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Imperfetti innamorati
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E-book278 pagine3 ore

Imperfetti innamorati

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Love Me Too Series

Dalle autrici del bestseller Scusa ma ti amo troppo

Sono trascorsi vent’anni. Stella, psicologa, e Giulio, avvocato di successo, si amano ancora. Anche troppo, secondo la figlia, che li paragona ad alieni venuti da Marte. Lei, Felicia, ha diciannove anni. È intelligente ed esuberante proprio come la nonna, dalla quale ha ereditato nome e temperamento. Ma un particolare la divide da lei: non crede nell’amore. Qualcosa però nelle sue rigide convinzioni è destinato a cambiare… Una sera riceve un messaggio da uno sconosciuto, un messaggio che pare arrivare per sbaglio, e la sua vita prende una piega inaspettata. Felicia non sa cosa fare ma alla fine, quasi per divertirsi, risponde. E da lì ha inizio il gioco… Agli occhi del fratello gemello, geloso e possessivo, è una pazza. Le amiche di sempre invece la supportano. E chissà che quell’errore non sia destinato a trasformarsi in una magia…

Hanno scritto del romanzo precedente:

«Profondo e al tempo stesso divertente, questo romanzo è scritto davvero bene. È stata una vera e propria sorpresa!»
Io Donna

«Un romanzo romantico e spumeggiante che sa scuotere, emozionare e sbalordire.»
Il Messaggero
Elisa Trodella e Loretta Tarducci
sono amiche da sempre. Un giorno decidono di raccontare una storia, che è diventata Scusa ma ti amo troppo, loro primo romanzo, che ha riscosso un grande successo di pubblico e critica. Con la Newton Compton hanno pubblicato anche Imperfetti innamorati, seguito da Cioccolata amara, con il quale le due autrici chiudono l'appassionante, romantica e imperdibile trilogia.
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2016
ISBN9788854196841
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    Anteprima del libro

    Imperfetti innamorati - Loretta Tarducci

    Prologo

    Eppure accadrà!

    La fretta e l’ascensore occupato mi fanno salire le scale di corsa, voglio arrivare presto all’ultimo piano. Voglio rintanarmi sotto il gazebo del mio terrazzo, voglio sedermi sul vecchio sofà a fiori di famiglia. Voglio sentirmi vicino al cielo, scorgere le ali e immaginarle pronte a proteggermi nel momento in cui servirà. Eccomi. Apro la porta di casa, corro nel salone e faccio scorrere la parete vetrata.

    Afferro entrambi i cellulari. Sì, ho due cellulari, e ancora stento a crederci. Soprattutto perché non sono un’importante manager, né un agente segreto, né un’attrice famosa e neanche una pop star che cavalca l’onda del successo. Sono solo un’incosciente che si è cacciata in un pasticcio di proporzioni cosmiche e non sa come uscirne. Li stringo entrambi all’altezza dello stomaco e mi stendo sul sofà, così da potermi perdere nel cielo.

    Il cielo di Roma è sempre spettacolare e osservarlo rallenta il respiro. Non voglio distrarmi a guardare le evoluzioni acrobatiche degli stormi tra le nuvole, voglio cercare le ali, saranno grandissime ormai. Sono sicura che, se riuscirò a scorgerle, tutto andrà per il verso giusto. Devo concentrarmi.

    Strano che il suono di un cellulare, o dell’altro, possa indirizzare così drammaticamente la mia vita. Soprattutto considerando che in entrambi i casi dovrò ricorrere a tutta la forza in mio possesso per uscire illesa da una situazione a dir poco surreale. A breve il destino deciderà per me, e la mia voce, per la prima volta dopo troppo tempo, seguirà il mio accento e la mia modulazione. Oppure no? Non sono più sicura di nulla, eppure mi sento pronta a confessare tutta la verità.

    Una cosa è certa: non voglio perderlo e non lo perderò.

    Sbircio sui display e mi accerto che i telefoni non siano in modalità silenziosa. Alzo il volume. Faccio partire una chiamata a vuoto da entrambi per verificare che ci sia campo. Meglio non lasciare nulla al caso.

    Cos’altro devo fare? Aspettare ancora. L’ultimo sforzo. Per un carattere impulsivo e impetuoso come il mio, l’attesa è la prova più difficile.

    Eppure un telefono squillerà, deve squillare. I segnali sono stati chiari. Oggi anch’io ho diritto alla mia magia.

    Mi pare di scorgere due grandi piume attraverso un gioco di fasci di luce, mentre la melodia della notifica di un messaggio si diffonde nell’aria.

    Capitolo 1

    C’era una volta… raccontava sorridendo la mamma…

    Qualche alba e tramonto fa…

    Camminavo velocemente in via del Governo Vecchio. Velocemente si fa per dire: i tacchi alti ostacolavano la falcata da mezzofondista tipica del mio incedere quando non inforcavo l’amata bicicletta rosa, prezioso regalo dei miei genitori di un lontano Natale, in sostituzione del pericoloso motorino. Proprio quel giorno ero stata costretta a rinunciarvi, a causa di una ruota a terra che, in vista della giornata speciale, nessuno avrebbe avuto il tempo né la voglia di gonfiare. Io compresa, vista la fretta con la quale ero fuggita da casa.

    Quella mattina la voce rassicurante di mia madre mi aveva riportato dolcemente alla realtà.

    «Felicia… svegliati, tesoro, su!».

    «Mamma…», le avevo bisbigliato, «ancora cinque minuti…».

    «È tardi, dài, alzati che la vita è bella!». Aveva spalancato le persiane, com’era solita fare quando, euforica, non stava nella pelle. La luce del giorno era entrata prepotente nella stanza e io avevo nascosto la testa sotto il cuscino.

    Da quando ero a spasso, terminato il liceo linguistico, abbastanza mesi fa da non sentirmi più una ragazzina, la mattina non riuscivo proprio ad alzarmi. Restavo a letto a farmi cullare dagli odori e dal calore del dormiveglia, dal vociferare dei miei genitori che mi raggiungeva oltrepassando le barriere della mia camera da letto. Quando sentivo il rumore sordo della porta di casa che si chiudeva, e restavo sola, i pensieri si ridestavano di colpo arrovellandosi in cerca di risposte su un futuro ancora ignoto: il mio.

    Cosa avrei fatto da grande? Ciò che all’inizio era sembrato a tutti un passatempo divertente, di cui poter immaginare gli eventuali scenari, stava diventando un autentico incubo, almeno per me. E non perché fossi una scansafatiche o non avessi voglia di applicarmi in nulla, anzi, le troppe idee che mi frullavano per la testa e le eccessive ambizioni mi confondevano. «Sei uguale a tua nonna Felicia!», mi ripeteva sempre mia madre, e non solo ero certa che avesse ragione, ma non avrei potuto desiderare di più.

    A un tratto il cuscino era finito ai piedi del letto, strattonato dalle sue abili mani.

    «Nooooo», mi ero lamentata coprendomi il viso.

    «Dài, alzati, tra poco arriva tuo fratello!», mi aveva incalzato lei, trepidante.

    Ecco, Pietro, il mio fratello gemello, quel giorno avrebbe varcato la soglia di casa dopo una lunga settimana di assenza. Era sabato, e Pietro avrebbe reso la nostra giornata speciale.

    Mi ero buttata giù dal letto e avevo guardato l’ora sul cellulare: le 9:30. Tutto sommato, mia madre avrebbe potuto farmi poltrire ancora un po’, ma, ripeto, era la nostra giornata speciale; l’impazienza governava indiscussa.

    Un messaggio di Clem aveva spezzato l’idillio.

    Chiamami, è urgente!!!

    Avevo fatto partire l’ultima chiamata; ci sentivamo mille volte al giorno. In poche parole mi aveva informato che la sera prima Francesco, il mio pseudoragazzo, durante una festa a casa di amici in cui lei era capitata per sbaglio, aveva fatto lo stupido con la solita ragazzetta insignificante di turno, mettendomi in ridicolo davanti a tutti. Per l’ennesima volta. Era davvero troppo. Non sarei stata più disposta ad accettarlo.

    Inseguita da mia madre, che mi raccomandava di tornare puntuale per il pranzo, mi ero lanciata fuori di casa con un unico obiettivo: lasciare Francesco senza troppe spiegazioni, salvare la mia dignità giocando d’anticipo, mostrargli vis-à-vis cosa si stava perdendo e riprendere a guardare avanti come avevo sempre fatto. Uno stupido in meno, avevo pensato.

    Ed eccomi solcare via dei Coronari, vestita da vera donna irresistibile e affascinante. O quantomeno mi ero seriamente dedicata al raggiungimento dello scopo.

    Mi presento: Felicia Garrone, diciannove anni – quasi venti in realtà –, alta quel che bastava per essere considerata una ragazza alta, con una parlantina da far invidia all’avvocato del diavolo e il fuoco dentro, come nonna Felicia.

    Portavo con disinvoltura una quarta di seno, eredità di mia madre. A sentire lei, era stato il suo complesso da sempre, e non c’era cosa che mi desse maggiore percezione di quanto fossimo diverse. Io le ero semplicemente grata per il regalo che suo malgrado mi aveva fatto, mentre ero certa che lei mi avrebbe risparmiato l’incombenza di affrontare la vita con un peso così ingombrante.

    Se penso che mi sarebbe potuta toccare una vita da piatta come a zia Bea! No, grazie, preferivo di gran lunga avere problemi alla schiena! Di mio padre avevo ereditato gli occhi, azzurri come il cielo, e il suo regalo era stato donarmeli sani, liberi dalla fastidiosa miopia con cui lui guardava il mondo. Per me era un amico, e infatti raramente lo chiamavo papà. Mi piaceva chiamarlo per nome. «Giulio!», avevo esclamato fin da piccola. «Giulio, gioca con me!»; «Giulio, insegnami ad andare in bicicletta!».

    Mi piaceva chiamarlo per nome soprattutto perché lo faceva anche mamma, e io non volevo sentirmi da meno.

    Ero sempre stata un po’ gelosa del suo infinito amore verso mia madre, Stella. Spesso, da bambina, mi ero messa in competizione con lei, ma, ahimè, avevo sempre avuto la percezione di quanto fosse inutile impegnarmi nell’impresa: Giulio amava mia madre più di quanto Romeo avesse mai amato Giulietta.

    Che noia, quel loro amore così esclusivo… Sembravano saltati fuori da un Bacio Perugina, avvolti da una copertina di frasi sdolcinate. Una mattina li avevo osservati scambiarsi un bacetto nel corridoio. Ma quale bacetto! Erano appiccicati in modo disgustoso e si vedevano le loro lingue vorticare furiosamente. Dopo vent’anni di matrimonio, comportarsi così, davanti a me… Ogni occasione era buona per professare a tutti il loro amore e raccontare del modo incantevole in cui si erano incontrati; un’ora o poco più era bastata a renderli inseparabili. O almeno è ciò che andavano dicendo sempre in giro.

    Per me l’amore non esisteva. Punto e basta.

    Certo, ogni tanto mi lanciavo in qualche storia fugace, mi cullavo nell’inganno di sentirmi attratta da qualcuno con cui scambiavo anche qualche effusione di troppo, ma praticavo il sesso con discernimento, in modo che il rispetto verso me stessa e la mia dignità non fossero scalfiti.

    Mi ero sempre tenuta ben distante da quello stupido intorpidimento della mente e del cuore che si chiama amore. Se si esclude quello che riservavo ai componenti della mia famiglia: li amavo tutti, in modo assoluto.

    Chissà se mia nonna Felicia la pensava come me quando aveva la mia età!

    Mia madre mi diceva sempre che era stata una donna forte e volitiva, testarda e tenace, sicura di sé, eccentrica e stravagante, bizzarra quanto bastava a renderla unica… e mi piaceva rivedermi in lei in ogni sfumatura. Tuttavia affermava anche che le piaceva parlare d’amore, vivere in sua funzione e forse, per il momento, questa era l’unica differenza che ci divideva.

    A proposito, dovevo darmi una mossa, Francesco mi aspettava, ignaro di tutto, al bar di via Cola di Rienzo. Decisi di attraversare Ponte Sant’Angelo.

    Fin da piccola, con la mano stretta in quella di mia madre, avevo imparato ad apprezzare Roma in ogni sua sfaccettatura, percorrendo luoghi incantati, vicoli e scorci caratteristici. Nonostante fosse da sempre la mia città, non smettevo di guardarmi attorno come se si rivelasse ai miei occhi per la prima volta. I giardini di Castel Sant’Angelo mi sembravano un paradiso terrestre. Mi aspettavo che, da un momento all’altro, Adamo sbucasse attraverso i rami di un albero, e immaginavo la sua Eva su una panchina, seduta nuda, ma composta.

    Eva, al contrario di Adamo, aveva sempre suscitato la mia simpatia.

    Passai di fronte al Palazzaccio; povero architetto suicidatosi all’inizio del 1900! Pensava di aver commesso un errore nei piani di costruzione, e invece eccolo lì, il Palazzo di Giustizia, saldo e impressionante nel monito che si recepiva guardandolo. Giulio, o meglio papà, il mio personalissimo maestro di storia, lavorava lì: faceva l’avvocato ed esercitava alla Corte di Cassazione.

    Pochi minuti ancora e avrei raggiunto la meta. Svoltai l’angolo con l’aria più eterea e rilassata possibile e lo vidi, Francesco, stravaccato su una sedia del bar, davanti a un caffè fumante, con la sigaretta in bocca e una frangia infinita che gli copriva mezza faccia. Non avevo mai capito se si formasse da sola o fosse il risultato di ore di applicazione. Tutto sommato, quella frangia non mi aveva mai convinto, eppure, con una certa riluttanza, dovevo ammettere che trovarmelo di fronte mi faceva un certo effetto. Carino era carino, inutile convincersi del contrario, altrimenti non lo avrei frequentato per tre mesi, nonostante i suoi plateali atteggiamenti da sbruffone e provolone patentato. Ma Francesco avrebbe dovuto giocarsela meglio, impegnandosi per diventare indispensabile, per cercare di farmi innamorare di lui e, insomma, tutte quelle cazzate di cui sentivo parlare costantemente a casa mia. Amore, amore, amore. Bah.

    Invece era sempre stato presente quanto bastava e assente al punto giusto, tanto da rendersi inutile nella mia vita. La telefonata di quella mattina con Clem aveva messo la parola fine al mio ennesimo tentativo di ricredermi sull’amore.

    L’amore non esisteva. Giulio e Stella erano venuti da Marte e tutti i loro simili si erano estinti come i mammut lanosi durante l’era glaciale. Praticamente impossibili da reperire.

    Sfoderai un sorriso affascinante, altro dono di mio padre, e mi avvicinai con l’intento di stenderlo.

    «Ciao!», gli sussurrai baciandolo sulle labbra. Volevo confonderlo e dirgli addio a modo mio.

    «Ehi, sei stupenda!».

    «Grazie, anche tu non sei male». Sorrisi e mi accomodai di fronte a lui. Accavallai le gambe lentamente.

    «Allora? Cosa devi dirmi di così importante da non riuscire ad aspettare stasera? O da non potermelo confessare al telefono?». Accennò un sorriso, fece un tiro di sigaretta e si sbracò ancora di più sulla sedia. Accavallò a sua volta le gambe. Le scarpe da ginnastica vissute, i lacci penzoloni, i calzini arricciati sulle caviglie, i jeans strappati, una mano tra i capelli e la sua bocca intenta a formare anelli di fumo in aria mi confusero un attimo. Caspita se era carino…

    Niente panico. Sono una vincente. Non vacillerò. Sono convinta di ciò che sto per fare. Non rinuncerò alla mia dignità per la smania di baciarlo ancora.

    «Voglio lasciarti, e mi spiaceva farlo al telefono, o rimandare a stasera. Era giusto guardarti in faccia e informarti il prima possibile».

    «Ah!», esclamò lui raddrizzandosi sulla sedia. «E si può sapere il motivo?», mi incalzò.

    «Divergenze di opinione. Per te è normale comportarti da idiota. Per me no. E ora scusami, devo scappare perché sta arrivando mio fratello, mia madre mi ammazza se faccio tardi a pranzo». Mi alzai e sentii le gambe tremarmi.

    «Mi hai fatto venire fino a qui per dirmi due parole in croce e poi andartene? Ma che stronzata! E perché sarei un idiota? Sentiamo!».

    Come se non lo sapessi!, pensai infuriata mentre già gli voltavo le spalle.

    «Non hai il coraggio di spiegarmelo? Io direi che non hai trovato una scusa migliore!», continuava a urlare nella mia direzione. Dopotutto sembrava parecchio turbato dalle mie parole. «Allora? Scappi?». Non smetteva di provocarmi.

    Sentii un’ondata di adrenalina scorrermi nelle vene. Sarei voluta tornare indietro per sbattergli in faccia la verità. Avrei voluto raccontargli di tutte quelle sere in cui avevo aspettato invano la sua telefonata, di quando lo avevo visto flirtare con altre davanti a me, di Clem che mi aveva avvertito ancora una volta di quanto fosse stronzo. Ma avrei perso. Avrei perso due volte. Oltre a lui, anche la mia dignità.

    Camminai più veloce che potei, e presto le sue urla divennero silenzio e vento.

    Arrivai sotto casa senza neanche accorgermene, presa com’ero a immaginare la conversazione che avrei potuto intraprendere con Francesco se fossi tornata indietro.

    Avevo le dita dei piedi indolenzite, e la familiare sensazione di essermi liberata di un fardello.

    Un fardello che, tutto sommato, mi sarebbe mancato.

    Cercai le chiavi nella borsa e controllai l’ora sul cellulare: 13:10.

    Un messaggio:

    Si può sapere cosa ho fatto?

    Nulla. È questo il punto, risposi di getto.

    Entrai in ascensore e mi specchiai. Dio mio, quella luce avrebbe donato un colorito cereo persino a Jennifer Lopez.

    Sul pianerottolo di casa fui accolta da un familiare incantesimo di voci sovrapposte.

    Mio fratello era a casa. Che gioia! Me lo sarei goduto per due giorni interi.

    Inserii le chiavi nella serratura e spalancai la porta.

    Lo trovai sequestrato dall’abbraccio caldo di mia madre, mentre mio padre, in piedi, impaziente, aspettava il suo turno. Tutto ciò accadeva ormai da otto mesi, da quando Pietro, terminato il liceo, si era trasferito a Perugia per intraprendere gli studi di veterinaria. Era stato il suo sogno da sempre; da quando mia madre lo aveva trovato intento a riattaccare con lo scotch la coda a una lucertola, da quando Oscar, l’ultimo bassotto di casa – morto di vecchiaia a un passo dall’eternità –, gli aveva dato la prima leccata sulla faccia e lui aveva riso per un’ora intera.

    Adoravo mio fratello, nonostante fossimo così diversi, sia esteticamente che caratterialmente. Di sicuro, l’aver diviso lo stesso spazio per nove mesi ci aveva uniti in modo indissolubile e resi ciechi, talvolta semplicemente tolleranti, verso i nostri rispettivi difetti.

    Fin da piccoli, ci eravamo intesi con uno sguardo e, ormai adolescenti, quando la famiglia inizia a diventare un ostacolo alla libertà, ci eravamo ritagliati i nostri spazi uscendo insieme. Dividevamo amici, passioni e divertimento, non sottraendoci a qualche lite di rito, dettata quasi sempre dalla sua gelosia nei miei confronti. Mi attribuiva una malizia che, a suo dire, mi rendeva la facile preda di ogni essere umano di sesso maschile. E, in effetti, sulla malizia non aveva tutti i torti. Mi divertiva sorridere ambiguamente, lasciando intendere chissà che, o tenere lo sguardo fisso negli occhi del mio interlocutore quel secondo di troppo che disorientava. Forse la cosa più divertente era proprio la reazione di mio fratello. Comunque nessuno mi avrebbe mai sfiorata senza validi e solidi motivi, derisa o presa in giro, condotta in luoghi di dubbia fama eludendo il suo sguardo vigile. In realtà, a sua insaputa, avevo sempre trovato il modo di esplorare la vita come più mi piaceva. Quando avevamo compiuto diciotto anni, si era sbrigato a prendere la patente per assicurarsi che io desistessi dal farlo e che – cosa non meno importante – grazie alla sua guida metodica e attenta, io restassi sempre al sicuro da ogni tipo di avversità: vento, pioggia, freddo, macchie d’olio sulla strada. Quando si era trasferito a Perugia, mi ero sentita finalmente libera. Triste, ma libera. Poco dopo avevo già la patente tra le mani, quasi come una forma di rivalsa nei suoi confronti. Di fatto, non avevo una macchina e solo raramente usavo quella di mia madre. Preferivo di gran lunga le mie gambe e la mia bicicletta rosa e, a volte, approfittavo dell’amorevole passaggio di qualche amico. D’altronde mio fratello non poteva vedermi…

    Guardai Pietro. La barba incolta, i capelli più lunghi.

    «Ciao, Tita!», esclamò appena riuscì a liberarsi dalla morsa calorosa di mia madre. Di solito lo incastrava dai due ai cinque minuti. A me tutte quelle smancerie non le aveva mai fatte… ma lui era il cocco di casa.

    Mi chiamava ancora così, Tita, come quando mi presentavo da bambina, incapace di pronunciare il mio nome. Ok, va bene, mi chiamavano ancora tutti così, ma solo con lui fingevo di prendermela. In compenso mia madre adorava chiamarmi Felicia: «Così, ogni volta che la nonna sente pronunciare il suo nome, le sue ali diventano ancora più grandi, belle e maestose!», diceva sempre con aria sognante. E a me veniva da ridere immaginandola volare tra le nuvole, con le ali più bianche e sconfinate del paradiso.

    «Ciao, Noè, l’arca dove l’hai parcheggiata?», chiesi sarcastica a mio fratello, prima di saltargli al collo.

    «E questa tutina attillata a chi l’hai rubata? A Catwoman?», ribatté lui con il volto tra i miei capelli.

    «Ancora con questa storia? Io mi vesto come mi pare!», risposi alzando un po’ la voce.

    «Non cominciate subito a punzecchiarvi…», ci riprese mia madre. Conoscendoci, quel reiterato battibecco sarebbe durato all’infinito.

    «Tu sei Tita, la mia sorellina, e ogni tanto vorrei vederti indossare qualcosa di ampio!», esclamò Pietro trattenendosi dall’infierire con maggiore enfasi.

    «Come no, continua a sognare!». Lo allontanai con una spinta. Lui mi braccò e iniziò a farmi il solletico dappertutto. Lo odiavo, a volte rischiavo di morire per le troppe risate…

    Mamma ci guardò compiaciuta e, volando a mezzo metro da terra, si diresse in cucina. Pietro mi lasciò respirare e, soddisfatto, si eclissò in camera sua.

    Mentre aiutavo mio padre ad apparecchiare, lo sentii sospirare rumorosamente; dopo uno sguardo più attento del solito, diede sfogo alle sue considerazioni: «Certo che tuo fratello ha ragione… hai tutte le curve… strizzate… io non lo so…». Scosse la testa e continuò a sistemare i piatti, come a voler nascondere il disagio per aver davvero pronunciato quelle parole.

    «Giulio, non fare il bacchettone, dài, e poi devo trovarmi un nuovo fidanzato…».

    «E quel Francesco che ti piaceva tanto?», si affrettò a domandarmi.

    «Acqua passata».

    «Da quando?».

    Guardai l’orologio. «Da un’ora circa». Inarcai le sopracciglia e sorrisi.

    «Hai sentito tua figlia? Vuole

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