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Il dono del potere: Vita e insegnamenti di un uomo-medicina lakota
Il dono del potere: Vita e insegnamenti di un uomo-medicina lakota
Il dono del potere: Vita e insegnamenti di un uomo-medicina lakota
E-book450 pagine4 ore

Il dono del potere: Vita e insegnamenti di un uomo-medicina lakota

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Info su questo ebook

“Quando mio padre fu sul punto di morire, mi afferrò la mano. Sentii il suo potere fluire dentro di me, fino a riempire tutto il mio essere. In quell’istante la mia vita cambiò completamente: il mio futuro divenne qualcosa che potevo solo intuire vagamente, come una catena montuosa in lontananza, avvolta in una foschia azzurra. In quel preciso istante, l’uomo che ero stato morì e un uomo nuovo ne prese il posto”.

Così Archie Fire Lame Deer, ubriacone inveterato, piantagrane e cascatore di Hollywood venne riportato – recalcitrante – al suo destino, al compito per il quale suo nonno l’aveva preparato, diventando un grande uomo-medicina (o, come egli stesso si definiva, un “uomo spirituale”) della tribù Lakota, detentore di una tradizione millenaria e famoso in tutto il mondo. Proprio grazie ai suoi trascorsi burrascosi, ha potuto di comprendere e aiutare tutti, perché un uomo-medicina “deve strisciare più in basso di un verme e volare più in alto di un’aquila”.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2020
ISBN9788868206000
Il dono del potere: Vita e insegnamenti di un uomo-medicina lakota

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    Anteprima del libro

    Il dono del potere - Archie Fire Lame Deer

    1992.

    Capitolo I

    IL SEME SOTTO LA NEVE

    Mio padre mi prese la mano sul suo letto di morte. Sentii il suo potere riversarsi dentro di me fino a che ebbe riempito l’intero mio essere. In quell’istante, la mia vita cambiò completamente da ciò che era stata. Il mio futuro divenne qualcosa che riuscivo a percepire soltanto in parte, come se stessi guardando una distante catena montuosa mezza celata da una bruma azzurra. In quell’istante l’uomo che ero stato morì, e un uomo nuovo prese il suo posto.

    Mio padre non mi riconobbe subito, dato che la vita lo stava lentamente abbandonando in quell’ospedale. Aveva riconosciuto tutti gli altri parenti e amici, aveva parlato e scherzato con loro, ma verso di me i suoi occhi erano ciechi; sembravo invisibile per lui. Pareva inoltre che non mi sentisse. Sgranava gli occhi nello sforzo di cercare di capire ciò che stavo dicendo, ma era come se io non fossi là.

    Avevo compiuto quindici viaggi dalla mia casa, a Santa Barbara, fino a Denver allo scopo di far visita a mio padre nella sua stanza d’ospedale, e lui pareva guardasse attraverso di me. Piansi. Ma alla fine, quando mi recai a trovarlo per la sedicesima volta, una delle ragazze corse fuori dalla sua stanza, dicendomi: «Il nonno ha chiesto di farti entrare».

    Così entrai, e lui mi sorrise e disse: «Dove sei stato? Perché non sei venuto prima?». Non aveva alcun ricordo delle molte volte in cui ero andato a trovarlo. In ogni caso sentivo che qualcosa di grande stava per accadere. Sentivo come se egli stesse per passarmi il suo potere e il suo fardello. Disse: «Chiedi a tutti di lasciare la stanza».

    A quel punto tutti gli altri uscirono, lasciandoci soli. Mio padre disse: «Tirami su dal letto e mettimi su quella poltrona laggiù. Ti voglio parlare».

    Lo sollevai, lo misi sulla poltrona, e mi sedetti di fianco a lui.

    Per un lungo momento nessuno dei due parlò. Infine egli disse: «Siediti sul pavimento e fammi mettere la mano sulla tua testa».

    Perciò mi sedetti ai suoi piedi, ed egli prese a parlare con la mano sempre appoggiata sulla mia testa.

    La prima cosa che disse fu: «Figlio, non sarai mai l’uomo che sono stato io».

    Pensai che stesse cercando di sminuirmi, di farmi arrabbiare. Un po’ del risentimento che avevo nutrito nei primi anni della mia giovinezza tornò a galla, quella sorta di risentimento che un figlio dalla forte volontà prova naturalmente a un certo punto della sua vita. Gli dissi: «Ho fatto molte più cose di quante ne abbia fatte tu, e alcune le ho fatte anche meglio di te».

    Ignorandomi, egli ripeté calmo: «Non sarai mai l’uomo che sono stato io».

    «Perché parli così? – gli domandai – Non hai ancora finito di fare lo sbruffone?».

    Continuò come se non mi avesse udito.

    «Non sarai mai l’uomo che sono stato io – disse – perché nessun figlio può mai essere come suo padre, e nessuna figlia come sua madre. Proveniamo tutti dalla stessa radice, ma le foglie sono differenti. Ora il mio sentiero sta arrivando alla fine, e il tuo inizia dove il mio finisce. Se insegniamo bene ai nostri figli, i loro passi proseguiranno dal punto in cui i nostri finiscono. Ecco ciò che sto cercando di dirti.

    Ti ho insegnato molte cose – continuò mio padre – ma erano fuori dalla tua portata. Non ascoltavi mai, perciò ho insegnato ai figli di altre persone a diventare uomini-medicina. Ma ho sempre saputo che un giorno saresti tornato a me. Ora sei qui».

    La mano di mio padre pareva divenire sempre più pesante sulla mia testa. Continuò a parlare, come in sogno: «Quei giovani a cui ho insegnato stanno ora insegnando ad altri. Perciò, quando ho dato loro qualcosa che avrei dovuto dare a te, ho detto loro: Rendi questo a mio figlio quando sarà il tempo».

    Quel tempo era venuto. Dopo la morte di mio padre, diversi uomini-medicina vennero da me e mi mostrarono cose legate alla spiritualità, dicendomi: «Tuo padre mi ha dato questo perché lo conservassi per te».

    Alcuni di loro mi raccontarono persino delle visioni e delle profezie di mio padre su di me: profezie che in seguito si sono avverate.

    Il giorno in cui si separò da me, egli mi diede la sua Pipa, dicendomi: «Abbi cura di questa Sacra Pipa Rossa. Usala per te e per il tuo popolo. In questo modo mi avrai sempre con te, e il mio nagi, il mio spirito, camminerà al tuo fianco. Ho mandato a prendere il mio copricapo di penne sacro e il mio costume di pelle di cervo decorato di perline; sono tuoi. Ora tu sei me. Devi insegnare a tuo figlio: insegnagli la lingua, le preghiere, l’antica via, e il tuo seme continuerà. Questa è la cosa più importante: che lo spirito dei Lame Deer vada avanti».

    Quindi mio padre mi disse di una visione che aveva avuto (la sua ultima visione, come poi si rivelò essere). Disse: «Sono andato in un altro posto, e là ho visto i nostri nonni, i nostri antenati a perdita d’occhio, e tutti avevano copricapi di penne da Capo. Mio padre mi ha toccato, io mi sono girato e gli ho chiesto: Dov’è mio figlio? Non lo vedo. E il fantasma di mio padre mi ha detto: Guarda su quella collina. Eccolo là, con sua moglie e tre figli. Ora torna indietro e fai quello che devi fare. Non hai ancora finito. Devi trasmettere il tuo potere. Perciò sono tornato qui, a fare ciò che mi è stato detto».

    Beh, allora io non avevo ancora tre figli, perciò la visione di mio padre era proprio una visione.

    Sedetti in quell’ospedale ai piedi di mio padre per quattro ore, e in quel lasso di tempo ricevetti da lui preziosi doni di potere e saggezza. Non posso dire ciò che mi insegnò: lo ripeterò soltanto una volta, a mio figlio, al termine del cammino che io dovrò percorrere.

    Nonostante io insegni ciò che insegnava mio padre nella maniera tradizionale lakota, sono diverso da lui. L’orizzonte di mio padre era costituito dalla riserva e dalle terre indiane, le praterie e le colline ricoperte d’erba. Parlava male l’inglese. Era, nel corpo e nella mente, di un’altra epoca, l’epoca di Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Per lui il tempo si era fermato. Per lui l’orologio si era arrestato a Wounded Knee più di cento anni fa. Guidava l’auto e viaggiava in aereo, ma quelle cose erano come cavalli per lui, ne avevano lo spirito. Mio padre trascorse tutta la vita in una baracca di legno traballante senza luce elettrica, acqua corrente o tubature, con la capanna sudatoria sul retro e un cagnolino che si aggrappava con le zampette ai suoi decrepiti stivali da cowboy.

    Io, invece, sono stato scaricato dal destino nel mondo dell’uomo bianco, diventando una creatura dell’era nucleare, l’era della TV e dei computer. Ha persino fatto di me un insegnante, non solo tra la mia gente, ma anche per uomini e donne di paesi lontani. Perciò, mentre per molti versi sono come mio padre, sono anche diverso da lui.

    Alla fine mio padre disse: «Sono stanco. Voglio riposare. Tirami su e mettimi sul letto».

    Lo raccolsi tra le braccia e lo sdraiai sul letto per l’ultima volta. Improvvisamente sorrise e disse con un sospiro evanescente: «Di’ alla gente di non piangere. Di’ loro di essere felici».

    Prese la mia mano e la strinse a lungo con forza. Quindi lasciò la presa e chiuse gli occhi.

    Lo guardai lì disteso, mentre una grande tristezza mi saliva dentro. Durante la notte se ne andò verso l’ignoto, sul sentiero guardato da Hinhan, il Grande Gufo, che conduce al mondo degli spiriti. Per questo ultimo viaggio lo vestii con la sua camicia di pelle di cervo con le frange e le perline, i gambali e i mocassini. Ma tenni la sua Pipa e il copricapo di penne, come mi aveva chiesto di fare.

    Mio padre, John Fire Lame Deer, con il suo copricapo, nelle Paha Sapa, le sacre Colline Nere. © Richard Erdoes 1992.

    Capitolo II

    CORN CREEK

    Mio padre, John Fire Lame Deer, era stato molte cose durante la sua lunga esistenza. Mi diceva sempre: «Sono stato un vagabondo. Dovevo girovagare su tutto questo Continente Tartaruga».

    Mi insegnò anche che per essere un uomo-medicina bisogna fare esperienza di tutto, vivere la vita più pienamente possibile.

    «Se non fai esperienza del lato umano di tutte le cose – diceva – come puoi aiutare, insegnare o guarire? Per essere un buon uomo-medicina, devi essere umile. Devi essere più in basso di un verme e più in alto di un’aquila».

    Una delle ultime cose che mi disse fu: «Sii felice. Sii felice».

    Diceva sempre di non poter morire finché non avesse formato altri dodici uomini-medicina. Credo di essere stato il dodicesimo.

    Nella sua giovinezza mio padre era stato un hlete, un piantagrane: idolo delle donne, cavalcatore di tori, clown da rodeo, soldato, pittore di insegne, contrabbandiere di alcolici, poliziotto tribale e raccoglitore di patate. Ma sempre, come un seme profondamente piantato sotto la neve, aveva avuto la consapevolezza che, come i suoi antenati, un giorno sarebbe diventato ciò che i bianchi chiamano uomo-medicina, o ciò che noi Lakota chiamiamo pejuta wichasha, uomo spirituale. Egli inoltre sapeva che sarebbe divenuto un heyoka, un contrario o buffone sacro. E così, dopo essere giunto a metà della sua vita, cessò di vagabondare e iniziò il suo cammino come wichasha wakan, uomo sacro.

    Sotto molti aspetti la mia vita rassomiglia a quella di mio padre. Anch’io sono stato un piantagrane: ho fatto l’operaio in una segheria, l’acchiappa-serpenti a sonagli, l’artista da circo, il paracadutista, il prigioniero di guerra in Corea, l’aiutante in una fattoria, il domatore di cavalli, il cameriere in una birreria e il barista, e sono stato l’unico cascatore indiano nella storia di Hollywood. Ma, come per mio padre, i miei anni da vagabondo hanno avuto l’unico scopo di prepararmi a diventare un uomo-medicina. E come lui ho portato quel seme spirituale dentro di me sin dall’infanzia.

    Il fatto che io abbia seguito così da vicino i passi di mio padre, che abbia camminato nei suoi mocassini come dicono gli anziani Lakota, è strano, poiché non incontrai mio padre fino all’età di undici anni. Avvenne nel 1946, l’anno in cui morì mio nonno Quick Bear (Orso Veloce). Nel momento stesso in cui persi il vecchio che amavo tanto, trovai finalmente mio padre. Si trattò di una semplice coincidenza? Non lo so.

    Come molti bambini Lakota, sono stato cresciuto dai nonni. Fu mio nonno materno, Mato Ohanko, Henry Quick Bear, a portarmi a Corn Creek, nell’angolo nord-occidentale della Riserva di Rosebud. Corn Creek era un luogo isolato al limitare delle Badlands, un luogo di paesaggi lunari disseminati di scheletri pietrificati di animali da tempo estinti, frequentato dagli spiriti e pieno di magia. Fu il nonno a instillare in me il desiderio di conoscere le vecchie credenze e le usanze della nostra gente.

    Il nonno era uno di quegli uomini Lakota di un tempo che mantenevano viva la fiamma della tradizione. Quando fui abbastanza grande per capire, egli mi disse: «Quando rimarrà soltanto uno di noi anziani tradizionalisti sulla faccia di questa Terra, essa lo inghiottirà, e poi sprofonderà con lui».

    Il nonno era la luce della mia vita: sole, luna e stelle tutti insieme.

    Sono nato nel 1935, una notte in cui un caldo chinook² soffiava sulla riserva, portando con sé pioggia, tuoni e fulmini: una notte heyoka. Sono nato nel periodo in cui la notte è breve, perciò il mio primo nome è stato Hanhepi Chikala, Piccola Notte. In seguito mio nonno mi disse: «I ragazzi che nascono in notti del genere possiedono un seme spirituale piantato in loro. Sono nati per diventare uomini-medicina».

    Rammento l’unica stanza della baracca di tronchi in cui nacqui. Ricordo che aveva il pavimento di terra. Ricordo mia nonna, che mi aiutò a venire a questo mondo. E ricordo mia madre, il cui nome indiano era Donna-della-stella-del-mattino-nascente (il suo nome bianco era Josephine). Era una donna orgogliosa e bella. Era una Mato Ohanko, una Quick Bear. A tutt’oggi, mi considero anche un Quick Bear. Rammento pure che in seguito mia madre e io vivemmo in un tipi.

    Un giorno, quando mia madre era ancora giovane, due uomini a bordo di una vecchia Model A vennero fino al nostro tipi e portarono via mia madre. La fecero sdraiare su una barella e andarono via con lei. Non la rividi mai più. Mia madre soffriva di tubercolosi, una malattia che a quel tempo mieteva molte vittime fra la gente Lakota. I suoi polmoni erano irrimediabilmente compromessi.

    Io non capivo cosa le stesse accadendo: avevo soltanto cinque anni. Piansi e piansi ancora: «Non portate via mia madre! Mamma, torna indietro! Ti prego, torna indietro! Non mi lasciare!».

    Non ottenni risposta.

    Mia madre tornò indietro, ma in una bara. Mi dissero che in quella scatola c’era mia madre. Ricordo quando la portarono al cimitero: cercai di fermarli quando la misero nella Terra. Mi trascinarono via, a casa di qualche parente, dove di nuovo piansi a non finire. Poi, in un momento in cui nessuno mi stava guardando, sgattaiolai fuori di casa e corsi fino al cimitero, che si trovava a una certa distanza. Mi sedetti accanto alla sua tomba, piangendo e gridando: «Mamma, vieni fuori di lì! Mamma, dove sei?».

    I miei parenti mi stavano cercando, ma nessuno di loro indovinò che ero corso fino al luogo in cui l’avevano sepolta. In seguito appresi di essere rimasto accanto alla tomba di mia madre per quattro giorni e quattro notti. Per poco non morii anch’io. Perciò quella fu la mia prima Ricerca di Visione, mentre cercavo di riportare in vita mia madre.

    Fu nonno Quick Bear a trovarmi. Gli venne in mente dov’ero andato; aveva quel dono. Mi disse: «Takoja, nipote, tua madre se n’è andata».

    «Dov’è andata?», chiesi.

    «In un altro mondo – disse lui – Ci è andata seguendo il Tachanku, il Sentiero degli Spiriti, che è la Via Lattea, là, tra le stelle. La incontrerai di nuovo fra molti anni. La troverai ad attenderti alla fine di quel sentiero».

    Il nonno mi abbracciò e mi consolò dicendo: «Nipote, la tua mamma umana se n’è andata, ma tu hai ancora una madre. Le stai camminando sulla schiena. Tua madre è Unchi, la Terra. Cercala negli alberi, nell’erba, nelle rocce. Nipote, ti alleverò io. Ti crescerò secondo le usanze del nostro popolo. Ti insegnerò tutte le cose che io so e che anche tu devi conoscere. La mia casa è anche la tua. Vieni».

    Ciò detto, mi prese fra le braccia e mi portò alla sua capanna di tronchi. E così vissi con nonno Quick Bear a Wagmeza Wapa, a Corn Creek.

    Questa è la terra in cui il nostro antenato, il vecchio Capo Mato Ohanko, il primo Quick Bear, stabilì il suo accampamento oltre cento anni fa, e dove noi viviamo ancora oggi. Il torrente che dà il nome alla zona si forma a Nord come ramificazione del Black Pipe Creek, otto chilometri a Sud di quel corso d’acqua. Sfocia nel Little White River nei pressi della città di Belvedere. Nella valle si coltivava il mais, e questo ha dato il nome al luogo.³ A Ovest si trova la diga di Corn Creek, vicino a Wanblee. Quest’area non fa più parte della Riserva di Rosebud, ma di quella vicina di Pine Ridge, nella quale vivono i nostri fratelli Oglala.

    La valle è circondata dalle Badlands, o Mako Sicha,⁴ come noi chiamiamo la zona. Si tratta di una terra frequentata dagli spiriti e caratterizzata da fantastiche formazioni geologiche. Viste da lontano, alcune di esse paiono città medievali con strani castelli fatati e torri a spirale. Altre sembrano navi fantasma con alberi e vele di argilla pronte a sbriciolarsi. Tutto questo un tempo era sott’acqua, parte di un vasto oceano che milioni di anni fa copriva questa terra. Le Badlands iniziano dalle parti di Murdo e arrivano fino a Reliance, nel Sud Dakota.

    Per i Lakota, le Mako Sicha sono il luogo delle leggende, la dimora di Unktehi, il Grande Mostro Acquatico, sul quale il nonno mi raccontava molte storie antiche. Tunkashila, il Nonno Spirito, così diceva, una volta aveva scatenato una grandiosa tempesta che aveva distrutto tutto ciò che aveva trovato sulla sua strada, sradicando alberi, cespugli ed erba (tutto il verde) non lasciando altro che la nuda terra. Il nonno spiegò che il Grande Spirito aveva fatto questo per creare una barriera di terra desolata che nessuno avrebbe osato attraversare, allo scopo di proteggere la nostra gente dai potenti nemici che intendevano invadere i nostri vecchi territori di caccia.

    «Chiamano le Mako Sicha Badlands – diceva il nonno – ma dovrebbero chiamarle Mako Washte, Terre Buone, poiché Wakan Tanka, lo Spirito Onnipresente, le ha messe là come un muro per proteggerci».

    Alcune persone hanno paura di perdersi nelle Badlands, un luogo dove il calore del deserto può trasformarsi in freddo paralizzante nel giro di un’ora, e dove forti venti rabbiosi e tempeste scorrazzano tra i canyon e le guglie. Ma per me, esse erano un magico terreno di giochi in cui vagabondare.

    Dappertutto in questa terra bizzarra e bellissima vi sono i resti di creature estinte da lungo tempo. Ogni volta che andavo in esplorazione, scoprivo che la terra era disseminata di fossili di molti periodi: conchiglie, denti, ossa, e le impronte di foglie e penne. Per prime, più di cento milioni di anni fa, vennero le creature degli antichi oceani: grosse conchiglie chiamate ammoniti, ancora ricoperte di madreperla luccicante dei colori dell’arcobaleno. A volte, nell’istante in cui spezzavo una zolla piena di fossili di quel genere, si sentiva un forte odore di petrolio e di mare. Lungo il Red River, nel punto in cui si getta nello Cheyenne River, vi sono luoghi dove i pesci si sono trasformati in pietra. Alcuni di essi si sono aperti, e si possono ancora distinguere le loro interiora pietrificate. In alcuni punti ho trovato le forme biancastre di tartarughe da lungo tempo estinte, lunghe sino a tre metri.

    Poi arrivarono i dinosauri. Una volta, durante una tempesta di fulmini in una notte senza luna, mio padre si fece sorprendere in cima a una collina scoscesa. Si spaventò. Non riusciva a vedere che cosa ci fosse a destra e a sinistra, e aveva paura di cadere in uno di quei precipizi profondissimi che frastagliano le Badlands. Perciò si sedette in terra, e tastando la cresta della montagna trovò pian piano la strada da seguire. Quando venne l’alba si ritrovò disteso sull’enorme spina dorsale di una creatura immensa, simile a un dinosauro.

    «Ho cavalcato il Grande Mostro Acquatico», soleva dire ogniqualvolta menzionava quest’avventura.

    In seguito vennero le creature a sangue caldo: piccoli cavalli da lungo tempo estinti, cammelli, e una razza di bisonti dell’era glaciale molto più grande dei bisonti odierni. Una volta mio padre trovò il teschio smisurato e pietrificato di un bisonte di quella specie, e lo conservò per molti anni. Anch’io ho trovato resti di orsi delle caverne, muniti di grandi zanne, e di tigri dai denti a sciabola.

    Una volta inciampai nelle ossa di un animale che doveva essere alto circa due metri e mezzo al garrese quando procedeva a quattro zampe. «Queste appartengono al Cavallo del Tuono», mi disse il nonno quando gli mostrai una di quelle enormi ossa che facevano parte delle zampe.

    Quando la calotta di ghiaccio si sciolse, circa diecimila anni fa, l’acqua di origine glaciale scomparve al di sotto delle Badlands, formando un vasto lago sotterraneo nella regione compresa tra le cittadine di Wall, Interior e Kadoka. Laggiù si trova uno dei maggiori serbatoi naturali d’acqua potabile. Così, quando la grande base dell’aviazione di Ellsworth esaurì l’acqua, fecero una trivellazione di duemilaquattrocento metri e raggiunsero il lago, ottenendo ottima acqua in abbondanza.

    Quando i bianchi osservano le Badlands, nude e biancastre, credono che nulla cresca o viva laggiù. Ma noi Indiani sappiamo che le Mako Sicha brulicano di vita: sui tavolieri erbosi pascolano antilopi e cervi ibridi, nelle caverne si possono ancora trovare orsi e leoni di montagna e l’aria risuona dei gridi dei falchi e delle aquile.

    Quando dico che questo paese è la terra dei Quick Bear, non intendo riferirmi alle sole persone che si chiamano Quick Bear, ma all’intero nostro clan, la tiyospaye o famiglia estesa di persone che discendono dai numerosi figli del primo Quick Bear. Una volta, quando avevo circa sette anni, mio nonno mi condusse in cima alla montagna chiamata Cross Butte, la quale sovrasta la valle di Corn Creek.

    «Guardati intorno, takoja – mi disse – Guarda in tutte le quattro direzioni fino a dove riesci a vedere. Là vivono i tuoi parenti. A Est vi sono i Singing Goose (Oca-che-canta) e gli Standing Bear (Orso-in-piedi); a Sud i Quick Bear (Orso Veloce), gli Eagle Bear (Orso Aquila), i Lone Warrior (Guerriero Solitario) e i Neck Shield (Scudo-al-collo). A Nord vivono i Wood Knife (Coltello-di-legno), e a Ovest i Dog Eye (Occhio-di-cane), gli Sleeping Bear (Orso Addormentato), i Red Fish (Pesce Rosso) e gli Horn Antelope (Antilope-dal-corno). Questi sono tutti parenti e buoni amici, persone che vivono alla vecchia maniera, e vi sono molti uomini-medicina fra loro».

    Quindi aggiunse: «Takoja, questa terra sulla quale poggi i piedi è sacra. Osservala attentamente, a lungo e bene».

    Osservai quella valle, il luogo in cui ero nato. Giù, in lontananza, riuscivo a scorgere la piccola capanna di tronchi dove vivevo col nonno. Questo era il mio mondo, il mondo in cui trascorsi la mia infanzia.

    Questo mondo ruotava intorno a nonno Henry Quick Bear; lui ne era il centro. Quando mi accolse a vivere con sé era già avanti negli anni. In un periodo in cui la maggioranza dei Sioux vestiva abiti occidentali e indossava cravatte, e si tagliava i capelli corti per colpire favorevolmente gli agenti del governo dei bianchi e i missionari mostrando quanto era civilizzata, il nonno portava ancora due lunghe trecce avvolte in strisce di stoffa rossa e indossava i mocassini. Mi piacerebbe tanto avere una sua immagine, ma egli non permise mai che lo fotografassero. In questo era uguale a Cavallo Pazzo, il quale allo stesso modo non permise mai a un bianco di fotografarlo. Per certi versi ciò è strano, perché ho visto diverse foto del padre e del nonno di nonno Henry (scattate intorno al 1900) e una di esse è molto somigliante a lui. Foto o non foto, porterò l’immagine del nonno nella mia mente fino a quando morirò.

    A suo modo il nonno era molto energico e diretto. Mi insegnò a rispettare le usanze della nostra gente, a rispettarne le credenze, a rispettare i nostri anziani, che egli chiamava i custodi del fuoco. Su questo punto era molto rigoroso, ma molto delicato. Inoltre, pur essendo molto serio, rideva un sacco. Era alto più o meno un metro e ottanta con un fisico asciutto: il suo corpo era tutto muscoli e nervi, senza un filo di grasso; aveva un viso scavato, da indiano purosangue, che rifletteva le difficoltà incontrate nella vita, ma le piccole rughe intorno agli occhi gli erano venute a forza di ridere. Rimase in perfetta forma fisica fino alla morte.

    Il giorno in cui il nonno compì ottantotto anni, il suo cuore cedette. Persino a quell’età i suoi capelli erano neri come il carbone, e aveva ancora tutti i denti. Fisicamente aveva un solo problema: durante gli ultimi anni era diventato duro d’orecchi. Dovevo gridare quando volevo parlargli, perciò alla fine imparai il linguaggio dei segni, e comunicammo in quel modo. C’eravamo soltanto noi due, dato che mia nonna era morta più o meno quando ero nato io. Gli anni che trascorsi con nonno Quick Bear furono i più felici della mia vita.

    Il nonno era un pejuta wichasha, un uomo-medicina, come molti dei suoi antenati prima di lui. Non credette mai negli ospedali, nei dottori bianchi o nelle loro pillole.

    «Nipote – era solito dire – quei dottori bianchi cercano di curarti una malattia facendotene venire un’altra. Ti ammucchiano una malattia sull’altra. Più ti rendono malato, più ti costa. A loro non interessa la tua salute, ma il tuo maza ska, il metallo bianco, quella cosa che chiamano soldi. Dicono di poter guarire una persona, ma è stato l’uomo bianco a portarci le malattie che non avevamo mai avuto prima, malattie che hanno spazzato via molte nazioni indiane: vaiolo, varicella, morbillo, difterite, tubercolosi, e la malattia peggiore di tutte: il whiskey».

    Il nonno curava i malati con la sua conoscenza delle erbe, delle ossa e della pelle, e di come funziona il corpo umano. Dalla semplice osservazione di una persona, egli si faceva una buona idea di che cosa l’affliggesse. Oltre a questa conoscenza pratica, il nonno aveva anche potere spirituale, e utilizzava entrambi. Inoltre curava le persone con un certo corno di bisonte che conteneva una medicina speciale: questa era la sua wopiye, una cosa con cui fare del bene, ed era molto potente. Non usava mai la Pipa per curare perché per lui era troppo sacra, e la riservava alle cerimonie.

    Se ripenso alle cure del nonno, quelle a cui potevo assistere, mi paiono ora quasi miracolose. Guarì delle persone paralizzate e le fece camminare di nuovo. Guarì un uomo che aveva subito un colpo apoplettico che gli aveva deformato mezzo viso: aveva la parte sinistra della bocca più bassa di quella destra, e così l’occhio sinistro. Il suo volto non era un bello spettacolo: ho visto facce del genere nei film dell’orrore; eppure il nonno gliela raddrizzò, di modo che quell’uomo poté tornare a sorridere. Era anche bravo a rimettere a posto le ossa fratturate, e mi insegnò come guarire le ali spezzate e le zampe degli animali.

    Il nonno era anche onesto, a differenza di alcuni uomini-medicina dei giorni nostri, i quali promettono la guarigione a un malato ben sapendo di non possedere la conoscenza o il potere per tener fede alla promessa, e pensano soltanto ai soldi che gli possono spillare. Egli non chiedeva mai niente per le sue cure, ma poteva accettare un regalo sotto forma di cibo. E spesso lo udii dire a un uomo o a una donna venuti da lui in cerca di aiuto: «Non ti posso curare, ma conosco qualcuno che è in grado di farlo».

    Questo perché, proprio come fra i medici bianchi, esistono degli specialisti tra gli uomini-medicina indiani: uno rimette a posto le ossa, un altro è in grado di curare un morso di serpente, un altro ancora possiede un’erba con la quale provocare un aborto per salvare la vita di una donna. E poi c’è il wapiya, lo hmugma wichasha, lo stregone o mago, il quale è in grado di curare una malattia ma può anche fartene insorgere un’altra. Vi è il male in una persona di questo tipo, ed è meglio evitare simili personaggi, che ricordano il Dottor Jekyll e Mister Hyde.

    Il nonno a volte diceva a un paziente: «Hai una malattia che è stata introdotta in questo paese dall’uomo bianco. Per essa non ho alcuna medicina, né ce l’hanno gli altri guaritori che conosco».

    Arrivava anche a dirgli: «Vai da un dottore bianco per questa malattia dell’uomo bianco».

    Come ho detto, il nome del nonno era Quick Bear. Molti dei nostri parenti avevano nomi con la parola Orso, e un tempo esistevano uomini-medicina che ricavavano il proprio potere da questo animale. L’Orso è feroce e può essere pericoloso, ma possiede la conoscenza delle erbe e sa come usarle. Ha inoltre gli artigli per scavare le radici medicinali ed è noto come l’uomo-medicina fra gli animali. Si dice che se un uomo sogna Mato, l’Orso, acquisirà la sua conoscenza di erbe segrete, per poterla utilizzare nella cura. Anche il nonno era un uomo-medicina Orso? Non lo so. È una di quelle cose di cui non si parla mai. A ogni modo, si dice che l’ultimo pejuta wichasha con il potere dell’Orso sia morto molti anni fa.

    Prima di morire, il nonno mi lasciò il suo corno di bisonte, e con esso anche delle erbe di comprensione e verità, gli insegnamenti del corno di bisonte. Non li volevo, allora: stavo ancora vagabondando e piantando grane; non ne comprendevo ancora il significato. Resistetti per molto tempo all’idea di usare quel corno. Per un po’ di tempo dimenticai persino dove lo avevo messo, ma al momento giusto lo ritrovai, e ritrovai anche la saggezza necessaria per usarlo.

    La casa in cui vivevamo era una baracca di tronchi, la tipica abitazione delle riserve degli anni Venti e Trenta. Aveva due stanze: la cucina e la stanza da letto erano comunicanti (alcune famiglie fortunate possedevano una terza stanza), e il pavimento era di terra battuta: era stato calpestato per così tanto tempo e così spesso che era diventato duro come il cemento. C’era una porta, con una finestra a Est e due a Sud.

    Non avevamo luce elettrica: nessuno ce l’aveva. Al suo posto usavamo lampade a cherosene provviste di grandi lastre di metallo riflettenti che compravamo allo spaccio. Non avevamo neppure acqua corrente: era compito mio andarne a prendere al torrente, a quasi un chilometro di distanza, e assicurarmi che in cucina ve ne fosse sempre un secchio pieno, con un mestolo che pendeva da un gancio lì accanto. Non avevamo tubature interne, ovviamente: soltanto un gabinetto di legno sul retro della casa. Per far sì che il vento e la pioggia non penetrassero attraverso le fenditure tra un tronco e l’altro, le riempivamo con argilla bianca mischiata a paglia e acqua. Dovevamo farlo una volta l’anno.

    Il tetto era costituito da pannelli di legno piuttosto sottili, ricoperti di carta catramata. Sopra si disponeva uno spesso strato di terra, come isolante. L’erba vi cresceva e ricopriva tutto il tetto: dal cielo la casa sarebbe rimasta invisibile, tanto si armonizzava con la vegetazione circostante. Come riscaldamento avevamo una vecchia stufa di ferro nella stanza principale. In camera da letto un fornello vecchio stile alimentato a legna serviva sia per cucinare che per riscaldarsi.

    Dormivamo su sgangherate reti metalliche, con sacchi pieni di foglie di mais e di pannocchie per materassi. Ogni sera dovevo spostare le pannocchie in questa o quell’altra posizione per stare più comodo. Avevamo anche due vecchie sedie, un tavolo, una bacinella per lavarci, e un vecchio baule nel quale il nonno teneva le sue poche cose. Invece di un armadio avevamo tanti chiodi conficcati nei muri per appendervi le cose. Tutto qua.

    Ero felice in quella casa. Non conoscevo abitazioni di altro genere: tutte le case della zona erano come quella. In seguito il governo introdusse abitazioni migliori, ricoperte di scandole e persino provviste di elettricità. Ma esse furono riservate soltanto ai politici mezzosangue e ai membri del Consiglio, non ai poveri purosangue come noi.

    Il nostro cibo era costituito in gran parte da derrate alimentari fornite dal governo, che ottenevamo presentando i buoni-acquisto, come venivano chiamati. Erano quasi tutti prodotti secchi, fra i quali il cibo proteico era scarso e la verdura fresca inesistente. Una volta al mese ci recavamo a Norris col calesse, per ritirare la nostra razione. Ci davano una porzione di pancetta affumicata, uvetta, farina, e un po’ di frutta secca. Non ci davano mai lo scatolame (frutta, carne di manzo o di maiale) che passano adesso agli Indiani delle riserve. Una volta ogni due mesi ricevevamo un quarto di manzo, secondo gli accordi che la nostra tribù aveva stipulato con il governo. Mangiavamo un mucchio di pane fritto, o pane in padella, cucinato sulla stufa. Fortunatamente il nonno aveva un orto di dieci acri, così avevamo sempre verdura fresca. Avevamo cetrioli, meloni, cocomeri, carote, lattuga: tutto ciò di cui avevamo bisogno, e avanzavamo anche qualcosa da dare ai nostri amici e parenti.

    Il nonno mi insegnò anche a riconoscere e a trovare la frutta selvatica. Nella tarda primavera e in estate raccoglievamo cipolle selvatiche, prugne, prezzemolo, quel genere di rape chiamate timpsila e altre radici commestibili, con le quali preparavamo una minestra deliziosa. Raccoglievamo ogni tipo di frutti di bosco: i primi maturavano a giugno, poi venivano i mirtilli, l’uva spina, i lamponi, le more dei bisonti e l’uva selvatica. Riempivamo interi secchi di chokecherry (un tipo di ribes selvatico, N.d.T.). Il nonno era il raccoglitore più veloce di Corn Creek. Raccoglievamo tutti i frutti selvatici che egli conosceva, tenendo per noi ciò di cui avevamo bisogno e portando il resto allo spaccio di Norris, dove lo scambiavamo con i prodotti dell’uomo bianco, come riso, farina e prugne secche.

    D’inverno bevevamo molto tè ottenuto dalla corteccia di diversi alberi; preparavamo una bevanda con le foglie fragranti della menta secca, e bevevamo succo di ciliegie ricavato dalla corteccia interna di tale albero. Durante l’estate le mie zie appendevano la carne a essiccare al sole, poi la pestavamo mescolandola con grasso di rognone e bacche per ottenere la wasna, o pemmican. La consumavamo d’inverno: era dolce e deliziosa, e una sola manciata era in grado di nutrire una persona per tutto il giorno.

    I Sioux sono carnivori. Il nonno insegnò a me e ai miei cugini, gli Spotted Owl (Gufo Chiazzato), a piazzare le trappole: gli piaceva molto. Egli non si servì mai di un fucile per uccidere un animale, né usò mai un’arma da fuoco, ma riusciva a intrappolare di tutto: lepri, anatre, fagiani, castori. Mangiavamo qualsiasi cosa camminasse, strisciasse, saltasse o volasse: la carne dei serpenti a sonagli era buona, aveva lo stesso sapore di quella del pollo; la zuppa di tartaruga era una prelibatezza. Nei casi estremi andavano bene anche gli scoiattoli, terricoli o arboricoli che fossero. Il nonno andava sempre a caccia con arco e frecce che, invece di avere la punta di metallo e di selce, avevano grossi nodi per stordire la selvaggina. Il nonno cacciava alla vecchia maniera sotto ogni aspetto. In tal modo risparmiava i soldi delle cartucce: soldi che, comunque, non avevamo.

    Alcune persone credono che vi sia bisogno di trappole d’acciaio come quelle in commercio, ma il nonno le improvvisava sempre con ciò che aveva a portata di mano. Una volta mi mostrò come catturare i procioni facendo a meno di acquistare una trappola allo spaccio. I procioni sono sempre curiosi e infilano le zampette dappertutto, così svuotò un pezzo di legno e vi inserì alcune punte acuminate, sempre di legno: quando il procione vi infilò le zampe, non riuscì più a tirarle fuori. Fortunatamente non avevamo forni a microonde, ma il vecchio forno a legna. Il nonno vi faceva stare un castoro intero cui aveva asportato le interiora farcendolo con ogni tipo di erbe aromatiche. Un paio di ore dopo sfrigolava nel sugo di quelle erbe. Quello era cibo! Oppure, invece che nel forno, lo si può cucinare semplicemente alla brace: è ancora meglio. La parte migliore del castoro è la coda: quando la si abbrustolisce a fuoco lento acquista un gusto straordinario.

    Una volta, in Germania, sono stato invitato a una festa in cui avevano arrostito due interi castori in onore del mio compleanno. Avevano esattamente lo

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