Io ho sempre parlato. Vita di un cane unico con umani normali
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Anteprima del libro
Io ho sempre parlato. Vita di un cane unico con umani normali - Amelia Belloni Sonzogni
Indice
Ringraziamenti
A bocca aperta
Oggi sposi
In viaggio di nozze
Giatt
In attesa
Un altro viaggio
Verso casa
A destinazione
Primi rudimenti
Ricordi e istruzioni
A confronto
La zia Mari
Allora, traslochiamo?
Dove mi portate?
In casa, da solo
Torniamo a casa
La resa
Stinky
A scuola
In moto
In mare
Le fotografie
Il pericolo
Pancho
Zara e Nana
Amore e allergia
Sogno rivelatore
Epilogo in dialogo tra Pedro e l’autore
Amelia Belloni Sonzogni
IO HO SEMPRE PARLATO
Vita di un cane unico con umani normali
Youcanprint
Titolo | Io ho sempre parlato. Vita di un cane unico con umani normali
Autore | Amelia Belloni Sonzogni
Immagine di copertina | © Amelia Belloni Sonzogni
ISBN | 978-88-31683-90-6
Youcanprint Self-Publishing
Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce
www.youcanprint.it
info@youcanprint.it
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
© Tutti i diritti riservati all'Autore.
Questa opera è pubblicata direttamente dall'autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'autore.
Amelia Belloni Sonzogni
www.ameliabellonisonzogni.it
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Twitter: @fattukk
A Pedro, sempre insieme
Ringraziamenti
Grazie al prof. Raffaele Mantegazza per essersi unito con immediata sollecitudine all’iniziativa benefica cui questo volume è dedicato regalandomi la prefazione.
Grazie a mio marito Andrea per la paziente lettura e i preziosi suggerimenti.
A bocca aperta
Prefazione di Raffaele Mantegazza¹
Allora il Signore aprì la bocca all'asina
ed essa disse a Balaam:
«Che ti ho fatto perché tu mi percuota
già per la terza volta?».
Nm 22, 28
A Paolo de Benedetti
Una storia nella quale gli animali parlano. Sarà un racconto di fantascienza? Una favola di Fedro? Un fantasy? No, è un racconto realistico, e la cosa sconcertante non è tanto che gli animali parlano, cosa che non dovrebbe assolutamente stupirci, ma che ci siano esseri umani disposti ad ascoltarli e capirli.
Sono state dette tante bugie per giustificare l’inaccettabile dominio dell'uomo sugli altri animali: siamo gli unici a maneggiare strumenti (il che non è vero); siamo gli unici a utilizzare un linguaggio (cosa ancora più falsa). Non è stata detta la cosa fondamentale, ossia che siamo gli unici ad andare in giro nudi e ad avere inventato i vestiti come copertura della nostra fragilità.
Ma gli animali parlano, parlano le piante, parla l'universo. E forse uno degli scopi della presenza umana su questo pianeta e in questa galassia è proprio cercare di ascoltare il linguaggio dei viventi e riarticolarlo nel nostro, tradurlo per poter rispondere. La questione non è tanto che cosa significa il miagolio di un gatto, ma qual è il rapporto che questo miagolio mette in campo con l'umano che è presente in quel momento. Esattamente come davanti a un'opera d'arte è assurdo chiedersi che cosa vuol dire
, ma occorre lasciarsi interrogare, entrare in una relazione. Il linguaggio è relazione, evidenzia e sottolinea gli aspetti positivi e negativi di un rapporto. Quando un illustre scienziato ha potuto affermare che il miagolio del gatto significa dipendenza
ha legittimato in modo sconcertante lo specismo di una specie, quella umana, che di certo è superiore agli animali nella propria infinita presunzione
Ma il linguaggio dell'animale non si può capire se non lo si collega allo sguardo. Gli animali non hanno un muso, hanno un volto; guardare negli occhi un animale, oppure osservare il suo corpo anche quando è difficile parlare di occhi, ci mette immediatamente in comunicazione con l'altro, ci dà un brivido profondo che è la sfida del comprendere, del prendere insieme
la situazione nella quale stiamo vivendo.
Tutto è linguaggio, o meglio tutto può essere ascoltato, non con le orecchie ma con ogni parte del corpo. La vita può essere articolata in tante lingue che si intrecciano, si commentano, si correggono. Vivere il nostro rapporto con gli animali dal punto di vista dell'ascolto significa toglierci finalmente da quel centro del mondo nel quale ci siamo messi con sconcertante arroganza e collocarci alla periferia, dove si sentono suoni nuovi, rumori diversi, parole che non abbiamo mai immaginato. La vicenda narrata in questo libro ci aiuta a farlo, ci mostra che tutti sono capaci di questo gesto ma che non si tratta di un gesto facile, occorre umiltà e occorre sapersi mettere al proprio posto all'interno del cosmo.
Nella storia dell’asina di Baalam ci sono due personaggi che restano a bocca aperta; l’asina, la cui bocca è stata aperta da Dio, e l’uomo che non si aspettava che l’asina parlasse ma soprattutto che Dio parlasse attraverso di lei. Rimanere a bocca aperta davanti all’animale significa capire che quello che ci sta guardando negli occhi è un grande mistero, che non ha nulla da invidiare a quell’altro immenso enigma chiamato uomo
.
Oggi sposi.
Arrivò il 28 ottobre 2017, giorno delle nozze di Elena e Riccardo.
In piedi, di fronte al guardaroba, Elena era indecisa. Pochi capi riuscivano ancora a vestire il suo corpo, appesantito dall’età e dalla gola. Ne provò un paio.
«Forse questo, può andare. Mi chiudi la cerniera per favore?»
Riccardo era già pronto, indeciso solo sulla cravatta.
«Come sei bella!»
Elena si guardò. L’abbronzatura resisteva per dare risalto ai suoi colori e al verde degli occhi, l’abito, due toni di grigio, era sobrio ed elegante, un po’ di trucco, un po’ di tacco, bella forse era esagerato, però gradevole.
Riccardo la prese per mano e la portò vicino alla finestra, nello stesso modo in cui le aveva detto di essersi innamorato di lei. Le accarezzò i capelli, le sistemò i boccoli. Cosa avrà voluto dirle, sedici anni dopo?
Iniziò il lungo preambolo:
«Prima che tu faccia strane supposizioni, per evitare sospetti, considerate le mille domande di ieri sera per sapere dov’ero, anche se mi rovina la sorpresa, te lo dico».
La sorpresa
anticipò qualcosa di piacevole. Gli sorrise:
«Quindi dove sei andato?»
«Sono sparito per un motivo».
«Quale? Dove sei stato?»
«Ho fatto il giro dei veterinari qui intorno».
«Veterinari?»
«Sì, per guardare le loro bacheche».
«Ma, perché?»
«A Montevecchia ho trovato un cucciolo».
Elena sgranò gli occhi in un’espressione di stupore e sofferenza.
Un altro cane? Proprio quel giorno? Pianse mentre ascoltava tutte le motivazioni, sensate, condivisibili ma fastidiose, che tentavano di opporsi all’onda incontenibile del suo dolore, ancora troppo intenso. Proprio quel giorno, il compleanno di Pedro, scelto apposta perché fosse con loro anche se era morto. Riccardo parlava e lei non sentiva. Finché tra le lacrime si aprì uno spiraglio, Elena comprese che il cucciolo era il suo regalo di nozze, come Pedro appena nato era stato il suo regalo di Natale.
Un altro cane, Riccardo l’aveva ipotizzato persino quando Pedro ancora sano e forte invecchiava con loro. Parlarne le aveva sempre provocato una specie di esplosione nel cervello, non voleva sentire, non ci voleva pensare, non prima. E neanche dopo. Tra le parole, inarrestabili come il suo pianto, sentì una frase:
«Quindi, se vuoi, andiamo a vederlo e, se per qualsiasi ragione non ti va, basta dire ci penso».
Rispose annuendo.
Salirono in auto dove i peli di Pedro erano ancora sparsi ovunque, pronti ad incollarsi ai loro vestiti, resistenti come i ricordi.
Era Pasqua, sei mesi prima, erano al mare. Lo avevano portato in spiaggia, a godersi il sole, che lo ritemprava e gli piaceva tanto. Lì Pedro sembrava dimenticarsi la propria disabilità: si trascinava sul carrellino, ciondolando da una zampa all’altra, la magrezza scheletrica nascosta dal cappottino imbottito, lo sguardo attento. Seduti sugli scogli, il pianto in gola, lui in braccio, annusava l’aria, guardava il cielo, i gabbiani planare, sereno e curioso come sempre del mondo intorno.
Elena sperava in un miracolo, Riccardo era rassegnato all’inevitabile, stabilito per il giorno dopo.
Era proprio questa deliberata decisione, diventata indispensabile, a sconvolgere Elena. L’eutanasia era un atto d’amore, restituiva dignità, interrompeva le sofferenze, tutto vero, tutto giusto, ma: doveva uccidere il suo cane, e non lo sopportava.
La sera, l’ultima, lo aveva messo nella cuccia, quella rigida che lo aiutava a sostenersi, imbottita di cuscini, in cui ormai quasi spariva tanto era deperito. Avrebbe voluto dormire con lui sul divano per non interrompere il loro contatto fisico, Riccardo però aveva iniziato a protestare e, anche per non sentirlo brontolare, era andata a letto, così Pedro avrebbe pensato, forse, a una notte come tutte le altre. E lo era stata. L’aveva chiamata raspando con le zampe sui bordi della cuccia per farsi pulire e girare sull’altro fianco. Lo aveva baciato e coccolato più a lungo del solito. Si erano guardati, lui fiducioso, solo a tratti smarrito, la luce intelligente degli occhi velata dalla consapevolezza di avere bisogno di lei più di sempre, lei straziata. Doveva farlo morire e non voleva, non voleva. Pedro stava male, era vero, ma forse, come altre volte, poteva riprendersi, migliorare, anche solo un poco. Aveva resistito a tanto, da così tanto tempo, nello sforzo di stare con loro. Al mattino purtroppo la situazione era peggiorata, Pedro aveva rifiutato anche l’acqua e non era più in grado di trattenere nulla, anche l’ultima flebile speranza di un possibile rinvio era sparita. Come due automi, Riccardo che voleva interrompere la tortura per tutti il prima possibile, Elena stordita che eseguiva solo ordini, lo avevano messo in auto dentro la cuccia, al caldo sotto la sua copertina, senza cappotto e senza guinzaglio. Per lui, abituato agli spostamenti, sarà stato un segnale, o forse una conferma. Avrebbe potuto pensare di andare in riva al mare, ma la strada non era la stessa, ed era in grado di riconoscerla. Nell’unico ambulatorio veterinario della zona, avevano aspettato, nonostante l’appuntamento, un tempo infinito in mezzo ad altri in attesa di visita. Avevano accarezzato il loro Pedro senza interruzione, coprendolo con le mani per proteggerlo dalla curiosità, entrambi in ansia e infastiditi per la percezione di paura e di morte che Pedro poteva sentire negli odori degli altri. E poi, chini sul suo muso, Elena lo baciava e Riccardo gli teneva la zampa mentre lo accarezzava. Gli aveva detto stai bravo, perché aveva brontolato mentre l’ago per l’anestetico entrava a stento nelle vene. L’unico lamento da anni, da quando si era ammalato. Poi un cenno: è ora. In un soffio non c’era più. Pochi istanti ancora insieme, e glielo avevano portato via con la cuccia, tornata vuota. Risaliti in auto, si era accasciata su Riccardo urlando per il dolore insopportabile. Ma, in quel momento, all’improvviso, tra le lacrime, sano, allegro, sorridente come quando le correva incontro sollevando appena le labbra e mostrando i piccoli incisivi, Pedro era lì, era lì con lei, in braccio, l’annusava, la leccava, le saltava addosso, le diceva, sì le diceva, di non piangere, sarebbe stato con lei, con loro, per sempre. Riccardo lo sento, è qui, mi sta leccando, mi parla ancora, gli aveva detto. Lui piangeva in silenzio, devastato e incredulo.
Il breve tragitto sulle strade della provincia lecchese verso Montevecchia era quasi terminato, dopo la rotonda, due semafori. Le si spaccò ancora il cuore per il dolore atroce evocato dal ricordo mentre percorrevano il lungo viale alberato, un portico colorato in cui il sole d’autunno filtrava a lampi per riportarla alla realtà.
Provò ad ascoltare Riccardo che stava parlando:
«Sforzati di pensare che Pedro ha vissuto bene, sempre con il suo branco. Quante notti in vita sua ha dormito senza uno di noi? Quando è rimasto con tua madre, una a Levanto, l’altra a Milano. Lo abbiamo curato oltre il possibile, forse troppo. Rimpiango solo di avergli prolungato una sofferenza che potevo alleviare prima».
Elena invece era sicura di averne rispettato la volontà: rimanere con loro il più possibile, anche se non camminava più da solo, faticava pure con il carrellino, mangiava pochissimo ed era incontinente. Quando le si abbandonava sul petto, si addormentava lì, sotto le carezze, era dove voleva essere, per amore, ma era il suo desiderio. Era sicura, Pedro gliel’aveva detto, voglio stare con te.
L’argomento era stato motivo di molte discussioni, non lo voleva riprendere, non in quel momento:
«È colato il trucco?»
Lui fece cenno di no e smise di parlare.
Erano arrivati davanti all’ambulatorio e lei non sapeva decidere. Pensò all’opportunità di aiutarne un altro e dargli una vita serena, l’unica motivazione in grado di muoverla in quel frangente. Il cucciolo, Brando all’anagrafe, aveva tre mesi, arrivato da un canile tra i peggiori della Calabria si trovava in quei giorni in stallo a Merano, da un’amica della veterinaria, Martina, che lo aveva chiamato Rocket. Si poteva vedere solo in foto e la distanza metteva Elena al riparo da un coinvolgimento immediato.
A prima vista era una specie di jack russel, pelo corto e duro quindi, non setoso e morbido come quello di Pedro. Era l’ultimo di una cucciolata di nove, tutti già sistemati, compresa la mamma. Dallo schermo del telefono spuntarono delle orecchie diritte molto pronunciate, tese a parabola e occhietti vispi, intensi, che fissavano l’obiettivo. Lo osservò affidandosi all’empatia, ma non sentì nulla, finché si concentrò sugli occhi, simpatici, sull’espressione, interrogativa ma buffa.
Rispose sì, quasi sussurrandolo.
Petra, la veterinaria, telefonò subito all’amica per prendere accordi. Sarebbero passate tre settimane durante le quali era prevista la valutazione degli adottanti a casa loro da parte di un’altra volontaria, formalità.
Risalirono in auto, Riccardo contento, Elena frastornata.
«Allora, che ne dici? Ti piace il tuo regalo di nozze?»
Gli diede un bacio per ringraziarlo e commentò sorridendo:
«È bruttino, ma ha una bella espressione».
«Non è brutto! Ha solo delle orecchie spropositate. Hai visto che orecchie?»
Risero all’unisono.
Elena insistette:
«Rispetto a Pedro è bruttino, chissà come sarà una volta cresciuto».
«Non credo crescerà molto».
«Non dirlo, anche Pedro sarebbe dovuto rimanere piccolo».
«Già, lo chiamavo il somalo. Cresceva prima in altezza e poi in lunghezza, sempre magro».
«Fino a 11 chili, mai ingrassato, perfetto».
«Mi manderanno un video del cucciolo, per vederlo meglio. Come lo chiamiamo?»
«Non vorrei cambiargli il nome, come con Pedro».
«Com’era piccolo! Non riusciva neanche a salire uno scalino».
Intatto nel ricordo, arrivò il profumo di Pedro, già battezzato così: stava in una mano, appena preso in braccio, annusato e baciato vicino alle orecchie, ripiegate a busta, morbide come tutto il corpo. Profumo di latte, di un esserino indifeso, biondo, portato per le spalle, penzoloni, con un panciotto rotondo, lo sguardo che chiedeva cosa stesse capitando. Si era affidato a lei appena l’aveva guardata, leccandola per assaggiarla.
«Era bellissimo. L’ho fissato negli occhi e mi ha parlato».
Riccardo non replicò. Elena era convinta di parlare con Pedro, anche se parlava solo lei, ovvio. Il raziocinio gli diceva che era una fantasia, la romanzata interpretazione delle espressioni di Pedro, che lui stesso interpretava ad alta voce, fuori campo, ma per ridere, e deridere bonariamente cane e padrona. Gli era rimasto però il dubbio che ci fosse tra quei