I figli di Noi tutti
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Anteprima del libro
I figli di Noi tutti - Anna Frezzolini
633/1941.
Rosina (piccole impronte)
Nasco in un’epoca in cui i non perfetti non erano bene accetti.
Quando la mia mamma e il mio papà mi hanno presa tra le braccia hanno provato un senso di repulsione, le mie gambe non erano al loro posto ma incrociate tra loro, da spaventare qualsiasi persona le guardasse.
La mia mamma cercava d’intenerirsi a quell’esserino indifeso ma non accettava la deformità che lui esprimeva.
Ci siamo trovati tutti e tre, io, mio padre, mia madre, soli nella stanza dell’ospedale; i miei genitori mi guardano attentamente e decidono che non ero una bambina da poter presentare così mal proporzionata, gli arti troppo vicini al tronco, la testa troppo grande rispetto al corpo, il tutto li spaventò a tal punto che presero una decisione drastica, meglio non portarla neanche a casa e lasciarla qui in ospedale e far pensare alle istituzioni una sua collocazione evitando così la vergogna di presentare la bambina in pubblico come una vergogna.
L’istituto che mi ha accolta Don Guanella è la casa che mi avrebbe dovuta crescere al posto della mia famiglia.
Fin da subito la differenza con gli altri bambini la notai nell’espressione degli assistenti, quando prendevano un bambino in braccio come me abbandonato ma non deforme loro venivano accarezzati, coccolati, io invece venivo accudita sempre però con quel modo professionale, freddo senza calore, che man mano ha insinuato in me un’invidia che mi poterò dietro per tutta la vita.
Crescendo oltre il mio aspetto anche il mio carattere rendeva la mia persona ancora più brutta; dispotica, permalosa, pessimista e soprattutto gelosa, si gelosa di qualsiasi essere che esteticamente non avesse gli stessi miei problemi.
Il periodo scolastico ha fatto si che accumulassi tanta rabbia verso i docenti che non capivano il mio stato animo, il mio disagio.
Il mio banco era distaccato dagli altri e messo in un angolo, più largo come dimensioni, fatto costruire a mia misura tale da permettere alle mie gambe di potermi sedere senza sforzi.
Le interrogazioni poi, a seconda dei professori venivano effettuate sul mio posto, in modo di risparmiare tempo, ma io per quei trattamenti mi sentivo piena di umiliazione e giorno dopo giorno alimentavo un odio sordo verso chi era così digiuno di sensibilità
L’istituto oltre che gli assistenti fissi, godeva di un gruppo di volontari che giornalmente si occupavano dei più bisognosi, tra noi vi erano persone disabili, altre con problemi mentali, poi c’eravamo noi poveri orfanelli, che per un motivo o l’altro venivamo scartati dai genitori, anche i così detti sani magari perché una ragazza madre per un errore doveva poi nascondere alla società il frutto della colpa.
Tutti i bambini erano adottabili, per quelli come me era molto difficile che ciò accadesse.
Ricordo che quando i potenziali genitori venivano a farci visita gli assistenti ci lustravano e a quelli sfortunati come me cercavano di abbellirli con un grembiule più nuovo, con un fiocco, ma l’effetto era sempre disastroso, la smorfia che si leggeva in quelle persone era di disgusto.
Rimasta sola non facevo che piangere e disperarmi contro qualcuno che mi aveva fatta nascere così diversa.
Nella grande casa che ci ospitava, tutti dovevano fare qual cosa, perlomeno i più abili, io dopo la scuola ero addetta al ricamo, le suore avevano insegnato alle mie manine ad arabescare qualsiasi stoffa; soprattutto lenzuoli, tovaglie, camicie da notte, mentre preparavamo corredi per le spose sul mio viso grossi lacrimoni sgorgavano lungo le guance pensando al mio di matrimonio che mai sarebbe avvenuto.
Le visite dei parenti erano consentite una volta a settimana, ogni volta per me non c’erano, allora si ripeteva il dramma, il mio essere si riempiva di tristezza.
Anche le amicizie non era facile allacciarle.
Le ragazze dette normali facevano gruppo tra loro, mentre noi dette le infelici rimanevamo escluse ed ai margini di ogni iniziativa.
L’istituto era fornito di un pianoforte e un palcoscenico dove potersi esibire, una chiesa con un coro che accompagnava tutte le funzioni religiose.
Io mi struggevo dal desiderio di poter partecipare, perlomeno ad una di queste attività, ma venivano sempre scelte bambine d’aspetto più gradevole.
La mia invidia non faceva che ingigantirsi sempre di più.
Le suore cercavano di animare la casa con delle recite, confezionavano i costumi poi naturalmente sceglievano le più graziose, le prescelte dovevano imparare la parte che era stata loro assegnata.
Dietro al palcoscenico c’era un magazzino dove venivano conservati gli abiti di scena, le parrucche e gli accessori, da me soprannominata la sala delle magie.
Nei periodi un po’ più calmi, quali, le vacanze o le feste natalizie il collegio si svuotava e io potevo immergermi nella fantasia intrufolandomi di nascosto nella sala magica, con un cappello ed un bastone mi catapultavo in un personaggio o nell’altro mimandone le movenze imparate a memoria a furia di assistere alle rappresentazioni.
Oppure mi mettevo zitta zitta in un angolo della sala dove si svolgevano le prove fantasticando che sul palco ci fossi io e che le suore mi dicessero quanto fossi brava.
Un giorno sono stata scoperta dalla madre superiora
Rosina cosa stai facendo?
Reverenda madre, guardavo.
Non è questo il posto dove ti dovresti trovare!
E prendendomi per un braccio vengo spinta in malo modo verso il corridoio.
Ed io con la mia andatura incerta, buffa come le foche quando pensano di fuggire da una minaccia, cerco di guadagnare la strada della mia stanza, ma il tragitto sembra interminabile, raggiungo finalmente l’agognato traguardo, mi chiudo dentro, appoggiandomi poi allo stipite della porta e tiro un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.
Tra i volontari solo uno mi dimostrava un po’ di simpatia, Giovanni aveva sempre una parola buona addirittura mi faceva qualche complimento tipo Che bel nastro hai tra i capelli oggi Rosina,
le mie guance si accendevano come lampadine mentre mi allontanavo di corsa.
È ancora viva in me la delusione cocente di quando aspettavo da tempo che mi regalassero una bambola, delle dame della carità oltre che il vestiario ci portavano il pacco della befana, nel mio ci trovavo sempre quelle imitazioni di pezza che sapevano di finto, di arrangiato a me piaceva quella che aveva Rita, tutta fatta di una composizione che sembrava vera, grande quasi come me poi se la scuotevi diceva pure mamma, ma lei non me la voleva far prendere in braccio ne era gelosa, poi aveva paura che la facessi cadere e si potesse rompere.
Un giorno non ho resistito alla tentazione ho preso la bambola e me la sono portata nella mia camera, l’ho tenuta stretta, stavo per fargli dire mamma quando si è aperta la porta, la suora me la ha strappata dalle mani e mi ha urlato: Rosina perché hai presso la bambola di Rita? lei sta piangendo, questa sera a letto senza cena e dieci preghiere come penitenza.
Io di preghiere ne avrei recitate anche trenta ma la cena saltarla con tutta la fame arretrata che avevo proprio non ci voleva.
Le mie confidenze da adolescente non c’era nessuno ad ascoltarle, le domande che avrei voluto rivolgere ad una mamma venivano disattese.
Come era mio padre? Il perché ero nata così? E soprattutto se qualcuno mi avrebbe mai amata nonostante tutto.
È successa una cosa inaspettata che mi ha spaventata, le mie mutandine si sono macchiate di un colore rosso.
Con affanno cerco una suora, la metto al corrente dell’accaduto, lei mi tranquillizza dicendo:
A tutte le ragazze succede è segno che stai diventando donna.
Mi istruisce poi come ovviare con praticità nel modo migliore e le raccomandazioni