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Qualcosa che so di me
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E-book189 pagine2 ore

Qualcosa che so di me

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Info su questo ebook

Antonello Vanni vive una vita al limite, al limite di molte cose. E inizia il racconto di quel che sa di sé dall’evento più traumatico della sua esistenza, quello che lo ha segnato per sempre: la reclusione in carcere per un crimine non commesso. 
Ne uscirà in un tempo relativamente breve, perché all’epoca la carcerazione preventiva poteva durare anni. Ma anche un giorno in prigione è troppo e lui non sarà più lo stesso.
Senza veli l’autore racconta i tratti salienti della sua vita: le sue dipendenze da droghe e sesso, la ludopatia, la passione per i viaggi e per il Brasile in particolare, gli amori e le amicizie, il figlio, i mille lavori che ha fatto e in cui è sempre riuscito bene, gli incontri con boss della malavita e con personaggi importanti dello spettacolo e della politica.
Insomma, una vita piena tra continue cadute e rinascite che Vanni ha vissuto e vive appieno in cerca del vero amore…

Antonello Vanni nasce a La Spezia nel 1960.
La passione per la scrittura lo accompagna sin dall’adolescenza, rivelando da subito una forma molto spesso introspettiva e rivolta dapprima a componimenti poetici. 
Pubblica la sua prima raccolta di poesie Pro/fumo di Libertà (Aletti Editore) nel 2016 e, a seguito di un discreto successo, ne autoproduce un secondo, Pro/fumo di Rosa (ILMIOLIBRO) nel 2017, e un terzo, Sussulti dell’anima (Del Bucchia Editore) nel 2018.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788830631519
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    Qualcosa che so di me - Antonello Vanni

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    Antonello Vanni

    Qualcosa che so di me

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2692-8

    I edizione novembre 2020

    Finito di stampare nel mese di novembre 2020

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Qualcosa che so di me

    PREMESSA

    L’infanzia per me ha colori in bianco e nero. Nel senso positivo intendo, di quando le cose erano più semplici e certi valori esistevano ancora.

    Sono di umili origini, mio padre un fondatore della Cooperativa Portabagagli, spezzino verace, biasseo per chi ha conoscenza di questa provincia, mia madre napoletana trapiantata qui.

    Terzo di tre figli, nati per caso a distanza di sei anni l’uno dall’altro. Sì, per caso, è il caso di dirlo, in quanto io non ero nei programmi.

    Erano anni difficili, i miei venivano dalla seconda guerra mondiale, tempi di fame e carestia e, date le umili origini di entrambi, anche di mancata istruzione scolastica.

    Mio padre, figlio di contadini e di un padre padrone, scappo’ di casa per arruolarsi nelle camicie nere a soli diciassette anni come volontario, salvo poi, una volta di guardia alla polveriera, dar libero accesso ai partigiani per farli armare.

    Per questo si ritrovò davanti al plotone di esecuzione quando, come in una delle migliori trame di un film, arrivò un ufficiale tedesco che chiedeva manodopera per i campi tedeschi ai confini della Polonia, più specificamente elettricisti, e fu così che mio padre, pur non sapendo distinguere una presa da una prolunga, fece un passo avanti e si ritrovò deportato.

    Furono anni drammatici, mio padre rientrò fuggendo, dalla Polonia a piedi. Ma vi sarebbe stata poi la dura appendice dell’altrettanto drammatico dopo guerra.

    Ma questa è storia risaputa, arrivarono i mitici anni ‘60, e proprio il 60 è l’anno fatidico ove, per caso o disegno divino, venni alla luce.

    I primi miei ricordi affiorano lieti, il calore ed il senso della famiglia, le vacanze natalizie trascorse nella magia di una città come Napoli, dove la tradizione è profondamente radicata ancora ai giorni nostri.

    I ricordi si accavallano e si mischiano comunque in caroselli di eventi gioiosi dove l’amore è sempre la cornice di quei dipinti.

    La voglia di conoscenza innata in me mi faceva già allora, un bambino precoce e controcorrente. Ricordo ancora il mio primo giorno di scuola e la mia felicità per essere finalmente diventato uno scolaro.

    Timido, riservato, sempre attento alle lezioni, fecero di me uno scolaro modello sino alla soglia della seconda media, quando, per uno stupido diverbio avuto con la mia allora Prof di scienze e matematica, cominciai a disamorarmi in qualche modo di quel luogo di apprendimento che divoravo con la stessa famelicità di una fiera affamata.

    Quell’anno fui rimandato in due materie, una volta usava così, e passai in campagna un’estate durissima, dove trascorrevo due o tre ore al giorno nel cercare di applicarmi sui libri ed imparare concetti quasi a memoria.

    Fu quella la prima e l’ultima volta in cui appresi studiando sui libri.

    Non per questo in seguito non fui un assiduo lettore, amo leggere, ma altra cosa è l’apprendimento di materie scolastiche.

    Sono, e lo divenni da subito in pratica, un autodidatta, la natura mi ha regalato qualità di apprendimento straordinarie, solo prestando attenzione al professore o al relatore di turno, senza mai dover poi ricorrere a rileggere la lezione sui libri di testo.

    Tutto ha un principio, ma per comprenderne il nesso, molte storie necessitano di una premessa che riguarda la fine. Io sono un uomo qualunque all’apparenza, ma nei fatti, un uomo speciale. In qualche modo l’ho sempre saputo, quando fin dalla più tenera infanzia avevo quella che è molto più di una sensazione, praticamente una certezza: mi sentivo diverso. Non capivo il perché allora, e tutto questo mi ha creato molti problemi con il mio io. Timidezza e insicurezza sono stati i primi ostacoli, pensavo di avere qualcosa in meno... non sapevo di avere molto di più.

    È solo da un paio di anni che ho scoperto di essere affetto dalla Sindrome di Asperger, una rara, ma soprattutto occulta e difficilmente diagnosticabile, ancora ai nostri giorni, forma di autismo.

    A chi vorrà leggermi, vorrei anticipare che questa è una sorta di autobiografia, ma che nel leggerla, molti avranno modo di ritrovarvisi, chi in alcuni punti, chi in molti, forse qualcuno in nulla. Ma anche questi ultimi godranno del piacere di una lettura che, per quanto autobiografica, ha trame romanzesche.

    Questo prologo è dovuto per spiegare, almeno in parte, come nasce l’idea di una sorta di biografia romanzata.

    Capitolo I - L’INCUBO

    30 Agosto 1979

    «Antonello, ci sono due signori alla porta che chiedono di te, dicono di essere della polizia». Fu un lasso di tempo così breve, ma talmente intenso, che sembrò durare una vita.

    Mi alzai da letto, era circa l’ora di pranzo, ma a quell’età e soprattutto nel periodo estivo, non era raro fare le ore piccole la sera per poi prolungare il sonno sino a tardi, soprattutto se si è perso il lavoro da pochi mesi.

    Mentre mia madre continuava a chiedere spiegazioni, visibilmente preoccupata e già provata dagli accadimenti di pochi mesi prima, io tentavo, ancora frastornato dal brusco seppur tardivo risveglio, a cercar di mettere ordine ai miei pensieri.

    Il 5 marzo dello stesso anno era iniziato una sorta di calvario.

    Con l’accusa di rapina aggravata era stato arrestato un mio vecchio compagno d’infanzia e in conseguenza di quei fatti, alla ricerca di eventuali complici, erano state ordinate perquisizioni ed interrogatori. Io fui tra i primi indagati, vista l’amicizia, e sottoposto a tali provvedimenti, vittima di estenuanti ore trascorse in caserma dai carabinieri dapprima, ed in seguito, qualche mese dopo, anche convocato presso il tribunale, dove un cazzuto e inferocito PM si era accanito su di me nella convinzione di una mia complicità nei reati contestati all’amico d’infanzia.

    Alla fine di quell’interrogatorio, il PM, talmente convinto di tale colpevolezza, mi congedò, tra lo stupore del vecchio legale che mi assisteva, alzandosi e urlando Vanni, lei mi sta prendendo per il culo, ma appena ne avrò l’occasione, io le farò un culo così!, facendo letteralmente volare la sedia su cui era seduto, e sbattendola con una violenza inaudita contro il muro. Fuoriiiii, vada fuori di qui!.

    Il susseguirsi di queste vicende mi sconvolsero, procurandomi un forte esaurimento e, come se non bastasse, la perdita del lavoro. Fu con un fare pretestuoso della titolare della tipografia, che non gradendo le indagini svolte anche in quella sede dove avevo mansioni di tipografo compositore da tre anni, (svolgendo, pur avendo la qualifica ancora di apprendista, già mansioni di operaio di primo livello, il massimo traguardo del settore, che nella norma si consegue in non meno di nove), che mi ritrovai disoccupato.

    Non mi diedero neanche il tempo di sciacquarmi il viso e alla richiesta di quale fosse il motivo per cui venissi prelevato con la forza dal mio domicilio ebbi una risposta tanto formale quanto laconica: si tratta di una formalità. Varcata la soglia di casa per incamminarmi con essi, mi ritrovai con i due tutori della legge schierati e pronti ad afferrarmi stretto sotto braccio.

    Giunti alla questura centrale mi misero le manette senza dare nessuna spiegazione né risposta ai miei perché mi caricarono in macchina ammanettato sotto gli occhi attoniti ed atterriti di mia madre e di mio padre che erano giunti al seguito pensando di riaccompagnarmi a casa in tempo ancora utile per il pranzo. Meno di un quarto d’ora dopo, all’età di diciannove anni varcai per la prima volta le porte del carcere.

    Il carcere è un’esperienza devastante e solo la malvagità umana avrebbe potuto concepire una tale condizione e questo sarà un concetto che ripeterò più volte.

    Fu Albert Eistein il primo a definirlo con una metafora: Un topo non avrebbe mai concepito una gabbia per topi.

    Le pesanti porte si aprivano davanti a me una dietro l’altra, ne contai sette prima di giungere all’ultima. Le enormi chiavi, ognuna destinata ad una serratura diversa, erano già di per sé inquietanti, ma il rumore, il clangore che udivo ogni qualvolta mi si chiudeva una di quelle porte alle spalle era una coltellata. E quel rumore mi appartiene ancora oggi e forse per il resto della vita. Giunto d’innanzi alla cella d’isolamento che mi venne assegnata mi vennero tolte le manette, altro strumento perfido di tortura, in quanto ad ogni movimento scomposto tendono a serrarsi in una morsa sempre più stretta sino a segnarti le carni. Mi venne aperto un piccolo portoncino blindato di almeno quindici centimetri di spessore che dava su un anti cella per poi giungere ad un cancello a sbarre che a sua volta si apriva su di uno spazio tanto angusto da permettermi di muovermi solo di fianco.

    L’arredo si completava con due muretti che separavano il letto da una tazza turca e da un lavandino. Sullo sfondo, un enorme finestra con sbarre di un centimetro almeno di diametro.

    La finestra aveva vetri rotti, poi in seguito scoprii il perché: il lavandino non aveva il tubo che collegava lo scarico al muro. Risultato, per potermi lavare anche solo la faccia, si allagava la cella. A quei tempi il codice penale in corso di legge prevedeva sino a dodici anni di carcerazione preventiva, e l’isolato aveva diritto ad un’ora d’aria al giorno, non vi era obbligo di interrogatorio di conferma in tempi certi e definiti, ma solo a discrezionalità del giudice.

    Trascorsi quattordici giorni in isolamento, interrotto solo da un’ora d’aria per un giorno, e altre due mezze ore in altri due.

    Il carcere è condizione dura e in qualche modo anche necessario (forse andrebbero riviste alcune norme o quantomeno applicate), il tempo si dilata e se ne perde la cognizione, vi sono momenti che non sai più se è passato un giorno, un mese oppure un anno. La mente rischia di fuggire via, e non è difficile, anzi è consuetudine, ripetere o sentirsi ripetere più volte la stessa storia. Unica possibilità, unica ancora di salvezza è quella di impegnare i pensieri, optando per una sorta di dicotomia, una dissociazione da se stessi.

    Iniziò da lì la mia prima stesura di quello che sto scrivendo.

    I ricordi dei tempi trascorsi aiutano, e fu così che iniziai, creando, proprio come in un libro, i vari capitoli, dedicandone ognuno ai più cari vecchi compagni di avventura. Non potei che iniziare dal mio amico che era imputato di quei reati per i quali mi venivano attribuiti dei concorsi in correità.

    Capitolo II - FRANCO

    Era un ragazzo molto intelligente, un curioso, uno con molte idee, diversi interessi. Veniva da una famiglia semplice, il padre un ex carabiniere, passato poi alla più tranquilla mansione di bibliotecario, la madre una donna di altri tempi, casalinga e madre di tre figli, tutti maschi.

    Franco era il terzogenito, studente, i suoi fratelli, Michele, lavoratore, già sposato, il più tranquillo, e poi Enzo, il primogenito, sposato anch’egli, un mestiere in mano, aveva la qualifica di idraulico, ma anche il più fuori dalle regole.

    Aveva già conosciuto la prigione, erano i tempi delle sempre più frequenti rapine in banca, e lui aveva questo pallino.

    Non saprei dire se e quanto Enzo poté mai influenzare l’inconscio di Franco, sta di fatto che, pur frequentando un liceo e avendo regole rigidissime da parte della famiglia (non poteva rincasare mai dopo le ventidue), decise di seguire le orme del fratello e la mattina, prima di recarsi a scuola, andava a compiere rapine.

    La prima la compì a diciannove anni e fu in un ufficio postale.

    Ne seguirono altre due nel giro di due o tre mesi, alla terza venne arrestato.

    Quello fu il mio primo vero trauma; fu Giuliano, un amico comune, che venne la sera a suonarmi a casa per avvisarmi di quello che poi lessi il giorno dopo sulle prime pagine dei giornali sulla cronaca locale.

    Franco si trovava già detenuto in quello stesso carcere, e per una fortuita coincidenza, vi era in transito anche il fratello Enzo che, come già risaputo, era ormai un abitudinario e stava scontando una delle tante condanne che lo accompagnarono per molti altri anni futuri.

    Erano trascorsi quasi sei mesi da quando era stato arrestato e durante tutto quel tempo non vi erano stati ulteriori sviluppi nelle indagini investigative, al punto che egli stesso confidava in una scarcerazione a breve, magari anche in libertà provvisoria, domanda che aveva già inoltrato tramite il legale, ma il mio arresto, concomitante con un altro coimputato, tale Pernice, ne allontanavano le speranze di buon fine.

    Fu per questo che tutto precipitò.

    Radio carcere corre rapida, e in men che non si dica ebbi notizie di Franco tramite un ragazzo che lavorava come assistente alla cucina del carcere e che quindi aveva modo e agio di muoversi, sempre sotto l’egida della direzione carceraria, anche tra gli isolati per distribuire il vitto.

    Walter, questo era il suo nome, mi portò i saluti di Franco, con cui al momento condivideva la cella assieme ad altri tre compagni in sezione e mi raccomandò di non accettare il vitto fornito dalla casa, ma di attendere quello che mi avrebbe portato lui, cucinato e preparato da loro.

    Nell’accomiatarsi cercò di rassicurarmi, dicendomi che Franco era sconvolto per questo mio arresto e che aveva già chiesto un’udienza con il PM per chiarire la mia posizione di assoluta estraneità a tutta la vicenda e che molto presto tutto si sarebbe chiarito. Insomma di stare tranquillo.

    Non si poté trattenere molto, le guardie controllavano severamente anche le tempistiche. Passò oltre e dopo aver servito una sorta di brodaglia bollente al mio vicino ed al mio diretto dirimpettaio, si avvicinò al portoncino blindato anche di quel tal Pernice.

    Personaggio che io a malapena conoscevo di vista, ma siccome si era già sparsa la voce che era stato arrestato in seguito ad

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