Dare Corpo: Idee scorrette per una buona educazione
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Anteprima del libro
Dare Corpo - Ornella Martini
Ornella Martini
Dare corpo
DARE CORPO
Idee scorrette per una buona educazione
Ornella Martini
Collana Studio Digitale
a cura di
Roberto Maragliano e Silvano Tagliagambe
ISBN 9788893371131
copyright © 2016 Antonio Tombolini Editore
digital rights reserved
Via Villa Costantina, 61,
60025 Loreto Ancona
Italy
email: info@antoniotombolini.com
www.antoniotombolini.com
Immagine di copertina a cura di Marta D’Asaro
disegni originali di Mauro Panella
ISBN: 9788893371131
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
La dedica l’hai scritta?
Aperture simultanee
PARTE PRIMA
Capitolo primo
Alla ricerca del padre perduto
Genitori in difficoltà
Il padre che non c’è
Prove di padre
Capitolo secondo
I conti delle donne con la madre
La ricerca dell’assoluto
Il figlio maschio italiano
Capitolo terzo
Ritratto del bambino da piccolo
Che fine ha fatto Gian Burrasca?
Il bambino Re
PARTE SECONDA
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Conclusioni attive
Bibliografia
Postfazione
Nota aggiuntiva
Ma lei non voleva che James crescesse. E neppure Cam. Quei due avrebbe voluto mantenerli per sempre com’erano, diavoli di cattiveria, angeli di bontà; non voleva che diventassero dei mostri dalle gambe lunghe.
Virginia Woolf, Al faro
La dedica l’hai scritta?
La dedica l’hai scritta?
, ha chiesto Irene, dando per scontato che l’avrei fatto.
Ci avevo già pensato, l’idea mi piaceva, ma pensavo che ormai lo fanno tutti e sembra quasi un vezzo.
Di per sé, però, mi piace perché è un gesto gentile nei confronti di chi è stato vicino all’autore, condividendo stati d’animo (spesso difficili da sopportare), idee variegate, pensieri sparsi, ragionamenti in prova. Un debito affettuoso da pagare in parole scelte con cura. Così, ecco qua.
A Mauro e Irene, a Irene e Mauro per l’amore illimitato, reciproco, divertente che ci tiene avvinti.
A Roberto Maragliano per il sodalizio profondo di idee, progetti, ricordi, che ci lega da venticinque anni, gli stessi del mio matrimonio e dei lettori di Manzoni.
Ai miei genitori, che non sono più su questa terra, per il respiro aperto che hanno permesso conquistassi.
A tutti gli animali della nostra fattoria per la dimostrazione costante della differenza fra animale e bestia.
A me per la bambina un po’ immobile che sono stata, per l’adulta che sono ora, sempre in viaggio con lei.
Aperture simultanee
i quando ero piccola mi ricordo poco: che avevo i capelli lisci e biondi ed ero molto bella (una specie di angioletto ubbidiente con tanti sorrisi e poche parole), che avevo esordito in alcuni programmi televisivi della Rai per esserne quasi subito trascinata via da mia madre, che facevo merenda davanti alla televisione condividendo con mio fratello pane e cioccolata, pane sale e olio o pane e salame, che giocavo spesso alla maestra ed ero molto severa con le mie bambole, che ero ordinatissima e maniaca dell’igiene tanto da tenere in isolamento in camera mia le mie posate e il mio spazzolino da denti, che per questa ragione la mia camera era meta di esplorazioni parentali alla scoperta di un fenomeno tanto sorprendente, che ho sempre desiderato imparare a salire sugli alberi, scorticarmi tutte le gambe e possedere un motorino.
Poi fortunatamente arrivò il Settantasette e le mie rabbie represse esplosero vestite di ideologie forti e dure, di zoccoloni e gonnellone fiorate. Anni intensi, selvaggi, pieni di dubbi e di false certezze, passati nella speranza di scoprirmi finalmente libera da parole d’ordine, codici di comportamento iper-politicizzati, atteggiamenti bloccati dalla paura di ritrovarmi ai margini del ‘collettivo’. In fondo ero una brava ragazza, figlia di una buona famiglia mediamente italiana, che ipotizzava per i suoi discendenti un futuro sicuro, tranquillo, possibilmente studioso ma senza esagerazioni intellettualistiche, senza troppe perdite di tempo e con alcuni guadagni, non necessariamente consistenti data la natura femminile del mio contributo futuro al mondo del lavoro.
Ho fatto la scuola media e poi il liceo: Visconti, a Roma, non so se mi spiego, il luogo più squallido e triste che io ricordi, con tanti vecchi e giovani insegnanti parrucconi e/o ignoranti, con tanti inutili figli di papà e dannosi figli di parlamentari. Ancora oggi quell’istituto cadente seppur storico è considerato sinonimo di seria e garantita formazione classica, e tutto perché un manipolo di onorevoli senatori romani con gli occhiali le orecchie grandi e un po’ di gobba si annoverano tra le fila della classe dirigente storica di questo furbastro paese che furono rinchiuse tra quelle mura. Certo, anche parecchi uomini della sinistra parlamentare e di tutto l’arco costituzionale consumarono con le loro corse giovanili i vetusti gradoni di pietra dell’antico collegio, e dopo di loro i loro discendenti diretti, ma difficile esercizio filologico risultava la disamina delle differenze comportamentali tra un figlio e l’altro. Se una cosa sola ho imparato da cinque anni di liceo classico (oltre a fare l’uncinetto e ad affermare le mie idee sforzandomi di superare la paura di non essere d’accordo con gli altri) è a non accontentarmi delle apparenze, a cercare sempre dietro la maschera o, meglio, ad interpretare le facce delle maschere. D’altra parte, che altro non sono le ‘persone’ se non maschere? Questa sì che è seria cultura classica. Facevo parte del Nucleo Politico Visconti, l’unica cosa viva e pazza che si agitava sconsideratamente lì dentro. L’altra unica cosa importante è stata l’insegnante di Storia dell’arte in prima liceo: è durata poco ma io l’ho amata molto, anche se oggi che sono molto scanzonata in fatto di storia e soprattutto di arte, forse sarei meno adorante. La lezione sui kouroi greci (mentre i miei compagni di classe si tiravano gomme e cartoccetti), però, non la dimenticherò mai.
Dopo il liceo l’università naturalmente, scivolata tra le scelte senza troppi perché e senza molte altre possibilità: in anni agitati ipocriti e pieni di piombo una specie di effetto Di Pietro ante litteram indirizzò la mia anima bella, assetata di giustizia, verso la facoltà di Giurisprudenza a La Sapienza
. Curriculum breve, crollato miseramente, non ingiustamente, sui due o tre tomi del Mortati: Diritto Costituzionale.
Per i miei entusiasmi giovanili, così come deve accadere per quelli della maggior parte dei ragazzi che bazzicano le aule di ogni ordine e grado dei nostri istituti scolastici, gli insegnamenti accademici erano e sono incomprensibilmente lontani dai perché e dai vorrei con i quali ci si accosta alle discipline specialistiche: uno arriva convinto che studiare, sfogliare, ascoltare, ripetere e commentare prima o poi gli serviranno per capire fare e parlare, e poi invece passano gli anni e questo momento di disvelamento, di introspezione sapiente, di partecipazione calorosa alle ragioni che motivarono la propria scelta, non arriva mai. E ci si stanca, spesso ci si adegua scegliendo la via facile ma dolorosa del silenzio e della testa china; oppure si abbandona, si ritenta, e in tutto questo daffare tanti si perdono definitivamente o dimenticano gli entusiasmi iniziali. L’università è spesso la strada maestra della mediocrità.
Naturalmente, così come cominciai, lasciai. Per due anni svolazzai tra i tentativi più strampalati per dare corpo alle mie fantasie di fare qualcosa di bello e di utile per me e per il mondo. Poi arrivai agli studi pedagogici.
Ho cominciato questo mio ritratto a tinte forti, con linee incisive e macchie espressionistiche di ricordi colorati, dall’infanzia per una ragione precisa, almeno quella ufficiale: io sono convinta che non si diventa grandi veramente se non realizzando le premesse e le promesse della propria storia di bambini. Io sono convinta che si diventa veramente bambini facendo la pace con la propria immagine di adulti. E la pace si fa a condizione di non passare oltre senza affrontare fino in fondo i nodi, conflitti e aspettative, sogni e disillusioni, della propria infanzia. Di questo parlerò in questa presentazione: di come sono arrivata fino a qui a raccontarmi sullo schermo di un computer, ripartendo da quello zero assoluto che mi sentivo quando ho ricominciato gli studi universitari. Un percorso educativo lo concepisco anche un po’ come terapeutico: se è buono serve a conoscere di sé zone d’ombra, ad esplorare ambiti poco battuti, ad accettare come propri nodi conflittuali, ad aprirsi agli altri con curiosità e occhio limpido.
Per quanto mi riguarda non ho fatto altro che tentare di liberarmi degli impacci derivanti dall’educazione ricevuta, salvando alcune cose buone ormai parte profonda di me. Per questo ho cercato soluzioni birichine proprio nel campo dell’educazione, fino ad arrivare a scegliere come centro della mia ricerca personale e professionale quell’inquietante oggetto della pubblica opinione che è la pubblicità. Ci arrivo tra un po’.
Prima di decidere di intraprendere studi pedagogici mi scoprivo spesso a chiedermi che cosa mi sarebbe piaciuto fare per i bambini, come avrei voluto trattarli, che cosa avrei voluto insegnare loro e cosa da loro avrei voluto imparare. Ricordo che cercavo ogni occasione buona per frequentare la libreria-scantinato di Armando Armando, l’editore romano con sede a Trastevere, che allora mi pareva il luogo giusto per pensare e praticare una pedagogia libera ‘dagli impacci della buona educazione’ di moderati costumi. Mi pareva che in quell’ambito avrei forse trovato il modo di rimediare all’educazione piccolo-borghese che avevo subito; respiravo quell’atmosfera eufemizzante, bambino-centrica, attribuendole una forza compensativa dei silenzi e dei mancati movimenti liberi della mia infanzia. Ora so che neanche quell’immagine di infanzia libertar-bambinistica, in linea con le rappresentazioni ecologistiche da ‘Valle degli Orti’ che allora si affacciavano sulla scena dei temi legati all’ambiente, corrisponde davvero all’età infantile. So, perché ci sto lavorando, che l’infanzia è una categoria impossibile da definire in modo chiaro e stabile, e che le rappresentazioni dell’infanzia dipendono comunque dalle caratteristiche profonde della cultura alla quale si appartiene. Ed essendo la cultura alla quale apparteniamo tutti noi occidentali segnata dall’alfabetismo, anche la concettualizzazione su quell’età che indichiamo come infantile deriva dal nostro codice ‘genetico’ alfabetico. La tesi è che l’invenzione dell’infanzia sia strettamente connessa con l’invenzione della stampa, procedura tecnica che ha permesso la razionalizzazione e la diffusione di massa dell’alfabetismo. La stampa ha trasformato radicalmente i processi di costruzione e trasferimento della conoscenza concentrandoli sull’esclusività della lettura. Il passaggio dall’‘imparare facendo all’imparare leggendo’ ha comportato fondamentalmente 1) la gerarchizzazione e la linearizzazione del sapere, 2) l’introduzione di soglie progressive di accesso alla lettura e dunque ai saperi. Da questo processo derivano a) una concezione cumulativa e progressiva della conoscenza quindi, per ciò che concerne i bambini, l’idea di una loro natura difettosa di conoscenze, perciò ‘innocente’; b) la parcellizzazione, il controllo, l’esclusione, da parte degli adulti, di ciò che si ritiene adatto ai bambini in termini di difficoltà cognitiva e di adesione emotiva. Così pare sia nata l’infanzia, da preservare e proteggere, misurando e mediando via via il grado dell’esposizione dei bambini all’esperienza e conoscenza del mondo.
A chiarire meglio, forse, la questione può servire un altro piccolo picchetto della mia storia personale ricordando che, mentre decidevo di studiare pedagogia, davanti agli scaffali della Armando Armando fantasticavo di diventare una scrittrice di libri per ragazzi (cosa che avevo piccolissimamente cercato di fare già sui banchi delle aule di Giurisprudenza). Volevo provare ad offrire ai bambini favole moderne, storie buone ma più vivaci e impertinenti di quelle che conoscevo già o di molte di quelle che acquistavo per i miei nipoti. Provavo a scrivere favole e piccoli racconti animati da eroi possibili. E quasi sempre, alla soddisfazione del risultato raggiunto, si univa il dubbio che proprio quelle fossero proposte giuste per i bambini per come li conoscevo dal vero. Io cercavo di costruire delle favole che si potessero, prima di tutto, leggere ad alta voce: il mio modello ideale di lettore era costituito da almeno una coppia adulto/bambino o bambino grande/bambino piccolo. Cercavo di lavorare sul ritmo delle frasi e sulla sonorità delle parole. Era una cosa che più che altro intuivo. Cercavo anche di evitare implicazioni moralistiche e situazioni pedagogicamente corrette: ma certo non ero esente dal condividere dell’infanzia una rappresentazione naturalistica, ambiental-pacifista, pulitina e non minimamente sporcata dal male del mondo, intrinsecamente buona e bella, insomma semplificata, spogliata dei grovigli dell’inconscio, dei conflitti affettivi relativi a cose come la morte, i rapporti familiari, l’erotismo, etc.
Scrivevo e sognavo ma non ero soddisfatta: mi pareva che comunque i bambini stessero sempre da un’altra parte o che, tuttalpiù, le mie favole sfiorassero soltanto istanti del loro essere così veramente in carne ed ossa. Sentivo anche che, per quanto scritte per essere interpretate ad alta voce, quelle storie erano insufficientemente dinamiche, visive, risuonanti.
I bambini che conoscevo più che leggere guardavano la televisione, cominciavano a giocare con il game-boy, andavano al cinema e ascoltavano tanta musica dai quei loro radio-registratori con le casse a palla tutte colorate. Che cosa avrebbero detto loro le mie storie? Erano veramente adatte a loro? Ci sarebbe stato spazio nel loro mondo esterno e interno per i miei personaggi-cose animate o per le mie bambine vispe e intelligenti (che certamente intuivano di essere anche ‘cattive’ e ‘sporche’) ma sempre un po’ troppo Holly-Hobbie? E la favola era un genere narrativo in trasformazione ma ancora esistente? E le storie scritte potevano reggere il confronto con la densità narrativa di un film animato? E come costruire intrecci e personaggi nei quali i bambini potessero identificarsi ma senza incontrare anche le zone buie delle loro elaborazioni esperienziali e fantastiche? E i bambini avrebbero voluto continuare a leggere? Queste erano alcune, le più importanti, delle molte domande che continuamente mi facevo prima e dopo la scrittura. Un giorno sentii parlare Marcello Argilli, uno scrittore per i bambini di quelli italiani ma non del tutto ‘pedagogici’, della necessità di modificare il modo di scrivere per i bambini. Diceva una cosa più o meno così: In un mondo che ormai va alla velocità dell’aeroplano, non si può continuare a raccontare alla velocità della carrozza a cavallo
. Ci voleva ritmo, movimento, oggetti e personaggi moderni. Oggi ci sono collane di libri per bambini straordinariamente ricche di infanzia vera, di bambini veri e meravigliosamente complicati, che magari vanno a cavallo alla velocità di un’automobile. Peccato che vengano quasi tutti da altri paesi. In Italia, a parte rarissimi casi, ad esempio quello notevole di Bianca Pitzorno, la narrativa per l’infanzia risente ancora molto e di una sottovalutazione della natura specifica di questo settore della letteratura, e di una concezione commossa e piagnona dell’infanzia.
Così, visti anche i risultati eccessivamente languenti dei miei contatti con gli editori, rallentai e poi smisi. Continuai e continuo a divorare libri per bambini e ragazzi, aspettando il momento giusto per farmi di nuovo avanti.
Passarono altri anni e poi, finalmente, un giorno arrivò il mio incontro con Roberto Maragliano, scelto come tutor per la mia ricerca di dottorato.
Mi presentai da lui decisa a continuare sulla strada aperta dal mio lavoro di tesi sui ‘meccanismi’ produttori di immaginario interni al linguaggio verbale, con l’intenzione di proseguire il cammino allargando la visuale al confronto a all’intreccio con linguaggi non verbali. Io pensavo soprattutto ai linguaggi del corpo. Lui mi propose di indagare il linguaggio della comunicazione pubblicitaria come modello globale fatto di molti codici compresenti e reciprocamente significanti.
Lì per lì ci restai un po’ male: io la pubblicità la odiavo così come odiavo la televisione, coerente con la mia visione ‘alfabetica’, intellettualistica della lingua e della conoscenza. Tra l’altro non ne sapevo niente perché neanche la guardavo la televisione. Ci pensai su e poi decisi di accettare la sfida, per me s’intende. Scoprii che mi piaceva occuparmi della pubblicità perché, avendo a che fare con cose come il denaro e l’interesse commerciale, è un oggetto sporco e quindi mi permette di non ricadere nel comodo e pulito nido della ricerca intellettuale tranquilla-coscienze, atteggiamento che sarebbe coerente con le premesse educative di cui ho parlato abbondantemente fin qui, e con il clima culturale che staziona nelle scuole e nelle accademie. Lo dicevo sopra: lavorare la pubblicità attribuendole valore culturale e artistico, alla stregua di un qualunque altro oggetto degno della ricerca universitaria, mi ha fatto sentire birichina, sempre sulla soglia, pronta a partire per esplorare frontiere ancora non prese in considerazione.
Inoltre, sono davvero convinta che la comunicazione pubblicitaria costituisca un modello cognitivo molto interessante (e forse più ricco di quelli che conosciamo per essere oggetti di studio della psicologia cognitiva), nel quale sono messi in gioco significativamente, nella fruizione e nello scambio comunicativo, sia il soggetto che l’oggetto del rapporto. Uno spunto per tutti: studiare veramente la pubblicità richiede la messa in discussione del paradigma della conoscenza oggettivante, e l’adesione ad una filosofia del relativismo ‘responsabile’ fondata sulla frammentazione e l’intreccio delle visioni e delle rappresentazioni come sostanza del reale. Tradotto in termini educativi: conoscenze mobili, molteplicità dei punti di vista e dei punti d’essere, status culturale e non meramente tecnico delle tecnologie della comunicazione (ma non soltanto di esse), valore centrale delle intenzioni e delle motivazioni affettive e cognitive degli individui coinvolti.
Tutto questo per dire che lo studio della pubblicità si fa serio quando non veste i panni pesanti della ‘grammaticalizzazione’ e dell’educazione a tutti i costi, ma quelli leggeri del gioco interpretativo, capriccioso e libero da ogni condizionamento moralistico. Su questi temi e molte altre cose ho scritto nel mio primo libro Tele di Penelope, frutto maturo del mio lavoro di dottorato.
Da allora sono rimasta aggrovigliata ai tanti stimoli e provocazioni derivanti dal pensare le tecnologie come ambienti attivi nella costruzione della cultura individuale e collettiva, e quindi della trasformazione della natura in cultura.
Sono diventata docente all’Università Roma Tre, in quello che oggi si chiama Dipartimento di Scienze della Formazione; pensiero, studio, ricerca, produzione, attività didattica, animazione culturale, tutte le sfere della mia attività personale e professionale si sono colorate di questo tema di fondo: le tecnologie sono agenti determinanti dell’identità personale di ciascuno di noi, delle sue esperienze, delle sue conoscenze.
La chiave delle tecnologie come matrici culturali della natura umana, a partire dal linguaggio, ha offerto ai miei interrogativi di un tempo alimento continuo nello studio, la ricerca, l’attività didattica e culturale. Allo stesso tempo, il mio interesse per il pensiero di autori poco disciplinati, di difficile collocazione disciplinare e d’impossibile riduzione al semplice ha sostenuto in me il bisogno di costruire ed esercitare un pensiero creativo, realistico, disinibito, costantemente aperto al dubbio, al molteplice, al complesso.
McLuhan e Ong, più di tutti, per esplorare la natura culturale dei media, dell’oralità e della scrittura in particolare, come sistemi culturali originariamente irriducibili uno all’altro; poi Elias, sul versante sociologico, per comprendere nel profondo il processo di civilizzazione occidentale come processo di artificializzazione della natura umana attraverso il progressivo e implacabile apprendimento all’auto-controllo degli istinti e alla sublimazione delle pulsioni. Non a caso Elias chiama in causa Rousseau come avanguardia di un atteggiamento romantico verso la campagna e la vita rustica diffuso nell’aristocrazia francese, come sotterranea rivolta contro la rigidità innaturale della vita di corte: Rousseau, nonostante la sua ambiguità e contraddittorietà, incarna il valore di una soggettività libera dalle costrizioni sociali, che afferma e rivendica il perseguimento dell’autenticità come ‘amour-de-soi’, contro l’artificiosità e l’ipocrisia dell’affermazione di sé come ‘amour propre’.
Rousseau è, appunto, un’altra fondamentale presenza nella mia ricerca personale e professionale: la figura del ‘buon selvaggio’ è una grande utopia ancora da realizzare e, al tempo stesso, una bussola che guida le mie scelte. I legami tra Rousseau e Morin sono forti ed espliciti: quest’ultimo, infatti, è un altro dei miei autori di riferimento: il principio dell’uni-dualità biologica e culturale è al centro della sua concezione dell’uomo e del mondo; la sua ricerca di una ‘via’ possibile in economia, medicina, politica, educazione dà corpo all’utopia di Rousseau. Il soggettivismo filosofico rousseauiano in Morin chiama all’azione la coscienza individuale, alla ricerca di cure eco-sostenibili per le tremende ferite della terra e dei suoi abitanti, in modi diversi al Nord e al Sud del