di fare di una nuvola la sua dimora. E' raro, ma succede.

    In realtà, l'angelo della nostra storia non era il tipo d’angelo a cui la gente pensa durante la preghierina serale. Non aveva il volto di un bambino grassottello con morbidi boccoli d’oro. Aveva piuttosto l’aspetto di un uomo di mezza età, con un'ispida barbaccia e un sorriso furbesco. Però l'aureola sì, quella la portava. Anche se era un po’ arrugginita, perché si dimenticava sempre di togliersela prima di fare la doccia. Prima o poi si sarebbe convinto ad andare all’ufficio immatricolazione aureole per ritirarne una nuova, ma rinunciava sempre al pensiero di dover trascorrere un intero pomeriggio in fila davanti a uno sportello.

    Da lassù il mondo era un acquerello di verde, marrone e tanto blu. Ma una città in particolare attirava l'attenzione dell'angelo. Stava nel bel mezzo di un continente fatto di fiumi, dense foreste, monti di ogni forma e altezza, deserti, valli brumose e castelli imponenti e remoti. Tutto quello che ci si aspetta normalmente di trovare nella cartina di un romanzo fantasy. La città era piena di torri e campanili e sembrava un termitaio pullulante di vita. La chiamavano Gaenn, capitale del regno confederato di Gaennia. Lì c’era il palazzo della famiglia reale, il tempio del Triumvirato Divino, il più importante (nonché unico) conservatorio del regno e… la casa di un futuro eroe.

    Soltanto che il suddetto eroe, che ancora doveva guadagnarsi quel titolo, non aveva la benché minima idea di ciò che il destino aveva in serbo per lui.

    L’angelo pensò che forse quell’ignaro paladino necessitava di un piccolo aiuto. Una cosuccia da poco, tanto per metterlo sulla buona strada per la fama, la gloria e quelle cose lì. E lui era pronto a darglielo.

    Sporse una mano oltre la nuvola e allungò un dito…

    CAPITOLO I - Il Prescelto dal Cerchio

    Dal fondo del suo abisso, dove tempo e spazio rimbalzano come pipistrelli ciechi nel vuoto, il Serpente aprì un occhio.

    Lo schiuse piano piano - aveva miliardi di anni e nessuna fretta di svegliarsi. Si guardò in giro, con l’occhio rivolto a mille universi paralleli. L’abisso era nero e infinito. Una persona qualunque non avrebbe visto a un palmo di naso. Ma lui vide quello che è possibile vedere in questa galassia e in tutte le galassie possibili, anche quelle mai nate ma soltanto sognate da un dio conquistatore durante la pennichella pomeridiana. Il suo sguardo andava oltre le cose reali e le cose non reali, oltre leggi e regole empiriche, oltre i teoremi degli astronomi e dei fisici e oltre le infinite molecole di cui tutto si compone.

    Diede giusto un'occhiatina distratta, poi si stiracchiò e tornò a dormire.

    In quel momento, su un pianeta ai remoti angoli del sessantaduesimo universo, un monte antichissimo crollò. E questo perché il Serpente si era sgranchito la coda.

    Se avesse sbadigliato, probabilmente un pianeta sarebbe esploso. O una costellazione si sarebbe frantumata in mille pezzi.

    Naturalmente, il Serpente non era un semplice serpente. Nessun serpente è in grado di sgretolare intere catene montuose e prosciugare gli oceani siderali con una semplice puzzetta, se mai gli fosse scappata.

    Lo chiamavano il Serpente cosmico per via della forma. Non aveva zampe, era una sorta di lunga coda con fauci sconfinate ed occhi grandi quanto buchi neri. Comunque a lui non importava. Che lo chiamassero un po’ come volevano. Nelle sue orecchie c’erano milioni di bisbigli ogni secondo, ogni ora e ogni santo giorno. Per cui tendeva a non ascoltare. Sarebbe stato stancante. Il Serpente preferiva dormire che sentire la collettiva voce del cosmo che gli rimbombava nei timpani. Riusciva a dormire così a lungo da perdersi un sacco di cose interessanti, come per esempio la nascita e l'estinzione dei dinosauri o addirittura il ciclo vitale di un'intera galassia. O la finale del campionato interdimensionale di palla prigioniera. Ma aveva sempre sonno e proprio non poteva farci niente. E quel continuo brusio era davvero insopportabile.

    E poi dicono che gli esseri onniscienti fanno la bella vita...

    ***

    «Palla!»

    La mazza colpì la pallina, che schizzò in aria disegnando una parabola nel cielo sopra il cortile del castello. Mancò la cesta, ma di poco. Atterrò nella polvere tra i piedi scalzi del giovane servo, che reggeva il canestro sopra la testa.

    L’arbitro si avvicinò alla pallina e si chinò per esaminarla. Poi si drizzò e, rivolto all’altro capo dell’ampio cortile interno, esclamò a gran voce:

    «Tiro nullo!»

    Si sentì un’imprecazione provenire dal lato ovest. Poi l’arbitro guardò il servo. Il ragazzo aveva la fronte imperlata di sudore, nonostante la temperatura, in quel periodo dell’anno, fosse piacevolissima.

    «Non ti preoccupare. Non è colpa tua. Però la prossima volta muoviti un po’. Fagli segnare un punto. Dopotutto è il tuo Re. Potrebbe farti processare in un baleno con un pretesto qualunque.»

    Il giovane annuì preoccupato.

    A imprecare era stato il Re Sciatto in persona. Quel pomeriggio non gli riusciva un tiro. Forse era colpa del vento. Il Re saggiò la mazza col tacco dello stivale. Un paggio gli porse un’altra pallina e lui la posizionò con cura sul dischetto. Si sgranchì il collo, roteò le braccia un paio di volte e alzò la mazza dietro la testa, in posizione di tiro.

    «Palla in arrivo!»

    Proprio quanto stava per tirare, il vecchio Cornibellus arrivò di corsa. Aveva l’aria di un tacchino sopravvissuto a una baruffa tra tacchini. Un ciuffo del riporto gli era scivolato sulla fronte e gli copriva un occhio.

    «Vostra Grazia, chiedo udienza, chiedo udienza urgentemente

    Il Re lo guardò di sottecchi.

    «Che vuoi, Cornibellus? Non vedi che sono nel bel mezzo della mia partita di blancio domenicale?»

    «Mi duole interrompervi sul più bello, ma è importante.»

    «E allora sputa il rospo, Primo Consigliere.»

    Il Re tese la mazza al paggio, che la prese prima di ritirarsi camminando all’indietro, tra profondi inchini ed esagerati gesti di sudditanza.

    «Allora? Sto aspettando» insistette il Re mentre indossava il mantello reale che un altro paggio gli aveva porto.

    «Vostra Eminenza, si tratta di un argomento delicato. Non c’è un posto meno… affollato dove parlare?»

    Il Re si guardò attorno. Effettivamente il cortile del castello era pieno zeppo di lacchè, petulanti ciambellani, astuti camerlenghi e ambiziosi signorotti che non vedevano l’ora di apprendere qualche piccante indiscrezione sulla famiglia reale, oppure qualche segreto di stato, per poi spifferare tutto a chicchessia in cambio di un bel gruzzolo di monete o della promessa di un favore. Dalle sue regali orecchie a quelle di un cospiratore ficcanaso il tragitto era breve. A Gaenn, le notizie si diffondevano con la velocità di pidocchi sulla testa di un bambino.

    «Molte bene, allora rechiamoci alla Sala del Bisbiglio.» Il Re unì le mani a coppa davanti alla bocca e strillò verso l’altro capo del cortile: «Partita sospesa!»

    Si udì in risposta il fischio dell’arbitro. Il servo con la cesta tirò un sospiro di sollievo.

    La Sala del Bisbiglio era chiamata così per via della sua funzione. I più grandi segreti, le decisioni difficili, tutto quello che contava davvero era stato detto tra quelle pareti. La porta era blindata e piantonata da due sentinelle notte e giorno. Non c’erano finestre, a eccezione di un piccolo lucernario da cui penetrava un po’ di luce, quel tanto che bastava ad illuminare l’ambiente, che era spoglio e austero. Tutt’altra cosa rispetto allo sfarzo che contraddistingueva le altre stanze del castello reale.

    Il Re prese posto su una panca di legno e incrociò le gambe. Cornibellus restò in piedi. Sembrava scosso. Continuava a torcersi le dita e a far guizzare lo sguardo in ogni angolo della stanza.

    «Rilassati, Primo Consigliere. Qui ci siamo solo noi» bisbigliò il Re Sciatto. In realtà non c’era bisogno di bisbigliare, poiché nessuno poteva sentirli. Ma nella Sala del Bisbiglio non si poteva proprio farne a meno, di bisbigliare. Era la tradizione.

    «Vstr Grz, i sgn c dcn…»

    «Smetti di mangiarti le unghie, Cornibellus, o non si capisce niente.»

    «Domando scusa. Vostra Grazia, i segni ci dicono che il momento è giunto. L’Oroboro si scuote.»

    Cornibellus aveva parlato con voce chiara, dimenticandosi di bisbigliare. Il Re sobbalzò indignato.

    «Qui si bisbiglia!»

    Il vecchio tossicchiò e ripeté la frase con tono più consono.

    «Chiedo ancora venia. Tutto lascia supporre che l’Oroboro si sta svegliando.»

    Il senso della frase giunse finalmente al Re, che impallidì.

    «Ne… ne sei sicuro?»

    «Sì mio Signore, ne sono sicuro. Ce lo dice il Quadrato.»

    Il Re deglutì.

    «Il Quadrato è comparso?»

    Cornibellus annuì con solennità. Il ciuffo gli dondolò davanti al naso e lui soffiò per scostarlo. Il Re Sciatto si incupì.

    «Allora il momento è arrivato. Il momento temuto dalla mia famiglia, da mio padre, mio nonno, da tutti i miei avi, indietro nel tempo fino alla fondazione del regno… Quel momento è infine giunto.» Si alzò solenne. Dal lucernario un fascio di luce lo investì come per segno divino, e Cornibellus vide che il suo signore aveva gli occhi pieni di dignitose lacrime... Poi però il Re crollò per terra. Nascose il viso tra le mani e cominciò a strillare disperato come un lattante che vuole la tetta della mamma.

    Passò così quindici minuti buoni, a piangere e a singhiozzare tra lugubri lamenti e farneticazioni. Alla fine, ritrovato un minimo di compostezza, accettò un fazzoletto che l’imbarazzato Primo Consigliere gli aveva teso. Il Consigliere pensò che non lo pagavano abbastanza per tutto questo. Il Re Sciatto si rialzò e con lo stesso fazzoletto si soffiò il naso.

    «Grazie.» Guardò il vecchio, che intanto aveva ripreso a mordersi le dita. «Voglio vederlo. Portami a vedere il Quadrato.»

    «Crtmnt, fcc strd.»

    Mentre percorrevano i lunghi ed ampi corridoi del castello, diretti al Crepuscolorium, il Re Sciatto non poté fare a meno di pensare che quel tiro nullo doveva essere stato un presagio di disgrazie a venire.

    ***

    Era una bella giornata estiva quando Alphonse si ricordò di non aver pagato le tasse.

    Abitava in una casupola di assi di legno, tenute insieme da chiodi arrugginiti e corde sfilacciate. Ciò non implica che non fosse confortevole. L’aveva arredata con entusiasmo e zelo, riempendola di cianfrusaglie così come gli aveva suggerito la fantasia. Ricordava il bazar di un mercante in qualche insediamento al limitare del Deserto di Grafite. Nel disordine si sentiva a suo agio. Trovava rispecchiasse la sua personalità, che lui stesso amava definire arcobalenica.

    La casetta di Alphonse sorgeva oltre le mura cittadine, in fondo alla stradina di polvere e ciottoli che attraversava il ponte di pietra sul fiume Strozzato, dove iniziavano i terreni coltivati. Ma lui non era un contadino. Era un menestrello. O meglio, un aspirante menestrello. Aveva scelto di vivere al limitare del territorio cittadino perché non sopportava il baccano del centro. Tra gli schiamazzi della gente era difficile comporre - e soprattutto era difficile dormire. In città non gli sarebbe stato possibile schiacciare il primo pisolino del pomeriggio, figuriamoci il secondo, che di solito faceva poco prima di cena, e dopo aver mangiato si concedeva mezz’oretta di sonno per facilitare la digestione, prima di alzarsi dall’amaca per andare a letto e poi svegliarsi a tarda mattinata… In campagna c’era tutta la tranquillità di cui aveva bisogno. L’unico problema era l’odore di patate e broccoli che dai campi arrivava fino a casa sua. Impregnava ogni cosa, dalle assi del pavimento ai suoi stessi vestiti. Ma ormai c’era quasi abituato. L’odore delle patate aveva smesso di infastidirlo da tempo. Quello dei broccoli, invece, aveva appena cominciato ad accettarlo.

    In quel momento Alphonse era impegnato nel riposino di metà pomeriggio. Dormiva placido sull’amaca che aveva appeso in cucina, tra due credenze, col pancione che si alzava ed abbassava al ritmo dei ronfi. La luce del pomeriggio che filtrava dalle finestre gli illuminava il testone brullo su cui non era mai cresciuto un capello.

    A un certo punto un terribile, concreto pensiero si fece strada tra i frivoli sogni che popolavano il suo sonno. La fronte gli si infiammò, le guance gli si gonfiarono a dismisura... Alla fine si svegliò, agitando le braccia e sbuffando. L’amaca si rovesciò e lui cadde faccia in giù con un tonfo.

    «… ma le ho pagate le tasse?» bofonchiò mentre si rialzava e si massaggiava il naso dolorante.

    Poi qualcuno bussò alla porta.

    Da quando era succeduto a suo padre, il compianto Re Scarruffato, il Re Sciatto aveva istituito un ministero dopo l’altro, nominando un sacco di ministri. I nuovi ministri erano, a detta del Re, indispensabili per la corretta gestione del regno. Naturalmente nessuno aveva il fegato di contraddirlo. E così c’era il Ministro dei Crocevia che stabiliva in quale ordine le carrozze dovevano attraversare gli incroci in città; il Ministro del Buongusto che emanava editti riguardo la correttezza nel rispondere buonasera piuttosto che buongiorno da mezzogiorno in poi, oppure legiferava sulla massima quantità di starnuti che un giovane poteva permettersi di fare davanti a una persona più anziana; e ancora, c’era il Ministro dei Calcoli, ma nessuno aveva capito se si occupasse di matematica oppure di calcoli renali e ostruzioni intestinali. Nel dubbio e per timore di essere multati per eccesso di calcoli, i cittadini si astenevano dal contare ad alta voce e dall’ammalarsi di calcoli - e se malauguratamente si ammalavano, guarivano subito oppure morivano nel massimo riserbo per non inguaiare di debiti i parenti.

    Ma i nuovi ministri andavano pagati, e per pagarli le tasse venivano continuamente aumentate. Fatto sta che, con tutte quelle tasse, in pochi riuscivano ad essere puntuali nei pagamenti. Alphonse non faceva eccezione. Aveva rimandato di pagare per settimane, tanto che alla fine se n’era dimenticato. C’era voluto quell’incubo per ricordarglielo.

    Si avvicinò di soppiatto all’ingresso. Cercando di non fare rumore schiacciò il faccione contro la porta e sbirciò tra le assi. Nel vedere chi aveva bussato, trasalì. Una guardia cittadina, con le spalle strette e un’espressione tirata come una corda, stava sulla soglia. Alphonse lo riconobbe dal borsello tintinnante che portava appeso alla cintura: era l’esattore delle tasse.

    «C’è nessuno? Aprite, in nome del Re!» esclamò la guardia e bussò ancora.

    Alphonse fece un sospiro di rassegnazione. Cacciò indietro la pancia, sfoderò il suo miglior sorriso a trentasei denti (aveva ben otto denti del giudizio) e aprì.

    «Oh, buongiorno guardia, a cosa devo il piacere…?»

    La guardia non rispose al saluto. Invece, tirò fuori da una tasca una pergamena. La srotolò e lesse ad alta voce, come ad una platea:

    «Quaranta monete di rame per la Tassa sui Pensieri Non Formulati, cinquantotto per quella sull’Ombra Proiettata a Mezzodì, ventuno per l’Utilizzo Concordato di Piedi per la Deambulazione Ordinaria, undici di penale per Sfruttamento Abusivo di Corda per il Bucato in Cortile e…» la guardia scrutò attentamente Alphonse, «una moneta per un Capello in Eccedenza.»

    Alphonse si tastò la capoccia con l’aria di un miracolato.

    «Mi è spuntato un capello? Sia lode agli dèi!»

    «È una tassa che pagano tutti i calvi, in misura preventiva» precisò la guardia. Poi incrociò le braccia e il borsello pieno di monete tintinnò. «Questi sono i debiti corrispondenti al cittadino Alfonso Massimino Lazzaro, nome in arte Alphonse, aspirante menestrello. E cioè voi. Conciliate?»

    Alphonse tentennò un istante, poi trionfalmente proruppe:

    «Mi appello al Ministero della Generosità e delle Opere di Bene affinché mi sia elargito un prestito per poter pagare le tasse.»

    «Il Ministero della Generosità ha chiuso i battenti per mancanza di donazioni spontanee. Nessuno dona più una moneta, con tutte le tasse che ci sono» tagliò corto la guardia. E ti pareva, pensò Alphonse.

    «Facciamo così» fece spazientito l’esattore, che evidentemente aveva altro da fare. «Aggiungo una mora di due monete e mezzo al debito e ripasso domani. Ma se non pagherete sarò costretto ad aggiungere un’ulteriore mora.»

    Ad Alphonse sembrò una soluzione buona come un’altra. La guardia poteva aggiungere tutte le accidenti di more che voleva, fino a farci una torre di monete... ma sarebbe stata, al massimo, una torre di monete di cioccolato, perché lui al momento non aveva il becco di un quattrino.

    «D’accordo, vi auguro una buona giornata» borbottò Alphonse e sbatté la porta.

    Le preoccupazioni gli ingorgavano la mente. Quando pensava troppo la sua testa si scaldava. Volendo ci si poteva cuocere una frittata. In un battibaleno escogitò una miriade di scappatoie e altrettanto velocemente le scartò tutte. Forse gli conveniva fuggire quella sera stessa, ma per andare dove? Era nato in città e non si era mai avventurato oltre i campi di carote del vecchio Crostòn. Il padre di Alphonse era stato un famoso cantastorie itinerante. Il grande Massimino Lazzaro, detto Undicidita. Si era guadagnato quel nomignolo grazie alla prodigiosa abilità nel suonare il liuto. E poi perché, in effetti, era nato con undici dita. È incredibile quello che si riesce a comporre quando la natura è stata abbastanza generosa da donarti un mignolo in eccesso. Alphonse era un liutista bravo quasi quanto il padre, ma non ne aveva ereditato lo spirito avventuroso. Considerò di nascondersi nelle foreste ad ovest. Tuttavia il padre, in uno stornello scritto dopo un campeggio a base di caldarroste, citava le terribili castagne cannibali che vi dimoravano. Al pensiero di doverle affrontare Alphonse rabbrividì. Non lo sfiorò l’idea che le castagne, in quanto cannibali, non si nutrivano di certo di carne umana ma piuttosto dei loro simili, e cioè di marroni e uva passa. Valutò la possibilità di fuggire su un mercantile attraverso il mar Singhiozzo per raggiungere terre lontane... Ma suo padre aveva compiuto la stessa traversata sul dorso di una testuggine, componendo nel frattempo un’ode alla perfetta strategia militare con cui le focene assassine accerchiavano e poi affondavano i bastimenti dei pescatori. Il mondo era pieno di pericoli, così Alphonse desistette dai suoi propositi di fuga. E poi gli sarebbe servita un’arma per difendersi. Lui aveva solo il vecchio liuto ereditato dal padre. Era un’arma quanto una mazza ferrata è uno strumento musicale. Ma doveva trovare una soluzione o sarebbe presto finito nelle segrete del castello, dove venivano rinchiusi i cattivi pagatori, a scontare i debiti tra inimmaginabili torture. Gli aguzzini di corte potevano farti il solletico per ore ed ore. Alla fine schiattavi soffocato dalle risate. La nota positiva è che morivi col sorriso.

    Alla fine Alphonse decise che un riposino lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee. Si svegliò intorno alle sei del pomeriggio. Quando capì che ore si erano fatte schizzò come una molla. Rovesciò l’amaca e finì ancora a pelle d’orso sul pavimento. Ultimamente gli capitava spesso.

    Era in ritardo per la lezione serale di poesia stornellata. Si mise il liuto a tracolla e uscì in tutta fretta. Tagliò i campi come una freccia, bruciò il ponte sul fiume Strozzato, attraversò i cancelli cittadini e giunse davanti al conservatorio di Gaenn in una manciata di minuti. Aveva l’aspetto di un bisonte trafelato e la faccia lucida di sudore quando entrò sbuffando nell’aula del professor Fulgenzio Bemolle.

    Un’ora dopo, quando fu il suo turno, Alphonse si alzò in piedi e si avvicinò alla cattedra con passo incerto. Nel farlo gettò un’occhiata ai suoi compagni di classe, che lo scrutavano da dietro i loro strumenti. In terza fila, seduto al banco a sinistra, c’era il piccolo Plotter. Il piccolo aveva in realtà quarantadue anni. Lo chiamavano così perché era nano. Aveva la gobba e il suo strumento preferito era un tamburo di latta. Parlava di rado, e quando lo faceva scandiva le parole col rullo del suo tamburo. Erano in molti a ritenerlo fuori di melone. Se qualcuno gli chiedeva perché si comportasse così, il piccolo Plotter rispondeva che un giorno aveva visto sua madre pescare una testa di cervo putrefatta dal fiume. Nessuno aveva mai capito cosa volesse dire. Poi c’era Creppio, un ragazzotto brufoloso che sedeva in fondo all’aula. Creppio suonava il triangolo. Si potrà obiettare che non ci vuole un gran talento. Ciò è in genere vero, se si esclude il fatto che il triangolo di Creppio aveva quattro angoli. Era l’unico in tutto il regno a saper suonare un simile prodigio della geometria musicale.

    Il professor Bemolle guardava Alphonse da dietro i suoi quattro monocoli, due per occhio, in piedi. La mandibola gli sporgeva come il rostro di una nave da guerra. Alphonse lo odiava e sapeva che il sentimento era ricambiato.

    «Allora Alphonse, adesso tocca a te. Stupiscimi» disse il professore con un ghigno sarcastico.

    Alphonse si preparò. Dapprima si sgranchì le nocche, un dito alla volta. Poi fece un paio di gargarismi con la saliva. Dopodiché avvicinò il liuto all’orecchio e picchiettò con un dito sulla cassa armonica per saggiarne la risonanza. Alla fine si rivolse alla classe e, pizzicando le corde con mano esperta, declamò:

    Cari compagni, dolci donzelle,

    strimpellatori di grande talento,

    l’ora è arrivata, giunto è il momento

    di far vedere a voi tutti le…

    Alphonse tentennava. Il professor Bemolle gracchiò:

    «Non ci credo… Un’altra volta? È mai possibile che non riesci a finire una strofa? Più ho a che fare con te e più mi domando come puoi essere il figlio del famoso Undicidita!»

    Alphonse stava ancora cercando la parola che gli serviva per completare la strofa. Sembrava un pesce che cerca di parlare. Aveva la bocca aperta e si sforzava di produrre un suono.

    «… ascelle?»

    Il professor Bemolle si stropicciò il viso e mugolò per la disperazione.

    «Ascelle? Di far vedere a voi tutti le… ascelle? Ma cosa vuol dire?»

    Alphonse arrossì e cominciò a sudare.

    «Oh be’, ecco…»

    Il vecchio Bemolle si lasciò cadere sulla sedia.

    «Hai avuto due settimane per lavorare a questo componimento, come tutti i tuoi compagni, e non sei nemmeno riuscito a completare una quartina? Io non so più cosa fare con te. Davvero, davvero non lo so!»

    «Potreste darmi un sei meno meno meno e rimandarmi a posto» suggerì Alphonse. Ma non ci sperava nemmeno lui.

    «Sparisci» fece il professore. Alphonse tornò al suo banco. Aveva ventitré anni ed era pluriripetente. Di questo passo avrebbe battuto il piccolo Plotter in quanto a bocciature. Creppio, il suonatore di triangolo, ghignò sotto i baffi. Alphonse posò il liuto, incrociò le braccia sul banco e vi nascose la faccia. Si vergognava da morire. Col liuto se la cavava, ma erano le rime che a volte non gli uscivano di bocca. Il suo problema era la mancanza d’ispirazione. Conduceva una vita ordinaria. Di cosa avrebbe dovuto cantare? Suo padre, il grande Undicidita… lui sì che ne aveva vissute, cose da raccontare! Alphonse non aveva nulla con cui riempire le strofe, così si bloccava a metà. Le parole semplicemente si rifiutavano di staccarsi dalla sua gola. Poteva suonare per ore, ma non appena cominciava a cantare, cominciavano anche i problemi. Dopo anni di tentativi pensava ormai di non essere tagliato per fare il menestrello.

    «Creppio, tocca a te!»

    Al richiamo del professore Creppio scattò in piedi, facendo tintinnare il suo miracoloso triangolo quadrangolare. Alphonse alzò il viso e guardò oltre la finestra. Era l’ora di cena e per le strade non c’era quasi nessuno. Le ombre della sera si tendevano lungo i selciati e i vicoli di Gaenn. Alphonse sentì profumo di ribollita provenire dalla locanda che stava dall’altra parte della piazza e il suo stomaco brontolò. Aveva una gran fame… e nemmeno una moneta in tasca per placarla. Il triangolo di Creppio suonava la sua piatta melodia mentre Alphonse escogitava un piano.

    ***

    «Signori, vi ho convocati per un motivo preciso. Noi tutti, no, l’intero regno di Gaennia è minacciato da un grande pericolo.»

    Il Re parlava con voce greve mentre camminava su e giù per il Crepuscolorium. Il Ministro del Dubbio Legittimo, il Ministro delle Condivisibili Obiezioni e il Primo Consigliere Cornibellus lo ascoltavano con attenzione.

    «Il nostro Cornibellus, qui, mi ha informato tre giorni fa che il Quadrato è infine apparso.» Cornibellus annuì e il suo riporto sfarfallò. I due ministri si guardarono a vicenda.

    «Impossibile» disse il Ministro del Dubbio Legittimo. «Il Quadrato non

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