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Contagiarsi!: Scritti di Lucrezio, Boccaccio, Defoe, Manzoni, Zola, Boito, London
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Contagiarsi!: Scritti di Lucrezio, Boccaccio, Defoe, Manzoni, Zola, Boito, London
E-book165 pagine2 ore

Contagiarsi!: Scritti di Lucrezio, Boccaccio, Defoe, Manzoni, Zola, Boito, London

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Info su questo ebook

A partire dall’antichità l’uomo ha periodicamente documentato il dilagare di epidemie e pandemie, raccontando al tempo stesso una delle sue paure più recondite: il contagio. Eppure quest’ultimo ha assunto configurazioni e significati differenti in base al contesto storico-sociale e alle scoperte medico-scientifiche dell’epoca.
Basti pensare alle credenze del mondo antico sull’origine soprannaturale delle epidemie, che spesso si riteneva fossero provocate da offese commesse dagli uomini contro le divinità. La dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sullo stato di pandemia da COVID-19 dell’11 marzo 2020 ha attivato effetti collettivi ancestrali, che la letteratura mostra in modo assai chiaro. Infatti le malattie infettive e il timore dell’essere contagiati non solo hanno sempre occupato un ruolo preminente a livello narrativo, ma rappresentano altresì forme archetipiche dalle molteplici sfumature.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2022
ISBN9788849140033
Contagiarsi!: Scritti di Lucrezio, Boccaccio, Defoe, Manzoni, Zola, Boito, London
Autore

Giovanni Boccaccio

Giovanni Boccaccio (1313-1375) was born and raised in Florence, Italy where he initially studied business and canon law. During his career, he met many aristocrats and scholars who would later influence his literary works. Some of his earliest texts include La caccia di Diana, Il Filostrato and Teseida. Boccaccio was a compelling writer whose prose was influenced by his background and involvement with Renaissance Humanism. Active during the late Middle Ages, he is best known for writing The Decameron and On Famous Women.

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    Contagiarsi! - Giovanni Boccaccio

    A partire dall’antichità l’uomo ha periodicamente documentato il dilagare di epidemie e pandemie, raccontando al tempo stesso una delle sue paure più recondite: il contagio. Eppure quest’ultimo ha assunto configurazioni e significati differenti in base al contesto storico-sociale e alle scoperte medico-scientifiche dell’epoca. Basti pensare alle credenze del mondo antico sull’origine soprannaturale delle epidemie, che spesso si riteneva fossero provocate da offese commesse dagli uomini contro le divinità. La dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sullo stato di pandemia da COVID-19 dell’11 marzo 2020 ha attivato effetti collettivi ancestrali, che la letteratura mostra in modo assai chiaro. Infatti le malattie infettive e il timore dell’essere contagiati non solo hanno sempre occupato un ruolo preminente a livello narrativo, ma rappresentano altresì forme archetipiche dalle molteplici sfumature.

    Valentina Conti è dottore di ricerca in Narratologia e assegnista nell’Università di Modena e Reggio Emilia. È autrice di Per una narratologia interculturale. I confini millenari tra Occidente e Estremo Oriente (2020) e con Stefano Calabrese Che cos’è una fanfiction (2019) e Neuronarrazioni (2020).

    Salmagundi / Voce del verbo

    collana diretta da Stefano Calabrese

    nella stessa serie

    Intossicarsi! Contributi su cocaina, hashish e altre droghe

    Copyright © 2021, Biblioteca Clueb

    ISBN 978-88-491-4003-3

    Biblioteca Clueb

    via Marsala, 31 – 40126 Bologna

    info@bibliotecaclueb.it – www.bibliotecaclueb.it

    Scritti di Lucrezio, Boccaccio, Defoe, Manzoni, Zola, Boito, London

    Contagiarsi!

    a cura di

    Valentina Conti

    Biblioteca-CLUEB_logoSN8_CMYK.png

    Introduzione

    Valentina Conti

    1. Lo stato di pandemia

    Good afternoon.

    In the past two weeks, the number of cases of COVID-19 outside China has increased 13-fold, and the number of affected countries has tripled.

    There are now more than 118,000 cases in 114 countries, and 4,291 people have lost their lives.

    Thousands more are fighting for their lives in hospitals.

    In the days and weeks ahead, we expect to see the number of cases, the number of deaths, and the number of affected countries climb even higher.

    WHO has been assessing this outbreak around the clock and we are deeply concerned both by the alarming levels of spread and severity, and by the alarming levels of inaction.

    We have therefore made the assessment that COVID-19 can be characterized as a pandemic.

    Pandemic⁠is not a word to use lightly or carelessly. It is a word that, if misused, can cause unreasonable fear, or unjustified acceptance that the fight is over, leading to unnecessary suffering and death.

    Describing the situation as a pandemic does not change WHO’s assessment of the threat posed by this virus. It doesn’t change what WHO is doing, and it doesn’t change what countries should do.

    We have never before seen a pandemic sparked by a coronavirus. This is the first pandemic caused by a coronavirus.

    And we have never before seen a pandemic that can be controlled, at the same time (Ghebreyesus, 2020).

    Tutto ha inizio da qui. È l’11 marzo 2020, durante la conferenza stampa sulla malattia da COVID-19 (dove CO sta per corona, VI per virus, D per disease, cioè malattia, e 19 indica l’anno in cui si è manifestata quest’ultima), il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, dichiara lo stato di pandemia; una parola – e tutte le implicazioni ad essa correlate – che ha sconvolto le nostre coscienze provocando un trauma psicologico e sociale a livello globale ancora da superare. A questo punto sorge spontanea una domanda: quali sono i presupposti affinché si possa parlare di pandemia? Nel 2010 l’OMS risponde individuando specificamente tre condizioni:

    (i) la comparsa di un nuovo agente patogeno;

    (ii) la capacità del suddetto agente di colpire la maggior parte degli uomini sprovvisti di immunità;

    (iii) la possibilità di tale agente di diffondersi rapidamente a livello globale (World Health Organization, 2010).⁠

    In altri termini, se per epidemia (dal greco epidemìa, ossia che riguarda il popolo, da epi, sopra + dèmos, popolo) si intende una malattia o condizioni patologiche contagiose che colpiscono quasi simultaneamente una collettività di individui con un’epidemiologia nello spazio e nel tempo abbastanza rapida, con il termine pandemia (sec. XIX; dal greco pandēmía, tutto il popolo, da pân, tutto + démos, popolo) ci si riferisce invece a epidemie di grande estensione, tale da coinvolgere diverse regioni e Stati (Battaglia, 2019, 187, 464). Epidemie e pandemie sono dunque manifestazioni collettive di una determinata malattia, ma affinché si sviluppino è necessario che la contagiosità tra gli individui interessati sia abbastanza elevata. Di conseguenza, sebbene esistano una molteplicità di patologie che colpiscono vaste aree geografiche o a livello mondiale (come accade in Occidente nel caso dei disturbi cardiocircolatori, delle malattie cronico-degenerative o dei tumori) non sono da considerarsi pandemiche se non è presente la componente contagiosa (Gulisano, 2020).

    A ben vedere, la storia dell’umanità è sempre stata minacciata ciclicamente da stragi dovute a malattie infettive contagiose che, a volte, ne hanno addirittura cambiato gli assetti politici e socioculturali. Ricordiamone alcune. Basti pensare alle terribili pestilenze note sin dall’antichità causate dal batterio Yersinia pestis (che normalmente ha come ospite le pulci parassite dei roditori, ratti, alcune specie di scoiattoli ecc.), che nel 1347 portò alla terrificante peste nera europea (uccise circa un terzo delle persone che abitavano il continente, anche se i numeri sono assai incerti), fino alla peste del XVII, o alle ondate di tifo, colera, vaiolo, sifilide, tubercolosi, all’AIDS, alle epidemie influenzali, solo per citarne alcune (McNeill, 1981, 3-15; Gulisano, 2020; Scott, Duncan, 2001; Spinney, 2018).

    Sappiamo, ad esempio, che alcune malattie erano già presenti in Egitto almeno tremila anni fa, grazie al ritrovamento di mummie con uova di schistosoma nei reni o il volto segnato dalle cicatrici del vaiolo che, nel Cinquecento, dopo l’arrivo degli spagnoli nel Nuovo Mondo, decimò la popolazione di Hispaniola (1518), quella messicana (1520) e quella peruviana, queste ultime fortemente colpite anche dal morbillo. Lo si sa, l’incontro tra esploratori e colonizzatori europei e le popolazioni indigene ebbe risultati deleteri per i popoli invasi, come nel caso dei Guanches delle isole Canarie, che furono completamente sterminati da un’epidemia nel XVI secolo, o della popolazione nativa delle isole Hawaii, che più di un terzo morì di morbillo, pertosse e influenza fra il 1848 e il 1849 (Grima, 2017, 45-55).

    Diverse epidemie sono state determinate anche dal tifo (causato dal batterio Salmonella typhi, trasmesso mediante cibo e acqua contaminati) segnalato già durante il Medioevo in Medio Oriente da coloro che prendevano parte alle crociate, per poi dare avvio a numerose ondate in Europa, a partire dal 1489 in Spagna, nel corso dei combattimenti fra spagnoli e musulmani a Granada, sino a giungere a quelle durante le due guerre mondiali, che provocarono la morte di moltissimi soldati e reclusi dei campi di concentramento (Gulisano, 2020). Anche il colera ebbe degli effetti catastrofici, in particolare nell’Ottocento, nel Novecento e tutt’ora: si tratta sempre di una malattia batterica acuta (dovuta a un agente infettivo chiamato vibrione o Vibrio cholerae), che colpisce l’apparato intestinale e viene trasmesso attraverso l’ingestione di cibo o di acqua contaminati direttamente o indirettamente da persone infette (Grima, 2018, 51-133). Una malattia considerata come un vero incubo dal popolo italiano, a causa delle numerose pandemie che hanno investito il Paese; una delle peggiori è stata senza ombra di dubbio quella che sconvolse la città di Napoli nel 1884 (in soli due mesi provocò la morte di più di 7.000 persone), una tragedia puntualmente documentata da Axel Munthe (un medico che in quel periodo si contraddistinse per la sua eroica opera di assistenza) in Letters from a Mourning City (1885), contenente le corrispondenze che egli inviò al giornale svedese «Stockholms Dagblad» (Soscia, 2014, 9-20).

    Attualmente, è più che mai diffuso il Mycobacterium tuberculosis (chiamato comunemente bacillo di Koch, dal nome del medico tedesco che lo scoprì), batterio responsabile della tubercolosi (detta anche tisi, deperimento, scrofola, mal sottile, morbo di Pott, piaga o peste bianca), che non solo travolse in particolare l’Europa e il nord America nell’Ottocento – guadagnandosi l’appellativo di grande peste bianca – ma che ancora oggi provoca nel mondo tre milioni di morti ogni anno (Grima, 2019, 19 ss.; Tognotti, 2012, 99-139).

    Inoltre, non mancano nella storia le epidemie delle cosiddette STD (Sexually Transmitted Desease), le malattie trasmissibili per via sessuale. La sifilide (anche nota come mal francese, mal napoletano, lue o morbo gallico), causata dal batterio Treponema pallidum, ha letteralmente terrorizzato il mondo a partire dalla fine del XVI secolo, per via della sua rapidissima diffusione (Grima, 2016, 37-58; Quétel, 1993, 17-37; Tognotti, 2006, 55 ss.). Per quanto non sia ancora stata eradicata, il primato della sifilide tra le malattie veneree è venuto meno con la scoperta dell’AIDS avvenuta tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del XX secolo. Battezzata da alcuni come la peste del 2000, l’Acquired Immune Deficiency Syndrome (Sindrome da Immunodeficienza Acquisita) è causata da un retrovirus, l’HIV, che colpisce il sistema immunitario rendendolo sempre più debole. Secondo il rapporto dell’UNAIDS del 2020, le statistiche globali dell’HIV mostrano che nel 2019:

    38 milioni di persone nel mondo convivevano con l’HIV.

    1,7 milioni di persone sono state infettate dall’HIV.

    690.000 persone sono morte per malattie legate all’AIDS.

    75,7 milioni di persone sono state infettate dall’HIV dall’inizio dell’epidemia (ossia a partire dagli anni Ottanta).

    Dall’inizio dell’epidemia, 32,7 milioni di persone sono morte per malattie legate all’AIDS (Unaids, 2020).

    Da non dimenticare sono altresì le pandemie causate da virus influenzali. Una premessa: a differenza di altri virus (vaiolo, morbillo, varicella ecc.), quelli influenzali (nello specifico solo gli influenzavirus A) sono caratterizzati da un’elevata mutagenicità, pertanto vengono classificati con due lettere che identificano le altrettante glicoproteine che coprono la superficie del virus, ossia H (hemagglutinin, emoagglutinina) e N (neuraminidase, neuraminidasi). Attualmente sono noti diciotto differenti tipi di emoagglutinina (da H1 a H18) e undici diversi tipi di neuroaminidasi (da N1 a N11) (Kosik, Yewdell, 2019, 346).

    Dovuta a un ceppo particolarmente violento e letale, la cosiddetta influenza spagnola (virus H1N1) conta due ondate che hanno causato una vera e propria ecatombe mondiale: dopo una prima considerata innocua tra la primavera e l’estate 1918, si sono susseguite la seconda in autunno e la terza nell’inverno 1918-1919, durante le quali viene raggiunto il picco della sua aggressività, ma continuano a segnalarsi focolai isolati anche nel corso del 1920. Per quanto ancora oggi esistano molte incertezze, si stima indicativamente che il numero di persone contagiate si aggiri intorno ai cinquecento milioni, mentre quello delle vittime è stimato tra i cinquanta e i cento milioni, vale a dire tra il 2,5% e il 5% della popolazione mondiale (Chiaberge, 2016; Spinney, 2018).

    Nel XX secolo si sono susseguite altre importanti pandemie influenzali: nel 1957-1958 scoppia l’asiatica, innescata da un nuovo ceppo di virus dell’influenza A, l’H2N2, che uccide circa 1,1 milioni di persone in tutto il mondo (Viboud et al., 2016, 738-745). Solo undici anni più tardi, inizia l’ondata pandemica dell’influenza di Hong Kong, causata dal virus H3N2 insorto nel sud-est asiatico nel 1968, a causa della quale, secondo i dati dei Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti, il numero mondiale di morti si aggira intorno a un milione (Centers for Disease Control and Prevention, 2019).

    Causata da una variazione del ceppo dello stesso virus dell’influenza spagnola, nel 2009-2010 dilaga la pandemia dell’influenza suina, poi denominata A(H1N1)pdm09. Nello specifico, parallelamente al percorso compiuto nella specie umana, è sopravvissuto anche nei suini, aggiungendosi ai virus aviari nel determinare i rari casi di trasmissione non diffusiva di virus influenzali animali all’uomo, ma – attenzione bene – a generare il virus pandemico del 2009 è stata un’ulteriore variazione che ha permesso la trasmissione da uomo a uomo. Si stima che siano state infettate dai 700 milioni ai 1,4 miliardi di persone, un numero molto maggiore in termini assoluti rispetto all’influenza spagnola, tuttavia il tasso di mortalità è di gran lunga inferiore, all’incirca tra lo 0,01% e lo 0,08% (Dawood et al., 2012, 687-695).

    Tra il 2002 e il 2004 si è propagato il coronavirus della SARS (acronimo di Severe Acute Respiratory Syndrome, Sindrome Respiratoria Acuta Grave), per un totale di 8.096 casi di contagio e 774 morti distribuiti in 29 Paesi, cui è seguita la MERS (Middle East Respiratory Syndrome, Sindrome Respiratoria Mediorientale) del 2012, una patologia causata dal coronavirus MERS-CoV, rispetto alla quale fino al 2019 sono stati confermati 2.494 casi di infezione e 858 decessi da 27 Paesi (Peeri et al., 2020, 717-726; Wu, McGoogan, 2020, 1239-1242).

    Senz’altro un fenomeno singolare, ma al tempo stesso emblematico in termini di contagio metonimico, concerne l’attribuzione del nome nel caso di nuova epidemia. In Pale Rider: The Spanish Flu of 1918 and How it Changed the World (2017), Laura Spinney nota sagacemente come spesso il nome comune non scientifico attribuito alle pandemie abbia poco a che vedere con aspetti peculiari del virus in questione, riferendosi invece a luoghi, persone e/o animali erroneamente etichettati come l’inizio e, di conseguenza, la causa della diffusione. Qualche esempio. L’influenza spagnola è il caso più eclatante: il virus H1N1 non ha avuto origine in Spagna, ma quest’ultimo è stato il primo Paese a segnalare l’epidemia, motivo per cui molti Paesi europei iniziarono a parlare di influenza spagnola (diversamente, gli spagnoli la chiamavano influenza francese, perché pensavano fosse partita dalla Francia). Non solo, seguendo lo

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