Un medico: La storia del dottore che ha curato il paziente 1
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Ancora non può immaginare che, neanche un mese più tardi, si troverà a dover curare Mattia, un giovane uomo di Codogno, il primo paziente italiano conosciuto. È con la sua malattia che il Covid-19, rimasto fino a quel momento un’idea spaventosa, diventa una realtà presente e terribile. Con il suo ricovero ha ufficialmente inizio, in Europa, la più grande emergenza sanitaria degli ultimi cento anni, ha inizio un’odissea che riguarderà prima il nostro paese, poi tutto il continente, infine il mondo intero.
Bruno e i suoi colleghi dovranno affrontare un virus sconosciuto e tremendo, di cui nessuno sa nulla e che li farà sentire “come medici dell’800” che devono costruirsi le conoscenze sul campo.
Scritto con Fabio Vitale, tra i principali volti di Sky TG24, Un medico racconta i primi mesi della lotta contro il Covid-19 nel cuore della regione italiana più colpita, la Lombardia, che suo malgrado si è improvvisamente e drammaticamente ritrovata a essere “il centro del mondo”.
Una testimonianza diretta e indimenticabile che si legge come un romanzo, la storia che ricostruisce quei giorni terribili in cui però non si è persa la speranza.
Un libro che ribadisce come di fronte alle avversità o alle grandi calamità sia necessario riscoprire il coraggio che è in noi e ciò che veramente è importante, un libro che ci ricorda quello per cui vale la pena di battersi e lottare.
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Anteprima del libro
Un medico - Raffaele Bruno
Matilde
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L’INIZIO
Si è fatto tardi stasera, ma mi sento in pace con la coscienza. Come se avessi espiato qualche colpa. Sono stanco, esausto. Il lavoro oggi non c’entra. C’entra una promessa che ho fatto a me stesso: in palestra due volte alla settimana, niente alibi. E senza la mia Inter in tv, non poteva certo essere una Napoli-Lazio di Coppa Italia a fornirmi una scusa, a impedirmi di tornare a casa distrutto dopo appena un’ora tra bike e tapis roulant. Va bene, confesso: non faccio un’ora piena di allenamento; in quei sessanta minuti ci sono pure la doccia e il ritorno a casa. La prossima sudata sarà fra tre giorni. Tre giorni! L’appuntamento mi sembra così lontano che già mi sento rinfrancato. Si sono fatte quasi le undici. Ho il tempo di prendere il tablet, controllare la posta e abbandonarmi finalmente al sonno. Mi siedo sul divano e do un’occhiata a un paio di siti d’informazione; in ognuno, a fondo pagina, trovo gli aggiornamenti sull’evoluzione di alcuni casi di cittadini cinesi positivi a un nuovo coronavirus. Sono giorni che, più o meno distrattamente, al lavoro o a casa, penso a quello che sta succedendo. Mi incuriosisce sempre quando la scienza si trova di fronte a qualcosa di nuovo, di inedito. Allora scrivo ai miei colleghi Piero Marone e Alba Muzzi, del CIO, il Comitato infezioni ospedaliere:
Carissimi,
alla luce della nuova infezione da coronavirus, vi chiedo se sia il caso di fare una riunione per fare il punto della situazione in attesa di disposizioni ministeriali e/o regionali. Vi allego il report dell’ecdc.* Rimango in attesa dei vostri commenti/decisioni.
Cordiali saluti, Raffaele
È il 21 gennaio 2020.
* * *
Tutto ha inizio al mercato del pesce di Huanan, a Wuhan, in Cina. A gennaio, in pochi giorni si registrano i primi casi di contagi. E poi le vittime. Si scopre un nuovo tipo di coronavirus, avrà il nome di Sars-CoV-2.
Il 23 l’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità, decide di non dichiarare un’emergenza di salute pubblica internazionale spiegando che è troppo presto per farlo. I morti in Cina sono già diciassette. Più avanti si scoprirà che i primi casi in Europa risalgono già al 24 gennaio. Nel frattempo la città di Wuhan viene isolata. Sei giorni più tardi l’OMS dichiara che il coronavirus è un’emergenza sanitaria internazionale. Tuttavia nessuna restrizione viene indicata sui viaggi. Il 30 gennaio arriva la notizia dei primi due casi accertati anche in Italia: si tratta di due turisti cinesi che sono stati ricoverati in isolamento all’ospedale Spallanzani di Roma. L’Italia, annuncia il premier Giuseppe Conte, ha deciso di chiudere il traffico aereo da e per la Cina. Il governo decreta lo stato d’emergenza per il rischio sanitario.
* * *
Il coronavirus. È probabile che si sia presentato a me ben prima che ne leggessi, nero su bianco, in qualche manuale dei primi anni di università; credo fossi al terzo anno e che stessi preparando l’esame di microbiologia. Ma a farci incontrare sarà stato un raffreddore. Già, perché i coronavirus fanno parte delle nostre vite e il più delle volte le impensieriscono con qualche starnuto e linea di febbre. I coronavirus sono virus RNA a filamento positivo e, visti al microscopio elettronico, hanno un aspetto appunto simile a una corona. Sono stati identificati a metà degli anni Sessanta e sono noti per infettare l’uomo e alcuni animali. Il tratto respiratorio e quello gastrointestinale sono i loro territori di conquista.
Ho sempre provato a capire sin da ragazzo come organismi tanto piccoli da poter essere intercettati solo attraverso una lente in laboratorio potessero condizionare così profondamente la vita degli esseri umani. Forse è stata questa domanda a guidarmi in un lungo viaggio verso nord. Partito da Cosenza e dopo gli anni romani a Tor Vergata, ritrovai a Pavia le dimensioni di una città piccola ma con la vivacità del grande polo universitario.
Chi vuole fare il medico solitamente immagina di fare il chirurgo. E all’inizio anch’io mi lasciai sedurre dall’immagine eroica del camice bianco che salva vite dopo ore interminabili in sala operatoria. Poi, tra medicina e chirurgia scelsi la prima: è un territorio d’indagine in continua evoluzione. Mi laureai nel 1991, l’epoca della lotta senza quartiere all’HIV e all’epatite C. Forse per quello mi ritrovai sul sentiero delle malattie infettive. Visto che si tratta spesso di patologie che colpiscono un gran numero di pazienti, mi feci conquistare anche dall’idea che il mio lavoro potesse aiutare il prossimo, i più deboli e gli emarginati: sono le classi meno agiate la prima linea del fronte.
Fui sbattuto in trincea negli anni della guerra all’HIV. All’inizio combattemmo senza armi contro quel virus. Un tempo in cui ogni infettivologo ebbe come missione la cura di quei malati. Si trattò di pazienti per lo più giovani, molti erano schiavi dell’eroina, tanti morirono di AIDS. Il 1996 fu l’anno della svolta, delle prime terapie efficaci, della luce in fondo al tunnel. Ma di tunnel ce ne furono molti altri. Notammo che HIV ed epatite C condividevano le stesse vie di trasmissione, e in molti casi i tossicodipendenti contraevano sia l’HIV sia il virus dell’epatite C. Assistemmo a un fatto nuovo che ci sorprese: la prima causa di morte non era più l’AIDS ma la cirrosi.
Gli ultimi vent’anni vissuti da medico in corsia e da professore in aula mi hanno portato qui, in questo ufficio, quello di direttore del reparto di Malattie infettive del policlinico San Matteo di Pavia.
* Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. ( N.d.A .)
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PANDEMIE, I PRECEDENTI
Bisogna indagare il passato per capire il presente. La storia è stata caratterizzata da decine di epidemie e pandemie. Le malattie infettive da sempre hanno condizionato la storia dell’uomo, specialmente da quando ha iniziato a vivere in comunità. Altri aspetti da considerare sono la crescita demografica, che in alcune parti del mondo è stata esponenziale, e la facilità di spostamento da un continente a un altro.
L’influenza Spagnola
Nell’ultimo secolo, per esempio, la tristemente famosa influenza Spagnola del 1918 contagiò mezzo miliardo di persone, uccidendone almeno cinquanta milioni. La grande influenza o, appunto, Spagnola fu così ribattezzata non perché esplose in Spagna, ma perché la prima a parlarne fu la stampa iberica. I giornali degli altri stati erano sottoposti alla censura di guerra, negarono che ci fosse in corso una pandemia sostenendo che il problema fosse confinato solamente alla Spagna.
Per questo nell’opinione pubblica di tutto il mondo si diffuse l’errata convinzione che l’influenza, che cominciava a provocare tante morti, provenisse da là.
La Spagnola ebbe un impatto incredibile sull’aspettativa di vita che, nel primo anno della pandemia, fu ridotta di dodici anni. La maggior parte delle epidemie influenzali uccide quasi esclusivamente pazienti anziani o pluripatologici; al contrario, la pandemia del 1918 uccise per lo più giovani adulti precedentemente sani.
Un evento che i non addetti ai lavori pensavano non potesse più verificarsi. E invece ecco che la storia si ripete. Virus o batteri già presenti tra noi, che colpiscono gli animali, in circostanze particolari compiono un salto di specie – uno spillover in gergo tecnico – che consente loro di infettare gli esseri umani. Il libro Spillover di David Quammen aveva in qualche modo previsto quello che è accaduto nel 2020.
La peste di Giustiniano
La pandemia prese il nome da Giustiniano I, l’imperatore che si trovò a regnare sull’impero bizantino quando questo fu travolto dalla peste, nel VI secolo, e più precisamente tra il 541 e il 542.
La peste nera
Durante il XIV secolo l’Asia fu epicentro della peste nera che poi, nel 1346, raggiunse l’Europa provocando verosimilmente quasi venti milioni di vittime. La peste nera e quella di Giustiniano furono provocate da un batterio