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L'Arcano Minore: Eleonora D'Arborea tra mito e realtà
L'Arcano Minore: Eleonora D'Arborea tra mito e realtà
L'Arcano Minore: Eleonora D'Arborea tra mito e realtà
E-book231 pagine1 ora

L'Arcano Minore: Eleonora D'Arborea tra mito e realtà

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Info su questo ebook

Un velo di mistero accresce la fama di Eleonora d’Arborea, che la storia consegna al mito per farne un’eroina di imperitura memoria.

Carlo Cattaneo, un grande intellettuale del XIX secolo, scrisse di lei: “... è la figura più splendida di donna che abbiano le storie italiane, non escluse quelle di Roma antica”.

Che cosa dunque la rende così tanto speciale? Anzitutto il fatto di essere donna e regina in un mondo declinato al maschile. Nel XIV secolo Eleonora lega il suo nome alla storia della Sardegna: regge le sorti del giudicato di Arborea per quasi vent'anni e fa suo il sogno irredentista del padre, Mariano IV, che voleva riunire la Sardegna in un unico regno. La sua opera raggiunge l'apice nella promulgazione di un corpo di leggi scritte, la Carta de Logu, che per chiarezza e innovazione non ha eguali nella sua epoca e costituisce una pietra miliare nella storia del diritto.

Ma Eleonora d'Arborea è soprattutto una donna e una madre, una figlia e un'amante, nella cornice di una Sardegna arcaica, che profuma di incenso e zolfo, la terra aspra dove magia e superstizione piegano all'irrazionale il corso degli eventi.

Il libro di Stefania De Michele prova a seguirne le tracce lasciate dai pochi documenti che ci sono pervenuti, e ci restituisce con garbo ed eleganza (prendendosi qualche libertà) la vita affascinante e avventurosa di una donna che ha saputo cambiare la storia della propria terra.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2015
ISBN9788895226422
L'Arcano Minore: Eleonora D'Arborea tra mito e realtà

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    Anteprima del libro

    L'Arcano Minore - Stefania De Michele

    Stefania De Michele

    L'ARCANO MINORE

    Progetto grafico, impaginazione e realizzazione ebook a cura di Èthos Edizioni.

    La versione cartacea di questo libro è stata pubblicata nel 2010.

    © 2015 Stefania De Michele per Èthos Edizioni

    via Vittorio Emanuele, 17 - 08025 Oliena (Nu)

    www.ethosedizioni.net  -  email ethoslibri@gmail.com

    ISBN 978-88-95226-42-2

    ISBN: 9788895226422

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Prefazione

    Premessa

    Prologo

    UNO

    DUE

    TRE

    QUATTRO

    CINQUE

    SEI

    SETTE

    OTTO

    NOVE

    DIECI

    UNDICI

    DODICI

    TREDICI

    Epilogo

    Avvenimenti successivi

    Note

    Bibliografia

    Note biografiche sull'Autrice

    Prefazione

    di Giacomo Mameli

    È giusto riportare in primo piano la figura della donna sarda più importante della nostra storia passata. È giusto in questo momento di universale – pur tardivo – riconoscimento dei valori e delle virtù femminili, dal Brasile di Dilma Roussef alla Birmania di Aung San Suu Kyi, dalla Germania di Angela Merkel alle nuove figure finalmente emergenti anche nel panorama sociale italiano. Perché Eleonora d’Arborea è una delle poche (e dei pochi) Grandi da inserire nel Pantheon della Sardegna. E se si potessero assegnare i Nobel alla memoria, sicuramente la giudicessa oristanese, che ha regalato al mondo una delle prime Costituzioni civili e progressiste, starebbe meritatamente vicina a Grazia Deledda.

    C’era bisogno di questo libro. Bello perché insolito. Utile perché documentato come pochi altri. Perché – nei personaggi centrali ma anche e soprattutto in quelli minori – svela segreti che non erano noti. Racconta in forma inedita e coinvolgente il medioevo sardo che riconosceva alla donna un ruolo sociale e diritti civili pari a quelli degli uomini.

    L’autrice, in due anni di ricerche, ha scavato nelle pagine di secoli pieni di fascino ma che ancora non ci erano stati restituiti nella loro compiutezza perché affidati a ricostruzioni complicate, contorte. E la lettura delle pagine di storia diventava straziante.

    Stefania De Michele è una giornalista, non una storica. Laureata in Scienze Politiche si è occupata molto di Emilio Lussu e solo negli ultimi anni ha scoperto la calamita che l’ha portata ai giorni dei feudi quando tutto in Sardegna si muove più lentamente, secondo i ritmi dilatati di una peculiare inerzia storica. Ed ecco che foglio dopo foglio sembra di assistere in diretta a una fiction storica con la regia di una cronista che conosce le tecniche filmiche e televisive per raccontare i suoi Annales. Ci mostra un mondo sconosciuto ai più, anche a chi è stato tra i banchi di un liceo o di una università ma non ha mai potuto frugare nei comportamenti dei nostri antenati.

    Questo libro colma quel vuoto impressionante. Ed ecco Eleonora – regale e austera – che sale al trono. Chi l’avrebbe mai immaginato in periodi tanto lontani da quello che oggi chiamiamo femminismo? Da dove traevano forza queste donne leader? Non lo era anche un’altra donna, Violant dei Carroz, che dominava dal Castello di Quirra ed era mal sopportata dalla nomenklatura dell’epoca?

    Con Eleonora d’Arborea siamo sulle vette alte della politica. Del Diritto. Del progressismo, come già è stato detto. Una Costituzione d’avanguardia. Una Carta dei diritti dell’uomo e della donna maturati alla foce del Tirso e sotto il Gennargentu. Ma non solo. Ecco una teoria di fatti tragici e comici. Ecco l’antropologia che fu: anche sette secoli fa un rametto d’olivo per strada indicava che un oste poteva servire del buon vino. Ecco l’economia che fu: perché sette secoli fa si caricavano sulle navi prezioso corallo, grano, carne di porco salata e stoppa detta bruyessa. Ecco i costumi, le usanze: Brancaleone aspira con voluttà l’odore dell’olio di semi di lino che era stato usato per lucidare il legno. Poi vi imbattete certo nei conflitti storici che sono per la Sardegna ciò che erano stati – per altri versi – in Persia, a Tebe o a Sparta. Anche qui c’è la lotta per il potere. Anche qui – come nell’universo mondo – c’è un Sovrano che pretende la restituzione di territori, castelli e ville che mio padre e Ugone conquistarono dopo il 1355 mentre i nostri dirimpettai di Catalogna esigono la consegna di Federico.

    Fissiamo allora la diapositiva su questa grandiosa juighissa che parla del marito prigioniero a Castel di Castro. E poi vedere tutt’attorno malie e magie, la Torre, la Bibbia, la Ruota. E quel misteriosissimo Arcano che è talvolta Maggiore tal altra Minore e che portano il lettore in un iperuranio che nei libri di storia non avrebbe mai potuto né esplorare né immaginare.

    Pagine ben scritte. Dove emerge una Eleonora leader di un popolo ma portata nelle nostre case con semplicità. Così che questa Eleonora è ancora più amata, più protagonista di prima. Sembra una nostra sarda mater a cui ci sentiamo legati affettuosamente e politicamente. Un personaggio a tutto tondo. Giurista, certo. Una segretaria di Stato di ieri alla Condoleeza Rice o alla Hillary Clinton con regno in Sardegna. Sembra di vederla arrivare a Bosa dove deve ricevere l’inviato del Re Pietro per discutere un accordo di pace. In queste trattative proprie degli Statisti Eleonora si umanizza, la sentiamo semplice e premurosa. Non sono pagine struggenti di alta letteratura quelle nelle quali la nostra cronista-autrice inviata nel medioevo ci racconta dei dignitari di corte che decretarono la morte del giudice Mariano senza porsi domande e poi ci ripresenta Eleonora che accese quattro ceri intorno al catafalco e iniziò la veglia?

    Le cronache della Peste, quella che sterminò un terzo della popolazione europea. Le cronache del medico dei Papi verso il quale si scatena come una congiuntura astrale con risvolti spesso indecifrabili ma intriganti di complotti ebraici. Le cronache di quel 23 marzo 1383 ad Alghero. Pagine riportate alla luce anche con gli studi di quel grande storico, politico e filosofo sassarese che è stato Camillo Bellieni. Pagine che suscitano emozioni. Lo immaginate un giovane chierico glabro che recita la parte della Madre di Dio, vestito come un’imperatrice e circondato da angeli e pie donne? E chi è quella puttana che ha promesso dieci anni di esenzione dai tributi? E i personaggi minori? Chi è padre Cristoforo di Ales? E padre Leonardo di Santa Giusta? E Antoni e Mariedda, esponenti di fasce sociali ai margini della vita pubblica? Era i senza diritti. Erano gli extracomunitari nella loro terra sarda, in su Regnu d’Arbaree.

    Nelle ultime pagine – tra la morte di Eleonora e una sintesi efficace degli articoli più moderni della Carta De Logu – l’autrice alza il tono del racconto. Che diventa psicologico, storico, sociologico, cronache di potenti e di umili, di regnanti e sudditi. Con una qualità della scrittura ormai insolite. C’è eleganza nel dire e nel porgere in questo libro. Qualità che è ormai rara avis nella saggistica e nella letteratura contemporanea. Leggerete naturalmente un libro di storia. Che mancava. Stefania De Michele ha colmato – con sapienza – una grave lacuna.

    Premessa

    Anno 1383 dopo Cristo: la Sardegna gravita in una bolla spaziotemporale.

    Quel che accade nell'isola non succede altrove.

    Nell'Altroquando sardo il mondo feudale non attecchisce, il Re (chiamato Giudice) governa con il consenso del popolo, il padrone non dispone fisicamente del servo, la donna è soggetto di diritto pari all'uomo. Anche il tempo è una variabile indipendente: tutto in Sardegna si muove molto più lentamente, secondo i ritmi dilatati di una peculiare inerzia storica. Solo la peste è uguale ovunque.

    Nella seconda metà del XIV secolo, dopo il flagello del 1347, un'altra epidemia si abbatte sull’isola: migliaia di uomini, donne e bambini muoiono, coperti di vesciche purulente, sputando sangue.

    Dice le sue ultime preghiere anche Mariano IV, giudice d’Arborea, signore incontrastato di quasi tutta la regione: sotto il vessillo dell’albero sradicato, prima che la Morte Nera vada a rendergli omaggio, Mariano riunisce lande e contrade, città e villaggi, strappati al dominio dei forestieri catalani. Al giudice sopravvivono i suoi tre figli: Ugone, che prende il posto del padre, Eleonora e Beatrice.

    Sono anni difficili: la guerra contro i catalano-aragonesi, arroccati a Cagliari e Alghero, si trascina. Da Barcellona re Pietro IV il Cerimonioso si adopera per rintuzzare gli attacchi, ma senza mai passare all’attacco. 

    La lotta per il feudo sardo, troppo onerosa da combattere con le armi, si sposta sul fronte degli intrighi di corte e della compravendita di cariche e prebende. 

    Anche la Chiesa Cattolica sacrifica la sua missione spirituale ai giochi di potere e, con lo Scisma d’Occidente, vive lo strappo più doloroso della sua storia secolare: due Papi, due sedi pontificie, due agguerrite fazioni politiche bramose di potere. All’austero canonista Urbano VI, eletto in un tumultuoso conclave, i cardinali francesi contrappongono un uomo d’armi, giovane e ambizioso, Clemente VII. L’Europa cattolica si spacca: Italia, Inghilterra, Ungheria da una parte; Francia, Napoli, la Savoia, la Scozia e il Lussemburgo dall’altra.

    Nell’occhio del ciclone, dove tutto è immobile prima che la tempesta si scateni e travolga ogni cosa, sta Eleonora d’Arborea, in attesa che la Fortuna giri la ruota e il suo destino si compia.

    Prologo

    Albi trahunt et dicunt quod facient se mattari a nigris ad XIII tractum, male gratis nigris. [1]

    La voce atona, fredda come una folata d’aria invernale, lancia la sfida: appena tredici mosse sulla scacchiera prima di chiudere la partita. In maniera inevitabile.

    Un im percettibile fruscio delle vesti precede la risposta cupa: Amen. Carpe diem quam minimum credula postero. [2] 

    [1]  Il Bianco muove e dichiara che si farà mattare dal Nero in tredici mosse, qualunque cosa faccia il Nero. Tratto dal Bonus Socius, codice del XIV secolo che raccoglie partiti di scacchi. Si tratta di un classico esempio di automatto, un problema storico del gioco degli scacchi.

    [2]   Trad: Così sia. Vivi il presente, fidandoti del futuro il meno possibile.

    UNO

    3 marzo 1383

    Quel cane aveva la rogna e puzzava come la carcassa di un animale mangiato dai vermi, ma Antoni non voleva sbarazzarsene.

    Bairindi Dimòniu [1], gli aveva berciato dietro Mariedda, seguendo con lo sguardo corrucciato la bestia del marito che si allontanava sbilenca.

    Alla luce di un sole esangue, Antoni si era stretto nel suo pastrano di orbace: faceva freddo e l’erba ai lati del tratturo sudava stille di rugiada. Dimòniu precedeva il suo padrone sulla strada della terra donnica [2], poco fuori le mura della città. L’uomo pensava a Mariedda: l’aveva presa come fosse una giumenta, con lei aveva soddisfatto le sue voglie, l’aveva ingravidata.

    Non è bella, Dimòniu, ma è una buona faticatrice e i tempi sono duri. E poi presto mi darà un figlio. Faceva sempre così, Antoni: rifletteva ad alta voce mentre il cane sghembo trotterellava lungo il sentiero, pronto a fiutare la paura della preda. Era giorno di silva, la caccia grossa bandita dal maiore de scolca [3]. La comunità della villa era tenuta a fornire battitori e cani e a consegnare al fisco la selvaggina catturata. Ma in quella mattina di marzo, che doveva essere uguale a tutte le altre, percepiva qualcosa di strano: l’aria si era fatta pesante, quasi irrespirabile, e il pastore si sentiva inquieto. Sotto il cielo bigio come il dorso di un asino, Dimòniu aveva tirato indietro le orecchie e cominciato a correre e ululare. Pazzo d’un cane, beni innoi [4], ma la bestia sembrava aver perso la ragione dietro una schiera di fuochi fatui. Antoni l’aveva trovato esausto in aperta campagna. Non smetteva di latrare, cercando di sollevarsi goffamente sulle zampe posteriori per raggiungere il bordo in pietra di un pozzo. Immoi ti bociu [5] gli aveva strillato con il fiato corto per la corsa imprevista, che hai trovato, eh? Antoni si era avvicinato al pozzo e aveva guardato dentro. Quello che aveva visto lo aveva fatto cadere all’indietro per lo spavento, gli occhi sbarrati e lo stomaco chiuso in una morsa. Poi si era girato dall’altra parte e aveva vomitato.

    Réquiem aetérnam dona eis Domine, la voce rotta dai singulti, et lux perpétua luceat eis, il tremore dello sterno, requiéscant in pace. Amen. Così sia. Frate Elia, priore dei conventuali di San Francesco, biascicava in preda allo sgomento davanti allo scempio dei due corpi riversi sull’erba. Il medico, inginocchiato vicino ai cadaveri, ringhiava e sudava nel tentativo di scalciare una torma di ragazzini irrequieti che si faceva largo tra la selva di gambe dei curiosi.

    Via di qui, datemi aria, manigoldi urlò, facendo roteare il piede all’indirizzo dei piccoli deretani. Un moccioso, rosso di pelo, era riuscito a tirare un lembo della veste, zuppa d’acqua, della ragazza senza vita. Alla vista del volto deforme dell’uomo morto, il piccolo balente era però scappato tremando di paura. Chi li ha trovati? domandò il medico senza distogliere lo sguardo dai cadaveri. L’uomo sembrava un baccello sgusciato. Il corpo era ripiegato su se stesso, la posa innaturale, gli abiti di pregiata fattura bagna ti e laceri in più punti: sul petto, nelle gambe, sulla schiena. Pareva un fantoccio su cui un pazzo si fosse accanito, per rabbia e per piacere, con la lama del coltello. I capelli come alghe incolte velavano solo in parte l’oscenità dei connotati, deturpati da un ghigno strano.

    Chi l’ha trovato? ripeté ancora una volta, estraendo una grossa pietra dalla bocca dello sventurato. Il viso, senza il sasso che ne tendeva i lineamenti, si afflosciò in un’espressione meschina.

    Tutti i presenti – maiorali, liberi, colliberti, donne e bambini [6] – si voltarono all’indirizzo di Antoni. Il pastore sedeva su un grosso masso, in disparte. Con una mano Mariedda gli accarezzava la testa, con l’altra si lisciava il ventre gonfio. Li ha trovati il colliberto col cane, quello sposato alla strega disse uno tra la folla. Il frate si fece il segno della croce. Il medico si girò di scatto verso il pastore e prese a fissarlo attraverso la fessura dei suoi occhi cattivi. Poi tornò a esaminare la donna stesa vicino a lui. In una mano stringeva qualcosa. Le aprì le dita rigide, prese un pezzo di stoffa e lo mostrò alla folla, tendendolo verso l’alto. Un brusio si sollevò immediato. Tutti avevano riconosciuto l’albero sradicato, stemma del giudice d’Arborea, ricamato sul fazzoletto.

    La notte tra il 2 e il 3 marzo Madonna Doria si svegliò di soprassalto. Si tirò a sedere sul letto con il cuore che le batteva all’impazzata. Nel giaciglio, sistemato in un angolo della stanza, la governante russava rumorosamente. Il piccolo Federico dormiva nelle sue stanze con il precettore. La moglie di messer Brancaleone cercò di calmarsi. Solo un sogno – si disse con un filo di voce – è stato solo un sogno. Il vento di maestrale emetteva lamenti sinistri, correndo veloce tra le merlature e i bastioni del castello. Quando su ventu longu [7] sferzava il colle e faceva ribollire le acque del lago Coghinas, Eleonora si sentiva sempre un po’ in subbuglio: la pelle olivastra le si increspava in un brivido molesto e premonitore. Capitava anche da bambina, a Oristano, nelle fredde sere trascorse a palazzo giudicale. Solo che allora c’era la vecchia nutrice a spazzolarle i capelli e a mandar via presagi e paure. C’era anche Bea, ma con la sorella maggiore non si capiva. Beatrice, di poco più grande, era troppo diversa: trascorreva il tempo in trastulli, sognava di coprirsi il volto di biacca e di pitturarsi le labbra col belletto rosso, non amava giocare all’aperto. Ughetto, invece, la scherniva in continuazione: Sei brutta, sei brutta, sei brutta. Ogni giorno la stessa cantilena, ma Eleonora sapeva che era solo l’invidia ad avvelenare l’animo del fratello. Il padre, Mariano, amava lei. A lei chiedeva di accompagnarlo nelle visite alle ville, con lei aveva discusso le teorie di Tolomeo e Averroè, a lei aveva regalato il falco migliore del suo allevamento [8].

    Devi fare la femmina, devi pensare a sposarti e fare figli, le aveva urlato, con odio, Ughetto un giorno d’inizio estate di tanti anni prima. Soffriva per aver perso l’ennesima sfida di caccia con l’astore. E pensare che aveva fatto tutto per bene, non aveva dimenticato proprio niente: per eccitare il rapace al punto giusto, il donnicello [9] gli aveva dato da mangiare carne di piccione imbevuta nell’aceto, come suggerivano i migliori trattati venatori; per correggere la propensione del suo uccello a volare troppo in alto, Ughetto gli aveva parzialmente spiumato il dorso, secondo le disposizioni dei più esperti falconieri. Niente da fare: aveva perso ancora. La colpa era di quella strega di sua sorella che – non c’era altra spiegazione – faceva malie e sortilegi. Schiumava di rabbia per l’orgoglio ferito quando raccolse una pietra appuntita e la scagliò con tutta la forza che aveva in corpo. Eleonora si portò le mani al viso, le vide sporche del suo sangue e svenne. Si svegliò in braccio al fratello che le parlava con dolcezza: Eleonora, sorella, perdonami. Se non ti riprendi, morirò con te singhiozzava, ma lei non riusciva a sentire. I suoni non le arrivavano, vedeva solo le labbra che si aprivano e chiudevano in una strana mimica rallentata. Lo odiava con tutta se stessa. Anche quel giorno soffiava, feroce, il maestrale.

    Gli hanno tagliato la lingua, capite? Gliel’hanno mozzata quand’era ancora vivo. La voce stridula del medico trafisse come una spada le orecchie di Sua Eccellenza Reverendissima, il vescovo di Ales.

    Monsignor Cristoforo, che era anche cancelliere del regno, era intento a sistemarsi l’ampia pianeta di ciclatone [10] che lo faceva sembrare ancora più grasso. Che violenza inaudita, aggiunse in tono di un’ottava più basso, "tanta brutalità non si spiega.

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