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Il taccuino della vergogna
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Il taccuino della vergogna
E-book300 pagine4 ore

Il taccuino della vergogna

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Info su questo ebook

A Federico piace troppo il sesso per credere nella monogamia. Le donne sono la sua ossessione. È cinico, indolente, disincantato
e diretto. Gramuglia ci racconta la sua storia con uno stile asciutto, ironico e dannatamente vero.

“A quell’ora c’erano solo i furgoni dei netturbini che scendevano infreddoliti a scaricare la spazzatura.
Solo allora, osservandoli, capivo che non ero l’unico stronzo ad averlo preso in culo dalla vita. Ma ora tutto ciò era lontano. Avevo un lavoro
dignitoso che mi toglieva la libertà, ma mi forniva il denaro.”

Frank Gramuglia vive e lavora a Milano. Dopo la laurea in scienze
politiche, intraprende la carriera all’interno di diverse strutture ricettive.
Si è occupato inoltre della direzione di diversi alberghi sul territorio
nazionale.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mag 2019
ISBN9788834113097
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    Anteprima del libro

    Il taccuino della vergogna - Frank Gramuglia

    migliore"

    CHUN – 1 (2013)

    Bella, magra e con delle scarpe da sesso selvaggio.

    In genere mi piacevano i tacchi alti, ma queste erano da scopata allo stesso modo pur essendo degli stivaletti classici.

    Mi piaceva il suono che facevano mentre camminava.

    Chun stava lavorando al Cheers: il bar sotto casa mia; uno di quei bar sull’orlo del fallimento che poi venivano comprati dai cinesi.

    Chun era cinese. Non mi piacevano granché i cinesi, ma Chun e quelle scarpe valorizzavano la Cina, l’oriente e anche il mondo intero, se proprio vogliamo dirla tutta.

    Il bar emanava un brutto olezzo misto a sudore e bagni pubblici abbandonati. I clienti erano prevalentemente cazzoni falliti, ubriaconi e giocatori di slot machine. Uno di loro, Stefano l’imbianchino, aveva impostato la macchinetta in modo tale che giocasse da sola. Lui metteva solo i soldi.

    «Così non devi perdere tempo a schiacciare il tastino» diceva, come se avesse trovato il modo di guadagnare senza lavorare.

    Io ancora il modo non l’avevo trovato, però avevo abbastanza soldi per poter bere e guardare Chun che passava lo strofinaccio sul bancone, che si chinava per raggiungere il frigorifero in basso e sentire il suono del sesso provenire da quelle stronze di scarpe.

    Andai in bagno e mi specchiai. Non ero granché.

    Bevvi una birra, un amaro e poi un’altra birra.

    «Perché mischi?» mi chiese Chun.

    «Perché mi piace cambiare.»

    «Non dovresti cambiare, fa male. Così come non dovresti cambiare donna, Fede. Ma continui a farlo.»

    Era vero.

    L’alcol e le donne erano molto simili sotto certi aspetti. Erano innanzitutto quanto di meglio il pianeta potesse offrire e in più provavo gusto a cambiare.

    Non esisteva una bevanda alcolica definitiva, dipendeva dai momenti.

    Non esisteva una donna definitiva, dipendeva dai momenti.

    Una volta che lo avevi capito non restava altro che metterlo in pratica e assorbirsi tutte le critiche e le conseguenze che ne derivavano.

    Andai in bagno, mi specchiai. Tutto sommato non ero niente male.

    Mi sedetti ancora al bancone a guardarla e a giocare con la mia follia.

    Pensai a tutto il tempo perso per le cose inutili; lavorare, ad esempio. Tutto il tempo che avrei potuto utilizzare per chiudermi in una stanza d’albergo con Chun e buttare la chiave.

    Il mondo era triste, quindi ne bevvi altre due e tornai alla toilette. Questa volta mi vidi veramente bello. L’alcol aiutava.

    Seguitai a guardarmi allo specchio e mi baciai.

    Feci dei grossi movimenti rotondi con la lingua e mi fissai negli occhi mentre leccavo lo specchio.

    Era bello vedere il mio volto avvicinarsi e baciarmi.

    Si formò un alone di saliva. Fu un bacio splendido.

    Poi mi sciacquai la faccia.

    Ci misi un po’, o per lo meno più del tempo che una persona normale impiegherebbe per andare in bagno. Chun venne per vedere se ero ancora vivo.

    Dio, se lo ero.

    La guardai dritta negli occhi e provai ad abbracciarla.

    «Con me non attacca, Fede. Lo sai bene» disse scansandomi.

    Era molto seccata.

    Tornai al bancone e mi sedetti col telefono in mano a scrivere questo racconto.

    Probabilmente Chun pensò che stessi scrivendo a qualcuna delle mie donne.

    GLI ALBERGHI – 1 (2012)

    Attaccai il turno di pomeriggio.

    Il collega del mattino mi aveva lasciato, come al solito, un sacco di merda arretrata da sbrigare.

    Gli diedi il cambio e fu finalmente libero.

    Squillò il telefono:

    «Motel Gold, buonasera, come posso esserle utile?» dissi.

    «Buonasera, chiamo per prenotare la solita stanza e il solito trattamento per il signor Franzoni» disse la voce.

    «D’accordo, vi aspettiamo.»

    Inserii la prenotazione del signor Franzoni nel gestionale e dissi al facchino di preparare i due materassi in pila nella stanza quarantaquattro per il signor Franzoni.

    Poi arrivò la camionetta per disabili e l’autista scese dirigendosi verso il gabbiotto della reception.

    «Prenotazione Franzoni» disse.

    Intravidi il viso assente del signor Franzoni disteso sul macchinario di supporto. Era senza gambe (entrambe amputate per un’infezione), con un braccio solo e stava parlando con un uomo seduto sul sedile anteriore.

    Consegnai le chiavi della quarantaquattro all’autista e mi misi a rispondere a uno stronzo che aveva mandato una mail per chiedere quanto distava l’albergo dalla metropolitana.

    Che cazzo avevano inventato a fare internet?

    Poi il telefono squillò ancora.

    «Motel Gold, buonasera, come posso esserle utile?»

    «Sono il signor Vega. Volevo prenotare la suite Bamboo per quattro persone» disse la voce.

    «Perfetto è confermato, la aspettiamo» dissi io e presi nota.

    Una prostituta arrivò su un grosso SUV bianco e scese dall’auto. Era intorno alla trentina. Sorriso suadente, denti bianchissimi e due olive verde acceso al posto degli occhi. Aveva un corpo discreto, imperfetto, ma dopo pochi istanti mi abituai a quella forma. Me la sarei chiavata.

    «Raggiungo il signor Franzoni alla camera quarantaquattro» fece, e mi consegnò il documento.

    Il suo vero nome era Giulia Carpentieri.

    «Oh, magnifico signora Carpentieri, la stavamo aspettando» dissi.

    Aprii la sbarra e la feci passare.

    Proprio in quel momento la troupe con la camionetta dei disabili uscì dal lato dei check out. Avevano finito di montare il signor Franzoni con il supporto sul doppio materasso e sarebbero ritornati a prenderlo una volta terminata la faccenda.

    Io continuai a fare le mie cose e poi arrivò il signor Vega sulla sua grossa Mercedes.

    Al signor Vega non piaceva scendere dall’auto, per questo mandava sempre la moglie a consegnare i documenti. Adoravo quando era la donna a scendere dalla macchina e a sbrigare la parte burocratica. Dovevano essere senz’altro le puttane migliori, quelle.

    La moglie del signor Vega era una gran bella donna. Bionda e con la pelle bianco latte. Era intorno alla quarantina, ma aveva un viso ingenuo e un fisico da ragazzina. Sul sedile posteriore della grossa Mercedes sedevano due ragazzi di colore, molto grossi.

    Raccolsi i documenti e consegnai la chiave alla signora Vega che mi sorrise compiaciuta.

    Aprii i documenti e rilessi nuovamente che il signore e la signora Vega erano coniugati e residenti nella stessa via. Realizzai ancora una volta che quella era la realtà dei fatti.

    I coniugi Vega stavano entrando nella suite Bamboo con due senegalesi in età militare, mentre la signora Carpentieri veniva deflorata da un handicappato con un arto solo.

    Il resto del turno fu una cazzo di noia mortale.

    RIFLESSIONI – 1 (2017)

    Benché mi piacesse scrivere, non scrivevo quasi mai.

    Non ne avevo voglia e in più nessuno mi avrebbe pagato.

    A trent’ anni avevo capito che il tempo libero era la ricchezza più grande che uno potesse avere. Il tempo di fare il cazzo che uno vuole, per la precisione. Anche semplicemente starsene a letto tutto il giorno aveva più valore di qualsiasi altra azione, se ero io a decidere di volerlo fare.

    Per questo mi imbestialivo quando mi privavano del mio tempo libero, e gli stronzi che avevo conosciuto nel mondo cercavano di farlo sempre.

    Per prima cosa dovevo lavorare, altrimenti non avrei potuto mangiare, comprarmi i vestiti, pagarmi da bere, comprare l’erba e tutta una serie di altre attività che mi facessero sentire un individuo rispettabile.

    Non che la società pensasse sempre che chi faceva uso di erba o alcol fosse rispettabile.

    Direi più che queste sostanze servivano a me, per fare in modo di sopportare le altre persone; magari di renderle più stimolanti.

    Molto spesso bevevo, perché altrimenti la noia che la maggior parte della gente mi trasmetteva mi avrebbe assassinato. Considerato il fatto che le statistiche affermavano che la vita era soltanto una, non potevo assolutamente permetterlo.

    Il lavoro mi succhiava la maggior parte del tempo e non avevo ancora trovato il modo di togliermelo dalle palle; anzi, visto che ero un vizioso, durante gli anni ho sempre cercato di darmi da fare il più possibile. Non perché mi piacesse lavorare (mi faceva cagare), ma semplicemente perché avevo bisogno dei soldi.

    Oltre al lavoro, all’interno del mondo, c’era tutta un’altra serie di funzioni della vita che volevano a tutti i costi rubarmi il tempo.

    Dovevo, ad esempio, lavarmi e vestirmi almeno una volta al giorno, buttare l’immondizia, pulire casa, andare alla posta, al supermercato, alla riunione di condominio, rinnovare il bollo dell’auto, lavarmi i denti, rispondere ai messaggi di Tizio e alle mail di Caio e tutto un ventaglio variegato di altri sfrigolii di cazzo.

    Tutto ciò era intollerabile, ma ormai ci ero dentro fino al collo. Così come tutti quanti gli altri.

    Era un fresco pomeriggio di maggio quando mi guardai allo specchio accuratamente dopo molto tempo che non lo facevo. Osservai il mio volto riflesso. Quei trent’anni ce li avevo tutti sulla faccia, e trenta era all’incirca anche lo stesso numero di capelli che mi erano rimasti in testa.

    L’uomo stava sradicando dall’evidenza il bambino che era dentro di me, lo stava strappando dall’anima, lo prendeva a sberle e voleva calpestarlo. Dovevo impedirglielo.

    Quanto tempo era passato? Ma come era stato possibile?

    Fino a qualche anno prima l’unica preoccupazione era quella di portare a casa la sufficienza da scuola.

    I vestiti sporchi erano da mettere in una cesta nel bagno, e a distanza di qualche giorno mia madre faceva in modo che si materializzassero profumati e piegati nei cassetti.

    Beni di consumo come dentifricio, spazzolino, sapone e via dicendo non avevano alcun costo.

    Talvolta potevi trovare del cibo del tutto inaspettato quando tornavi a casa.

    Certo, non potevi invitare gli amici alle tre di notte per fare una spaghettata, ma era un’impossibilità abbastanza trascurabile rispetto al resto dei benefici.

    Adesso ero un direttore di albergo da circa due anni. Direttore di albergo.

    Percepivo una sottile ammirazione da parte di alcuni miei coetanei che erano disoccupati, che consegnavano le pizze o che erano al decimo anno di università.

    Per loro io ce l’avevo fatta.

    Nel mondo in cui la libertà finiva dove finiva il proprio denaro, avevo trovato il modo per avere un po’ di denaro a discapito della libertà.

    In ogni caso mi faceva piacere che la gente mi apprezzasse, mi purificava da quella specie di complesso di inferiorità dal quale venivo tormentato qualche anno prima. Quel senso di imbarazzo che provavo tutte le volte che incontravo qualcheduno di nuovo nel mondo, e mi veniva posta la solita domanda che chiedono le persone per farsi un’idea: «Cosa fai nella vita?».

    Tutte le volte che succedeva sentivo quel disagio misto alla voglia di scomparire.

    Almeno quando andavo all’università potevo dire di essere uno studente. Se eri uno studente avevi ancora la speranza di trovare qualcosa per essere speciale; ma nel tempo in cui provavo questa sensazione avevo già terminato gli studi.

    Facevo il portiere di notte e mi sentivo parte dell’umanità soltanto alla fine del turno, quando uscivo all’alba nella brina del mattino.

    A quell’ora c’erano solo i furgoni dei netturbini che scendevano infreddoliti a scaricare la spazzatura.

    Solo allora, osservandoli, capivo che non ero l’unico stronzo ad averlo preso in culo dalla vita.

    Ma ora tutto ciò era lontano. Avevo un lavoro dignitoso che mi toglieva la libertà, ma mi forniva il denaro.

    La terra era in mano ai ricchi, non ai liberi.

    Avevo capito che chi andava piano doveva essere sorpassato. Bisognava sempre controllare il semaforo pedonale per essere pronti a scattare davanti a tutti quando quello sulla tua strada diventava verde. Non era permesso cincischiare.

    Mi ero creato un’identità lavorativa, ma non avevo affatto risolto tutto il resto.

    L’ASOCIALE (2018)

    Nicola mi aveva detto di andarlo a trovare a capodanno.

    Aveva trovato un’offerta di lavoro in Spagna che faceva al caso mio, mi aveva chiamato e aveva detto: «Ehi Fede, perché non vieni a festeggiare con noi a Malaga? Poi l’uno mattina ti faccio parlare con Marcelo Benitez. Gli serve un direttore qui al Crystal Big Hotel, saresti perfetto. Perché non ti trasferisci?».

    Non mi trasferivo mai in altri Paesi perché ormai sapevo l’italiano.

    Non avevo voglia di imparare di nuovo tutto quanto da capo. È una rottura di cazzo quando ormai sei in grado di esprimere qualsiasi cosa nella tua lingua.

    Le cose che si potevano dire pubblicamente, però, erano ben poche. Talmente poche che spesso risultavano banalità, convenevoli, formalità, parole senza un’anima; e invece a me non piaceva sprecare nemmeno una sillaba. Ne avevo tante di cose da dire, ma nemmeno una lettera doveva essere data in pasto alla mediocrità. E invece molto spesso il mondo ti ci faceva affondare, per forza di cose, nella mediocrità.

    Per quello dissi a Nicola che non ero interessato all’offerta e poi lo ringraziai. Con frasi di circostanza. Gli chiesi anche se in famiglia andava tutto bene. Gli chiesi se il bambino cresceva.

    «Come sta Giorgino? Cresce?»

    Era evidente che crescesse. Tutti quanti crescevano in età, ma in ogni caso, frasi del genere erano comunque apprezzate da tutti. Denotavano interesse. Per me erano conversazioni sprecate, ma mi trovavo sul pianeta terra e, a volte, dovevo intrattenerle comunque.

    Quel capodanno alla fine andai a casa di Donato. Con la mia macchina. La macchina era una delle cose belle che mi era rimasta.

    C’erano una ventina di persone e la maggior parte non le conoscevo nemmeno.

    Durante il cenone alcuni parlavano di un’attrice che non avevo mai sentito. Mi chiesero se avessi visto il suo ultimo film. Io non sapevo chi fosse, ma dal nome mi sembrava fica e famosa e quindi dissi di sì. Dissi che era proprio un gran bel film.

    Poi un mingherlino in giacca e cravatta disse: «Ho saputo che Carmela alla fine ha trovato lavoro».

    «Ma dài» disse un altro biondino. «Non mi ha detto niente. E che fa?»

    «L’hanno presa al Rock Texas Burger, le danno milleduecento euro al mese.»

    «Cazzarola, buonissimo!» disse il biondino.

    Buonissimo un paio di palle, pensai io.

    Un affitto in un bilocale dignitoso costava settecentocinquanta euro al mese più spese. E non parlo di una mega villa, ma di un posto in cui avere solo il minimo indispensabile dello spazio vitale.

    Se Carmela aveva la rata della macchina, forse, le sarebbero avanzati appena duecento euro al mese per gli extra.

    Una serata delle mie costava duecento euro.

    Con lo stipendio di Carmela sarei potuto uscire di casa una sera sola. Tutto il resto del tempo lo avrei dovuto passare dentro a quelle quattro mura di qualcun altro, senza né bere né mangiare.

    Era un’assurdità, eppure lo stipendio medio dei miei coetanei in Italia era più o meno uguale a quello di Carmela.

    Non capivo se ero soltanto io che pensavo ci fosse qualcosa di anomalo in tutto ciò, o se fosse normale che uno dovesse vivere così di merda soltanto per pagarsi un posto dove stare.

    Poi, prima di mezzanotte, una ragazzina molto bellina, intorno ai vent’anni, chiamò sua madre. Mi sembrava la chiamata di cortesia prima della marachella. Sembrava alticcia e disponibile quella ragazzina, ma non aveva argomenti validi. Era troppo piccola per abbozzarci una conversazione decente. Ormai non mi sarei più accontentato soltanto dell’aspetto fisico.

    Al tavolo di capodanno tutti gli interlocutori erano privi della mia corrispondenza intellettuale; pertanto ero costretto a relazionarmi con interesse solo col vino. Il vino era sempre di piacevole compagnia.

    Donato beveva e versava da bere a tutti.

    «Sono ubriaco, Fede, si vede?» mi disse, in disparte dagli altri a un certo punto.

    «Si vede. Ma tranquillo. Ho visto versioni di te molto peggiori.»

    Poi si mise a flirtare con la ragazzina molto bellina. Riuscì anche a farsela. Ci avevo visto lungo. Vedevo sempre lungo negli occhi delle donne.

    In seguito mi venne voglia di scrivere. Il mio tempo sarebbe stato impiegato meglio, piuttosto che starsene al tavolo con quella marmaglia.

    Mi bestemmiava l’anima quando volevo creare ma ero costretto a fare altro.

    Perciò andai in bagno e scrissi un racconto.

    Parlava di un partigiano che veniva chiuso vivo in una cantina dai nazisti. I tedeschi arrivavano, lo picchiavano, lo serravano vivo nello scantinato e buttavano la chiave. In quel sotterraneo c’erano solo alcune bottiglie di liquore, e il partigiano rimaneva per dieci giorni in quel tugurio nutrendosi solo di alcolici.

    Poi arrivavano gli americani e lo liberavano. Mi piacevano i finali felici.

    Finito di scrivere il racconto fui contento di constatare che durava giusto il tempo di una cagata. Tutti i miei racconti erano stati studiati per essere letti esattamente nel tempo necessario alla defecazione di un lettore medio.

    Allo scoccare della mezzanotte tutti urlarono e fecero un gran baccano. Alcuni pubblicarono le storie su Instagram del conto alla rovescia.

    Mi pareva evidente che anche se cambiava l’anno, nei fatti, non cambiava un bel cazzo di niente.

    Eppure ognuno di loro urlava e festeggiava.

    A un certo punto si alzarono tutti e uscirono di casa per andare sulla strada a sparare i botti. Sembravano davvero entusiasti di andarsene al freddo per far saltare in aria quei fuochi d’artificio.

    Per me invece la mezzanotte fu perfetta per rimanere all’interno di quella casa e consumare le bottiglie di vino più prestigiose.

    Mi ubriacai per sfuggire alla noia di quella gente.

    L’unico con cui avrei parlato volentieri era Donato, ma era troppo impegnato a fare gli onori di casa quella sera.

    Quando raggiunsi la perfezione alcolica lanciai io un bel brindisi.

    «Viva le puttane» dissi. «Brindiamo alle puttane che fanno parte del benessere dell’uomo.»

    Mi piaceva che gli altri pensassero che fossi un inetto superficiale. Potevo crogiolare meglio nella mia profondità.

    Il brindisi si fece, e trovai diversi maschietti d’accordo con la mia affermazione sulle puttane. Mi sorrisero anche se non avevo parlato quasi con nessuno di loro quella sera.

    Poi iniziarono ad arrivare i primi messaggi d’auguri su WhatsApp. Tutti auguravano prosperità, serenità, felicità e idiozie di questo tipo.

    Quelli a cui volevo bene io erano tutti quanti in salute, perciò a loro avrei augurato soltanto soldi e tempo.

    Nient’altro. Tutto il resto te lo potevi creare, se avevi i soldi e il tempo. Era inutile augurare tutte quelle altre cazzate.

    Quando abbandonai la festa, mi ricordai del Capodanno di qualche anno prima. Vivevo ancora coi miei e tornai a casa ubriaco fradicio. Mi veniva da vomitare, ma ero certo che se avessi vomitato nel bagno mio padre mi avrebbe sentito. Aveva il sonno leggero Papà; allora decisi bene di andare ad espellere il tutto nel giardino. Poi, mentre vomitavo, vidi la luce della mia cameretta accendersi e Papà uscire sul balcone e urlarmi qualcosa.

    Quando capì che ero sbronzo disse solo che ero un coglione e tornò a letto.

    Chissà che effetto poteva fare a un padre vedere il figlio alle cinque di mattina vomitare sul suo giardino.

    Ci pensai quella notte, ma

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