Ai confini del mondo
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Ora è una donna sola, che vaga per Lisbona.
La sua vita è stata rasa al suolo da un terremoto e Laura è fuggita da Milano, dalla sua casa. Ha preso un treno qualsiasi, per una destinazione qualsiasi, un luogo dove non è mai stata e dove non conosce nessuno, con l’intenzione di scomparire dal mondo.
Ma nulla accade per caso ed è approdata proprio a Lisbona, la città che un terremoto ha raso al suolo e che dalle ceneri è riuscita a risorgere. Sarà l’incontro con la sua Storia e con un ragazzo che suona la chitarra a restituirle la sua vera identità e, in definitiva, la sua libertà.
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Ai confini del mondo - Leonilde Bartarelli
Leonilde Bartarelli
Ai confini del mondo
Edizioni Il Vento Antico
Serie
La vie en rose
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About this book
Quando era approdata sull’Isola d’Elba, insegnante di ginnastica al suo primo incarico, Laura era una ragazza piena di vita e di entusiasmo.
Ora è una donna sola, che vaga per Lisbona.
La sua vita è stata rasa al suolo da un terremoto e Laura è fuggita da Milano, dalla sua casa. Ha preso un treno qualsiasi, per una destinazione qualsiasi, un luogo dove non è mai stata e dove non conosce nessuno, con l’intenzione di scomparire dal mondo.
Ma nulla accade per caso ed è approdata proprio a Lisbona, la città che un terremoto ha raso al suolo e che dalle ceneri è riuscita a risorgere. Sarà l’incontro con la sua Storia e con un ragazzo che suona la chitarra a restituirle la sua vera identità e, in definitiva, la sua libertà.
I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica dell’autore. Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.
Noite negra, negra noite!
Ai dos que vao pelo mar!
Menina dos olhos tristes.
Acenda as velas no altar:
Que deus vele pelas velas
Que andam perdidas no mar.
Menina dos olhos tristes.
A quem o noivo deixou,
Reze por ele... (quem sabe
Se nas ondas naufraou?!)
Anrique Paço d’Arcos.
(poesia incisa sul marmo di una panchina davanti alla Torre di Belem, Lisbona, Portogallo)
Notte nera, nera notte!
Poveri quelli che se ne vanno per mare!
Ragazza dagli occhi tristi.
Accendi le candele sull'altare:
Che Dio vegli sulle vele
che vagano perse nel mare.
Ragazza dagli occhi tristi
che il fidanzato ha lasciato,
Preghi per lui... (chi sa
se nelle onde è naufragato?)
Anrique Paço d’Arcos
1.
Lisbona, oggi
Sono seduta qui, animale ferito e senza casa.
Ferma al limite dell'Occidente, nel punto più lontano che la paura di volare mi ha concesso, da dove non posso più muovere passi: non c'è più terra, strada, sentiero.
Lisbona. Città sconosciuta, del tutto ignota, che non può, che non deve, parlarmi di te.
Lisbona con te non c’entra nulla, è un altro mondo, una dimensione estranea.
Non so niente del Portogallo: è solo un nome su una cartina, il nome più lontano che potessi raggiungere.
Ai confini del mondo.
Che ci faccio qui, davanti a questa torre strana, tutta merletti e trine bianche, marmo intarsiato proteso in mezzo all’acqua?
Ma è l’oceano questo, oppure un fiume, un golfo? Vedo terra al di là. Ma dove sono, cos’è tutto questo?
Forse c’è speranza per me se ho ancora voglia di sapere dove sono, dove vado. Un barlume di curiosità che mi fa capire di essere ancora viva, ancora umana.
A un tassista, appena arrivata alla stazione, ho chiesto del mare. Del mar. Non parlo portoghese, non parlo inglese, so poco di tutto, io, sono una nullità. Ho cercato la parola nel dizionario tascabile comprato per caso.
– Portami al mar – ho detto.
Lui scuoteva la testa. – No mar – ripeteva. – Rio, rio Tejo.
Ho detto: – Vai, vai. Dovunque vuoi, dovunque vai.
Deve avermi letto nel cuore, nel viso, non so dove. È partito. Ha capito. Ha interpretato.
Ha letto nelle lacrime il desiderio di fuga, di lontananza e mi ha portato qui.
– Dove siamo? – ho chiesto scendendo.
– Belem. – ha detto. E un nome: Vasco de Gama. Poi di nuovo: – No mar, rio Tejo.
Tejo. Non si chiama Tago il fiume portoghese? Sarà allora il Tago, questa immobile distesa sonnacchiosa. Mare o fiume, tutto è confuso. E di tutto mi importa poco.
La torre è protesa in mezzo all’acqua, e pare una nave che sta per salpare. Nave di pietra che mai se ne andrà, sognerà in eterno le tempeste e le bonacce, il verde del mare profondo e il canto del vento.
Ancorata alla terraferma, parte della terraferma.
Così mi sento io: una nave di pietra, sorella tua, Torre Bianca.
È mezzogiorno. Una tiepida giornata di marzo ventosa. Il cielo pare un dipinto, uno di quegli affreschi che Rodolfo mi spiegava nei musei, raccontando storie di pittori del passato con sufficiente superiorità. E io lo seguivo grata, timorosa, colpevole della mia ignoranza.
Ma stavolta non ci sono putti affacciati fra le nuvole che galoppano veloci, solo gabbiani lontani.
Il vento mi avvolge, infilandosi dentro il cappotto e gonfiandolo come un ombrellone dimenticato sulla spiaggia.
I turisti corrono, gridano, si chiamano, si fotografano. Un gruppo urla consigli ad amici rimasti indietro; arriva l’eco di parole conosciute. Visi di bimbi ridenti. Via, via! Non voglio vedere i vostri occhi!
Ho trovato in mezzo ai sentieri e ai prati del giardino questa panchina illuminata da un raggio di sole ballerino. Fredda pietra che porta incisi i versi di una poesia.
Noite negra, negra noite!
Ai dos que vao pelo mar!
Menina dos olhos tristes.
Acenda as velas no altar:
Que deus vele pelas velas
Que andam perdidas no mar.
Menina dos olhos tristes.
A quem o noivo deixou,
Reze por ele... (quem sabe
Se nas ondas naufraou?!)
Non capisco le parole, non mi importa: è suono, dolcezza. Avvolge e invita a pensare.
No, no! Non voglio pensare, voglio restare qui a fissare la Torre senza dolore, nel vento e nel sole.
Una ragazzina passa correndo, rincorsa da un grido di richiamo.
Anche io correvo sempre tanto tempo fa.
2.
Lodi 1992
Laura correva.
Sempre di corsa, sempre in movimento, argento vivo di venti anni. Le lunghe gambe ereditate dal nonno granatiere, il corpo scattante e snodato parevano un palpitare perenne di mare. All’opposto, appena si fermava, ecco che appariva goffa e impacciata, con quelle gambe e quelle braccia troppo lunghe, il tronco troppo corto, l’altezza spropositata che tendeva a nascondere ingobbendosi.
In una casa di sette persone, un bagno da conquistare e un treno da prendere, doveva correre o non avrebbe combinato nulla.
I Cerami abitavano da sempre nel centro di Lodi, in un vecchio palazzo del '600, in un appartamento ricavato nell'antica ala della servitù. Cesare Cerami, suo padre, lì era nato e lì voleva morire. Con cocciutaggine non aveva mai dato retta a chi gli consigliava di trasferirsi in un posto più comodo, senza infiltrazioni lungo le pareti o infissi che chiudevano male. Era stato il portinaio del palazzo, finché videocitofoni e tecnologia non lo avevano sostituito e si sentiva un tutt'uno con le pietre e i mattoni dei muri.
Laura invece voleva cambiare, andare, correre, vivere. Fuggire di là, fuggire da quella casa, angosciante già nella disposizione delle stanze: una sequenza di porte lungo un corridoio che nella fantasia associava a celle monacali.
Dribblò un fratello insonnolito e scarmigliato e si tuffò nell'ultima camera, quella che divideva con le sorelle, urlando al mondo che il bagno era libero.
Si infilò al volo la gonna, girandosela in vita; afferrò il maglione dalla sedia, lo indossò all’altezza della camera dei fratelli; volò dentro il cappotto appeso alla rastrelliera davanti a quella dei genitori; superò la sala; sbucò in cucina, l’ultima stanza, fusa al corridoio e ingresso della casa.
Come ogni mattina acchiappò al volo la tazza di latte poggiata sul bordo del bancone dove mangiavano tutti insieme alla sera, la bevve nel tempo che impiegava ad arrivare alla fine del tavolo, la abbandonò.
Uno sguardo fuori dalla finestra che dava sulla via: ecco la Cinquecento bianca di Toni.
Un bacio a sua madre