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I figli di Noi tutti
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I figli di Noi tutti
E-book129 pagine1 ora

I figli di Noi tutti

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Info su questo ebook

Il libro racconta le storie di alcune persone segnate fin dalla nascita da gravi malformazioni.

Una bambina appena nata viene lasciata in un brefotrofio perché malformata, verrà poi messa incinta senza rendersene conto da un volontario.

La storia di una famiglia vissuta in Germania nel periodo della guerra alla quale viene fatto sparire il figlio disabile con il (programma eugenetica).

Un ragazzo viene messo in manicomio per una depressione, il medico che lo cura avrà con lui uno scambio di tenera affettuosità.

Una ragazza vittima del padre partorirà cinque figli, tre mentalmente ritardati, gli unici sani due gemelli saranno affidati agli assistenti sociali sperando in un recupero del degrado lasciando nello stupore i genitori.

Una ragazza focomelica incute coraggio alla sua assistente in cambio avrà la gioia di toccare per una volta il cielo con le dita, come donazione d’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2020
ISBN9788831670142
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    Anteprima del libro

    I figli di Noi tutti - Anna Frezzolini

    633/1941.

    Rosina (piccole impronte)

    Na­sco in un’epo­ca in cui i non per­fet­ti non era­no be­ne ac­cet­ti.

    Quan­do la mia mam­ma e il mio pa­pà mi han­no pre­sa tra le brac­cia han­no pro­va­to un sen­so di re­pul­sio­ne, le mie gam­be non era­no al lo­ro po­sto ma in­cro­cia­te tra lo­ro, da spa­ven­ta­re qual­sia­si per­so­na le guar­das­se.

    La mia mam­ma cer­ca­va d’in­te­ne­rir­si a quell’es­se­ri­no in­di­fe­so ma non ac­cet­ta­va la de­for­mi­tà che lui espri­me­va.

    Ci sia­mo tro­va­ti tut­ti e tre, io, mio pa­dre, mia ma­dre, so­li nel­la stan­za dell’ospe­da­le; i miei ge­ni­to­ri mi guar­da­no at­ten­ta­men­te e de­ci­do­no che non ero una bam­bi­na da po­ter pre­sen­ta­re co­sì mal pro­por­zio­na­ta, gli ar­ti trop­po vi­ci­ni al tron­co, la te­sta trop­po gran­de ri­spet­to al cor­po, il tut­to li spa­ven­tò a tal pun­to che pre­se­ro una de­ci­sio­ne dra­sti­ca, me­glio non por­tar­la nean­che a ca­sa e la­sciar­la qui in ospe­da­le e far pen­sa­re al­le isti­tu­zio­ni una sua col­lo­ca­zio­ne evi­tan­do co­sì la ver­go­gna di pre­sen­ta­re la bam­bi­na in pub­bli­co co­me una ver­go­gna.

    L’isti­tu­to che mi ha ac­col­ta Don Gua­nel­la è la ca­sa che mi avreb­be do­vu­ta cre­sce­re al po­sto del­la mia fa­mi­glia.

    Fin da su­bi­to la dif­fe­ren­za con gli al­tri bam­bi­ni la no­tai nell’espres­sio­ne de­gli as­si­sten­ti, quan­do pren­de­va­no un bam­bi­no in brac­cio co­me me ab­ban­do­na­to ma non de­for­me lo­ro ve­ni­va­no ac­ca­rez­za­ti, coc­co­la­ti, io in­ve­ce ve­ni­vo ac­cu­di­ta sem­pre pe­rò con quel mo­do pro­fes­sio­na­le, fred­do sen­za ca­lo­re, che man ma­no ha in­si­nua­to in me un’in­vi­dia che mi po­te­rò die­tro per tut­ta la vi­ta.

    Cre­scen­do ol­tre il mio aspet­to an­che il mio ca­rat­te­re ren­de­va la mia per­so­na an­co­ra più brut­ta; di­spo­ti­ca, per­ma­lo­sa, pes­si­mi­sta e so­prat­tut­to ge­lo­sa, si ge­lo­sa di qual­sia­si es­se­re che este­ti­ca­men­te non aves­se gli stes­si miei pro­ble­mi.

    Il pe­rio­do sco­la­sti­co ha fat­to si che ac­cu­mu­las­si tan­ta rab­bia ver­so i do­cen­ti che non ca­pi­va­no il mio sta­to ani­mo, il mio di­sa­gio.

    Il mio ban­co era di­stac­ca­to da­gli al­tri e mes­so in un an­go­lo, più lar­go co­me di­men­sio­ni, fat­to co­strui­re a mia mi­su­ra ta­le da per­met­te­re al­le mie gam­be di po­ter­mi se­de­re sen­za sfor­zi.

    Le in­ter­ro­ga­zio­ni poi, a se­con­da dei pro­fes­so­ri ve­ni­va­no ef­fet­tua­te sul mio po­sto, in mo­do di ri­spar­mia­re tem­po, ma io per quei trat­ta­men­ti mi sen­ti­vo pie­na di umi­lia­zio­ne e gior­no do­po gior­no ali­men­ta­vo un odio sor­do ver­so chi era co­sì di­giu­no di sen­si­bi­li­tà

    L’isti­tu­to ol­tre che gli as­si­sten­ti fis­si, go­de­va di un grup­po di vo­lon­ta­ri che gior­nal­men­te si oc­cu­pa­va­no dei più bi­so­gno­si, tra noi vi era­no per­so­ne di­sa­bi­li, al­tre con pro­ble­mi men­ta­li, poi c’era­va­mo noi po­ve­ri or­fa­nel­li, che per un mo­ti­vo o l’al­tro ve­ni­va­mo scar­ta­ti dai ge­ni­to­ri, an­che i co­sì det­ti sa­ni ma­ga­ri per­ché una ra­gaz­za ma­dre per un er­ro­re do­ve­va poi na­scon­de­re al­la so­cie­tà il frut­to del­la col­pa.

    Tut­ti i bam­bi­ni era­no adot­ta­bi­li, per quel­li co­me me era mol­to dif­fi­ci­le che ciò ac­ca­des­se.

    Ri­cor­do che quan­do i po­ten­zia­li ge­ni­to­ri ve­ni­va­no a far­ci vi­si­ta gli as­si­sten­ti ci lu­stra­va­no e a quel­li sfor­tu­na­ti co­me me cer­ca­va­no di ab­bel­lir­li con un grem­biu­le più nuo­vo, con un fioc­co, ma l’ef­fet­to era sem­pre di­sa­stro­so, la smor­fia che si leg­ge­va in quel­le per­so­ne era di di­sgu­sto.

    Ri­ma­sta so­la non fa­ce­vo che pian­ge­re e di­spe­rar­mi con­tro qual­cu­no che mi ave­va fat­ta na­sce­re co­sì di­ver­sa.

    Nel­la gran­de ca­sa che ci ospi­ta­va, tut­ti do­ve­va­no fa­re qual co­sa, per­lo­me­no i più abi­li, io do­po la scuo­la ero ad­det­ta al ri­ca­mo, le suo­re ave­va­no in­se­gna­to al­le mie ma­ni­ne ad ara­be­sca­re qual­sia­si stof­fa; so­prat­tut­to len­zuo­li, to­va­glie, ca­mi­cie da not­te, men­tre pre­pa­ra­va­mo cor­re­di per le spo­se sul mio vi­so gros­si la­cri­mo­ni sgor­ga­va­no lun­go le guan­ce pen­san­do al mio di ma­tri­mo­nio che mai sa­reb­be av­ve­nu­to.

    Le vi­si­te dei pa­ren­ti era­no con­sen­ti­te una vol­ta a set­ti­ma­na, ogni vol­ta per me non c’era­no, al­lo­ra si ri­pe­te­va il dram­ma, il mio es­se­re si riem­pi­va di tri­stez­za.

    An­che le ami­ci­zie non era fa­ci­le al­lac­ciar­le.

    Le ra­gaz­ze det­te nor­ma­li fa­ce­va­no grup­po tra lo­ro, men­tre noi det­te le in­fe­li­ci ri­ma­ne­va­mo esclu­se ed ai mar­gi­ni di ogni ini­zia­ti­va.

    L’isti­tu­to era for­ni­to di un pia­no­for­te e un pal­co­sce­ni­co do­ve po­ter­si esi­bi­re, una chie­sa con un co­ro che ac­com­pa­gna­va tut­te le fun­zio­ni re­li­gio­se.

    Io mi strug­ge­vo dal de­si­de­rio di po­ter par­te­ci­pa­re, per­lo­me­no ad una di que­ste at­ti­vi­tà, ma ve­ni­va­no sem­pre scel­te bam­bi­ne d’aspet­to più gra­de­vo­le.

    La mia in­vi­dia non fa­ce­va che in­gi­gan­tir­si sem­pre di più.

    Le suo­re cer­ca­va­no di ani­ma­re la ca­sa con del­le re­ci­te, con­fe­zio­na­va­no i co­stu­mi poi na­tu­ral­men­te sce­glie­va­no le più gra­zio­se, le pre­scel­te do­ve­va­no im­pa­ra­re la par­te che era sta­ta lo­ro as­se­gna­ta.

    Die­tro al pal­co­sce­ni­co c’era un ma­gaz­zi­no do­ve ve­ni­va­no con­ser­va­ti gli abi­ti di sce­na, le par­ruc­che e gli ac­ces­so­ri, da me so­pran­no­mi­na­ta la sa­la del­le ma­gie.

    Nei pe­rio­di un po’ più cal­mi, qua­li, le va­can­ze o le fe­ste na­ta­li­zie il col­le­gio si svuo­ta­va e io po­te­vo im­mer­ger­mi nel­la fan­ta­sia in­tru­fo­lan­do­mi di na­sco­sto nel­la sa­la ma­gi­ca, con un cap­pel­lo ed un ba­sto­ne mi ca­ta­pul­ta­vo in un per­so­nag­gio o nell’al­tro mi­man­do­ne le mo­ven­ze im­pa­ra­te a me­mo­ria a fu­ria di as­si­ste­re al­le rap­pre­sen­ta­zio­ni.

    Op­pu­re mi met­te­vo zit­ta zit­ta in un an­go­lo del­la sa­la do­ve si svol­ge­va­no le pro­ve fan­ta­sti­can­do che sul pal­co ci fos­si io e che le suo­re mi di­ces­se­ro quan­to fos­si bra­va.

    Un gior­no so­no sta­ta sco­per­ta dal­la ma­dre su­pe­rio­ra

    Ro­si­na co­sa stai fa­cen­do?

    Re­ve­ren­da ma­dre, guar­da­vo.

    Non è que­sto il po­sto do­ve ti do­vre­sti tro­va­re!

    E pren­den­do­mi per un brac­cio ven­go spin­ta in ma­lo mo­do ver­so il cor­ri­do­io.

    Ed io con la mia an­da­tu­ra in­cer­ta, buf­fa co­me le fo­che quan­do pen­sa­no di fug­gi­re da una mi­nac­cia, cer­co di gua­da­gna­re la stra­da del­la mia stan­za, ma il tra­git­to sem­bra in­ter­mi­na­bi­le, rag­giun­go fi­nal­men­te l’ago­gna­to tra­guar­do, mi chiu­do den­tro, ap­pog­gian­do­mi poi al­lo sti­pi­te del­la por­ta e ti­ro un so­spi­ro di sol­lie­vo per lo scam­pa­to pe­ri­co­lo.

    Tra i vo­lon­ta­ri so­lo uno mi di­mo­stra­va un po’ di sim­pa­tia, Gio­van­ni ave­va sem­pre una pa­ro­la buo­na ad­di­rit­tu­ra mi fa­ce­va qual­che com­pli­men­to ti­po Che bel na­stro hai tra i ca­pel­li og­gi Ro­si­na, le mie guan­ce si ac­cen­de­va­no co­me lam­pa­di­ne men­tre mi al­lon­ta­na­vo di cor­sa.

    È an­co­ra vi­va in me la de­lu­sio­ne co­cen­te di quan­do aspet­ta­vo da tem­po che mi re­ga­las­se­ro una bam­bo­la, del­le da­me del­la ca­ri­tà ol­tre che il ve­stia­rio ci por­ta­va­no il pac­co del­la be­fa­na, nel mio ci tro­va­vo sem­pre quel­le imi­ta­zio­ni di pez­za che sa­pe­va­no di fin­to, di ar­ran­gia­to a me pia­ce­va quel­la che ave­va Ri­ta, tut­ta fat­ta di una com­po­si­zio­ne che sem­bra­va ve­ra, gran­de qua­si co­me me poi se la scuo­te­vi di­ce­va pu­re mam­ma, ma lei non me la vo­le­va far pren­de­re in brac­cio ne era ge­lo­sa, poi ave­va pau­ra che la fa­ces­si ca­de­re e si po­tes­se rom­pe­re.

    Un gior­no non ho re­si­sti­to al­la ten­ta­zio­ne ho pre­so la bam­bo­la e me la so­no por­ta­ta nel­la mia ca­me­ra, l’ho te­nu­ta stret­ta, sta­vo per far­gli di­re mam­ma quan­do si è aper­ta la por­ta, la suo­ra me la ha strap­pa­ta dal­le ma­ni e mi ha ur­la­to: Ro­si­na per­ché hai pres­so la bam­bo­la di Ri­ta? lei sta pian­gen­do, que­sta se­ra a let­to sen­za ce­na e die­ci pre­ghie­re co­me pe­ni­ten­za.

    Io di pre­ghie­re ne avrei re­ci­ta­te an­che tren­ta ma la ce­na sal­tar­la con tut­ta la fa­me ar­re­tra­ta che ave­vo pro­prio non ci vo­le­va.

    Le mie con­fi­den­ze da ado­le­scen­te non c’era nes­su­no ad ascol­tar­le, le do­man­de che avrei vo­lu­to ri­vol­ge­re ad una mam­ma ve­ni­va­no di­sat­te­se.

    Co­me era mio pa­dre? Il per­ché ero na­ta co­sì? E so­prat­tut­to se qual­cu­no mi avreb­be mai ama­ta no­no­stan­te tut­to.

    È suc­ces­sa una co­sa ina­spet­ta­ta che mi ha spa­ven­ta­ta, le mie mu­tan­di­ne si so­no mac­chia­te di un co­lo­re ros­so.

    Con af­fan­no cer­co una suo­ra, la met­to al cor­ren­te dell’ac­ca­du­to, lei mi tran­quil­liz­za di­cen­do:

    A tut­te le ra­gaz­ze suc­ce­de è se­gno che stai di­ven­tan­do don­na.

    Mi istrui­sce poi co­me ov­via­re con pra­ti­ci­tà nel mo­do mi­glio­re e le rac­co­man­da­zio­ni

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