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La Sardegna dei misteri
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E-book245 pagine3 ore

La Sardegna dei misteri

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Resoconti da un’isola che ha custodito intatto il fascino del suo passato e dei suoi enigmi irrisolti

La Sardegna: un luogo animato da figure e storie avvolte ancora da un’aura di mistero. Vicende del passato senza risposte certe ed episodi tuttora impenetrabili si succedono, offrendo interrogativi che non sempre trovano soluzione. Dalla vita quasi sconosciuta del popolo nuragico alle molteplici ipotesi sulla costruzione dei loro “castelli” di nuda pietra, che il tempo riesce appena a scalfire, fino alle ipotesi sulla presenza di Dante sull’isola. Le storie di affascinanti donne mitiche come l’ultima femina agabbadóri, il misterioso e irrisolto caso di sangue di Donna Francesca Zatrillas e il destino incerto della “giudicessa” Eleonora d’Arborea. La serie degli enigmi si chiude con la “Mano di Marini”, vicenda narrata ma anche studiata alla luce delle più avanzate tecnologie e che consegna al lettore una domanda: può un corpo umano mantenersi integro attraverso i secoli? Con una penna dal tocco delicato che sa far convivere con eleganza l’elemento storico e quello favolistico, Franco Fresi ci guida alla scoperta di una terra e dei suoi protagonisti dal sapore antico e dal fascino inesauribile.

I suoi segreti sono custoditi da millenni di storia

A Su Nuraxi, in casa del re 
Il nuraghe: casa, castello o santuario? 
Quelli della cera perduta 
Quando la terra non è un sudario
La sposina sarda e il principe etrusco 
Ma Dante in Sardegna...? 
Nel paese dei Lestrigoni 
La femina agabbadóri: sacerdotessa del mistero
Quello che doveva essere fatto...
Donna Francesca Zatrillas: il caso Camarassa
Nella Strada dei Cavalieri dopo la mezzanotte
Eleonora d’Arborea, la giudicessa
Quando il destino gioca con la morte e con la vita

…e tanti altri argomenti
Franco Fresi
nato a Luogosanto il 6 giugno 1939, vive e lavora a Tempio Pausania. Poeta, autore di testi per la scuola, è fra i redattori de «Il Monte Analogo», rivista di poesia e ricerca, e collaboratore de «L’Unione Sarda». Ha pubblicato libri di poesia (La sabbia del giorno, antologia di testi di poeti paraguaiani, Di’ soltanto una parola e Il canto della regina) e, per la Newton Compton, Banditi di Sardegna; Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità della Sardegna, La Sardegna dei misteri e La Sardegna dei sortilegi, scritto con Francesco Enna, Gian Luca Medas e Natalino Piras.
LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2016
ISBN9788854196643
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    La Sardegna dei misteri - Franco Fresi

    L’isola che non c’è

    La Sardegna che c’è

    E se questa Sardegna, quella che c’è, fosse l’isola che non c’è? Sergio Frau, giornalista e scrittore di penna aguzza, ha già scandalizzato la classe osservatrice e conservatrice degli archeologi sardi sostenendo che la Sardegna potrebbe essere l’Atlantide di cui parla Platone.

    Nei secoli, diverse zone del Mediterraneo sono entrate in lizza come candidate al titolo di miss Atlantide, a cominciare da Santorini, un’isola greca che più di mille anni prima di Cristo fu spezzata in due dall’esplosione d’un vulcano.

    Qualcuno sostiene che quell’esplosione diede luogo a un maremoto di onde alte più di dieci metri che arrivarono fino a Creta distruggendo da un giorno all’altro la civiltà cretese minoica.

    Altrettanto, secondo Frau, sarebbe successo alla Sardegna. Un terremoto, scatenatosi nel cuore profondo delle coste sommerse della Tunisia (proprio lì dove le due placche tettoniche, quella africana e quella eurasiatica, collidono inquiete da sempre), avrebbe causato, in epoca recentissima, appena tremila anni fa, un maremoto (ora si usa dire tsunami) di onde tanto alte e violente da forzare la diga protettiva naturale formata dalla Sardegna e dalla Corsica, al centro dell’Oceano di Platone (il Mediterraneo occidentale), e riempire di fango la depressione meridionale dell’isola biforcuta di Atlantide. Chiamiamola pure così, dice Frau, ma la possiamo chiamare anche Sardegna. Sono la stessa cosa. Lo dicono i grandi geni dell’antichità: e qualche volta con estrema chiarezza. Lo dice, con frasi toccanti, Diodoro Siculo, attingendo a fonti più antiche. «Abbiamo parlato», scrive, «delle isole che giacciono al di là delle colonne d’Eracle, tratteremo ora di quelle situate nell’Oceano [Mediterraneo occidentale]. Di fronte alla Lybia, in alto mare, s’eleva un’isola di notevole grandezza; trovandosi nell’Oceano a Occidente, dista dalla Lybia parecchi giorni di navigazione. Ha terra fertile, gran parte montuosa, non poco pianeggiante, di straordinaria bellezza. Percorsa da fiumi navigabili, è da questi ben irrigata: possiede molti parchi, dove sono piantati alberi di ogni tipo, moltissimi giardini percorsi da acque dolci. Sull’isola ci sono dimore costruite con lusso...»¹.

    La descrizione, piena di ammirazione, impressiona il lettore. Lo stesso Frau confessa la sua emozione, che diventa sempre più struggente man mano che il due più due fa quattro, che le sue intuizioni sembrano trovare un riscontro in più autorevoli fonti. «Abbiamo parlato delle isole che giacciono al di là delle Colonne d’Eracle, tratteremo ora di quelle situate nell’Oceano...». Già, perché queste benedette colonne non sono più nello stretto di Gibilterra, dice Frau, ma si levano in casa nostra: in quello stretto di Messina dove Ulisse si privò temporaneamente di qualcuno dei suoi efficientissimi cinque sensi per non cedere alle lusinghe delle sirene. Dove, tra le «corde» di roccia del fondo, qualcuna si sfilacciò liberando dal «cuore del macigno», come canta il poeta, quel rombo di fuoco che scosse, in un lontano 1908, Messina e le coste tutto intorno, come un albero di frutti maturi. Morirono in 80.000 (l’intera popolazione di Messina era di 150.000 abitanti). Proprio lì, in quei fondali non così profondi da immaginarci l’inferno, ma un cantiere di fuochi d’artificio sempre pronti a esplodere, a sprigionarsi dalle nervature e dai tendini di pietre ancora sature dall’energia primeva dell’inizio del mondo. Proprio lì è scoppiato il grande botto che ha spedito un vento d’acqua e fango a cancellare nell’isola Sardegna-Atlantide la civiltà nuragica, una delle più importanti del pianeta.

    E che cosa si voleva simbolizzare con questi due cippi giganteschi piantati tra il gorgo-mostro tempestoso di Cariddi, che prima era una bella ninfa figlia di Poseidone e della Terra, e lo scoglio-mostro di Scilla, anche lei una ninfa prima che Circe, per amore di Glauco, la trasformasse in roccia? Non mitiche magie di divinità capricciose, ma semplicemente un limite posto dai Fenici, che erano stati i primi ad arrivare da queste parti. Poi ci tornarono in massa, per impedire ai Greci l’accesso al Mediterraneo d’Occidente.

    Tolte le colonne dallo stretto di Gibilterra, rientrarono dall’Oceano vero, l’Oceano Atlantico, come da una bocca sdentata, tutti i miti che erano stati costretti a fuggire dal Mediterraneo dov’erano nati: «È un flusso impetuoso. Inarrestabile», scrive Frau «la più fantastica processione sacra a cui uno possa mai assistere. Secoli e secoli di miti, di mostri ed eroi che rientrano tutt’insieme, a riprendere possesso dei luoghi un tempo soltanto loro»².

    L’enorme onda portò via anche la lingua di quel popolo antico venuto dai luoghi del sole, ma risparmiò le loro mirabili costruzioni, coprendo nuraghi e templi sotto una coltre di fango e riempiendo i pozzi sacri quasi a preservarli per altra gente che sarebbe arrivata e li avrebbe scoperti, magari anche per caso, stupendosi di tanta magnificenza. Giovanni Lilliu, il massimo archeologo sardo del nostro tempo, di questi templi ne scoprì alcuni proprio per caso. O per illuminata intuizione. Come Su Nuraxi, la reggia di Barumini, sepolta sotto le zolle di un mammellone ai bordi del paese dov’è nato: «Sdraiati sull’alto della collina», scrive, rievocando una scampagnata giovanile, «in nessuno di noi entrava il sospetto che essa era una cosa somigliante, nella stratificazione dell’interno, ai meravigliosi e celebri tell³ di Troia e del Vicino Oriente; e che le nostre voci e suoni si elevavano al di sopra di altre voci e altri suoni cessati per sempre sepolti nel luogo della nostra romantica sosta musicale e canterina. Del resto, come avremmo potuto immaginare il tesoro nascosto di un autentico villaggio contenuto nel tumulo se l’aratro vi saliva fino al punto più elevato, toccando e graffiando appena qualche pietra d’ingombro?»⁴.

    Ci vorrà la ferrea determinazione dello scienziato a indirizzarlo sul terreno familiare dell’indagine, seguendo con pietas patria le stesse favole che i compaesani avevano sempre raccontato.

    «Diceva la gente che i sotterranei fossero abitati dalla terribile musca macedda e guai a inoltrarsi in un lungo e pauroso cunicolo tra Su Nuraxi e il castello giudicale della Marmilla, o di Las Plassas; nello stesso tempo, del nuraghe attraeva me e i miei compagni di svago una cavità in vista, che chiamavamo il pozzo. Era l’unico punto accessibile alla montagnola di terra e sassi ritenuta da noi e da tutto il paese una collina naturale, come tutte le altre moli che contornavano la conca verde del Pardu’e s’eda»⁵.

    Qualche volta lo scienziato si spoglia dall’abito austero del tecnico per vestire quello del poeta, più creativo, più rispettoso delle suggestioni della fantasia; e si lascia prendere dal fascino della leggenda, o della verità non codificata.

    Magari ciò che Frau afferma fosse tutto vero! Chi fa di questi sogni merita di svegliarsi al mattino e trovarsi la sorpresa che le cose sono andate davvero così, a dispetto di chi non crede quanto il miracolo ci sia vicino, se uno, anche solo un uomo, lo crede possibile.

    Il libro di Sergio Frau è un’opera importante, infatti ha suscitato vivo interesse ben al di là dei confini isolani. Importante almeno per due motivi: intanto per l’immane fatica di riportare le Colonne d’Ercole dallo stretto di Gibilterra al canale di Sicilia, impresa che può valere comunque come un pretesto per rovistare felicemente tutto il Mediterraneo, e dragarlo per ricostruirne le vicende preistoriche; e, secondo motivo, per la presunzione elegante che, una volta risistemate le Colonne al loro posto, con buona pace di Eratostene che le aveva collocate alle porte dell’Oceano vero e proprio, si sia ormai liberi di identificare «l’isola di notevole grandezza nell’Oceano a Occidente», a est delle Colonne, con l’Atlantide-Sardegna. Il che vorrebbe dire essere d’accordo con quasi tutti i testi, antichi e moderni, autorevoli e meno autorevoli, che la mitica Atlantide l’hanno collocata proprio lì. Forse è per questo che Frau coinvolge tutti, e se ne serve perché gli diano ragione. Non senza, però, averci prima impiegato, senza risparmio, le sue energie intellettuali.

    Non si può dire che Frau non cerchi di sedurre i più attendibili studiosi della preistoria mediterranea con un bel numero di ipotesi: molto ardite, ma allo stesso tempo corredate da un’alluvione di documenti chiamati a dargli ragione.

    Già in epoca preclassica, avverte Frau, Atlantide era conosciuta come un’isola leggendaria. Platone fu il primo a citarla nel Timeo e in Crizia: una specie di eden popolato da gente felice in sontuose dimore, ricco di piante fruttifere rigogliose, animali di ogni specie. Il sottosuolo abbondava di inesauribili giacimenti di metalli, fra i quali il prezioso oricalco, lega naturale di oro e rame (secondo altri di ottone e bronzo, o di rame e zinco). Un regno potente, dal nome che derivava, secondo Platone, direttamente da Atlante, figlio di Poseidone e di Clito. Una famiglia di buon sangue, non c’è che dire. Tanto che Clito era figlia di Evenor e di Leucippe, i primi abitanti dell’isola: una specie di Adamo ed Eva.

    L’isola di Atlantide era a capo di un regno potente che comprendeva un arcipelago e parte di due continenti: la Libia fino all’Egitto e l’Europa fino al mar Tirreno. Seguendo un disegno d’espansione che aveva il suo teatro centrale nel Mediterraneo, il popolo di questo regno cercò di impadronirsi delle aree a Oriente, fino alle coste asiatiche. Atene, a capo di una coalizione cui aveva associato tutti i popoli della Grecia, contrastò l’avanzata degli Atlantidi, disperdendone alla fine l’esercito.

    Dopo breve tempo, in un solo giorno, l’isola venne sommersa e sprofondata da un tremendo terremoto che la cancellò dalla faccia della terra. Ma non dalla memoria delle generazioni.

    Con l’andare degli anni la convinzione che l’isola fosse solo il parto della fantasia di Platone lasciò spazio alla supposizione che si potesse trattare di un’isola, forse addirittura di un continente, realmente esistiti. Alcune similitudini tra terre e mari, presenti negli scritti dei geografi e nelle testimonianze degli storici e dei poeti, suscitarono l’interesse dei cercatori di misteri e destarono la curiosità degli studiosi.

    Partendo da fenomeni ben conosciuti di progressivo sprofondamento di terre emerse, di lenti ma inesorabili bradisismi, gli scienziati credettero di poter individuare la vera isola di Atlantide. Cercarono di tirarla su, grondante d’acqua, dagli abissi dell’Oceano o dell’anti-Oceano, appena due passi più in là delle bocche di Gibilterra.

    Gli scrittori diedero una mano, come se volessero tenerne vivi nome e mistero. Alzarono la mano anche i filosofi. Per ultimo comparve il cinematografo. Francesco Bacone scrisse La Nuova Atlandide; lo svedese Olaf Rudbeck, pare tra Seicento e Settecento, identificò nel suo libro Atland eller Manehim (1679-1702) l’isola di Atlantide con la Svezia; in Atlantica (1878), il catalano Jacinto Verdaguer y Santaló s’inventò un Cristoforo Colombo vagante negli oceani, alla ricerca dell’isola dell’oricalco. Nel 1919 Pierre Benoit raccontò, in Atlantide, la vicenda di due ufficiali francesi, smarriti nel deserto del Sahara, che entrano in contatto con la civiltà degli Atlantidi cadendo nella rete della bellissima regina Antinea. Dal libro il regista Jacques Feyder, nel 1921, ricavò un film con Stacia Napierkowska: andò a girarlo in pieno deserto del Sahara, scelta abbastanza insolita per quei tempi. Ne fece un film anche il regista Georg Wilhelm Pabst, nel 1932, interpretato da Brigitte Helm, «regina di statuaria e gelida bellezza». Nel 1949 ci provarono anche gli americani: regia di Gregg C. Tallas, con Maria Montez nella parte della «accalorata regina». E in anni più recenti un film francese di Bob Swaim è stato l’ultimo adattamento del romanzo di Benoît.

    Altre opinioni, nel nostro presente, sono state espresse sulla questione dell’isola fantasma e delle Colonne d’Ercole. Per Francesco Nicosia, siciliano di nascita e sardo di adozione, per anni autorevole direttore della Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro, l’argomento merita un’attenta e rigorosa valutazione. Ma sembrano ancora da evitare certe «fughe in avanti», afferma, come lo stesso spostamento delle Colonne d’Ercole dallo stretto di Gibilterra al canale di Sicilia, in un momento in cui la storia dell’archeologia sarda non è stata compiutamente indagata con i metodi propri della ricerca scientifica.

    I giudizi che pullulano oggi intorno all’opera di Frau sono tanti e diversi. La maggior parte accompagnati da una manifesta vis polemica, ma nessuno senza una certa accondiscendenza, una qualche complicità, un pizzico di simpatia per tutte le prove che il giornalista-scrittore tenacemente accumula.

    La sensazione che si prova davanti all’inchiesta di Frau è quella di trovarsi di fronte a un bel nuraghe ricostruito nei suoi massicci blocchi di basalto scuro, perché noi oggi ne possiamo conoscere, anche nei particolari, la sua vera immagine, e forse anche la sua funzione primaria. Ci accompagna, però, un sospetto, meglio una prudenza: che due o tre blocchi della base d’una così articolata (e coerente) costruzione siano (possano essere) di creta, o magari anche di plastica ben dissimulata. Forse resisteranno, presi nell’abbraccio degli altri blocchi, forse no. Di certo il nuovo nuraghe non crollerà. Casomai, se ci sarà un cedimento, il complesso perderà la sua eleganza, resterà magari un po’ sbilenco.

    L’amarezza con cui Frau ha chiuso, non molto tempo fa, il festival Ichnusa di Sorgono, parlando della querelle sorta intorno alle sue ipotesi, è riuscita a contagiare una buona parte del popolo sardo. Reduce dalla mostra Atlantikà: Sardaigne Ile, Mythe, organizzata a Parigi dall’Unesco che, secondo Frau, ha segnato un’occasione necessaria per una spinta democratica e culturale nel mondo dell’archeologia isolana, il giornalista di «la Repubblica» si è detto deluso dal fatto che proprio quel mondo non sia riuscito a capirlo e che non abbia voluto aderire a un confronto nel quale le due parti avrebbero potuto chiarire le proprie posizioni.

    In ogni caso, dacché mondo è mondo, raramente dai confronti escono soluzioni che accontentino tutte le parti in campo.

    1. S. Frau, Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta, Nur Neon, Roma 2002, p. 509.

    2. Ivi, p. 16.

    3. Nella toponomastica araba sono indicate con questo nome le colline, le alture.

    4. G. Lilliu, Come ho scoperto Barumini, in Id., Cultura e Culture: Storia e problemi della Sardegna negli scritti giornalistici di Giovanni Lilliu, Carlo Delfino editore, Sassari 1995, I vol., p. 45.

    5. Ivi, p. 50.

    I pronipoti di Noè

    Una bimba di nome Sardana

    Pare che alcuni sposini, qui in Sardegna, abbiano chiamato Sardana una loro figlia, in onore ai Shardana, uno fra i più intraprendenti popoli del mare, vissuti nell’India occidentale intorno al 1410-1372 a.C. Chiamarsi Sardana potrebbe voler dire, in un tempo come il nostro che richiede una vivacità di pensiero e di azione, essere una persona che al bisogno saprà non tanto menar le mani quanto, almeno, sgomitare. Insomma una carta in più da giocare. Anche perché pare che questi Shardana, come il nome stesso sembrerebbe testimoniare, fossero originari della Sardegna. E la legge della discendenza, anche lontanissima, certe tracce le lascia sempre, anche dopo una bella manciata di millenni. Intanto, una discendenza di tutto rispetto a questi popoli bisognerebbe riconoscerla. È la Bibbia stessa a tracciarla: Iafet, figlio di Noè, ebbe tra gli altri figli, anche Iavan dal cui ramo discendono gli indoeuropei (area mediterranea); dal ramo di Sem, fratello di Iafet, discendono invece i semiti, arabi ed ebrei. Da costoro, secondo la Bibbia deriverebbero le nazioni disperse per le isole nei loro territori.

    Sappiamo quindi che i popoli del mare erano indoeuropei; e che erano abituati a muoversi e ad affrontare lunghi viaggi per terra e per mare, tra genti e climi diversi. Non per niente partirono dall’India centrale e meridionale per arrivare all’alto nord, l’attuale Russia meridionale, e scendere poi fino al mare Mediterraneo.

    Pensare che a distanza così remota si possano individuare con esattezza luoghi e popoli, affidandosi a ipotesi suggestive nelle quali giocano un ruolo importante immaginazione e sete di scoperta, è rischioso e difficile.

    Neppure sulla denominazione di questi popoli biblici gli studiosi si trovano d’accordo. Un’elencazione credibile potrebbe essere questa: Akauas (Achei); Tursa (Etruschi?); Luka (Lici); Shardana (Lidi); Sahalas (Siculi); Puluseta (Filistei); Danuna (Danai).

    I popoli del mare, le popolazioni delle isole: definizioni che hanno un fascino particolare. Verrebbe voglia di apparentarli anche con i popoli delle steppe, le genti scito-saka, gli antichi nomadi, presenti nelle steppe eurasiatiche, tra il Danubio e le frontiere cinesi, già dal XVIII secolo a.C. Fonti importanti (principalmente Erodoto) li descrivono come abili arcieri equestri, minaccia costante e rovinosa per i sedentari, costruttori dei Kurgan, monumenti sepolcrali (importante quello di Arzan, nella regione di Tuva) e inventori dell’arte e della scrittura a rappresentazione zoomorfica.

    E li individuano tra le falangi della guerra di Troia, compresi e integrati perfettamente nell’esercito greco (come del resto sembrano integrati, secondo le trascrizioni degli studiosi dei testi in geroglifico e delle iscrizioni cuneiformi, anche nelle falangi egiziane): combattenti a fianco degli Achei e i Danai (dei cui capi, e «dopo lor, molta plebe», Ettore fa strage nel Libro decimoprimo dell’Iliade)¹.

    Per i redattori del Piccolo dizionario biblico, popoli del mare è una «denominazione

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