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Le maschere rosse di Montevideo
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E-book202 pagine2 ore

Le maschere rosse di Montevideo

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LE MASCHERE ROSSE DI MONETEVIDEO

"Va piano quando sei sulle rocce"

- Proverbio uruguaiano

Le maschere rosse di Montevideo è un racconto che ripercorre la storia del piccolo stato del Sud America noto come Uruguay. Dai primi anni degli insediamenti spagnoli nel sedicesimo secolo ai giorni nostri nella Montevideo degli anni '70, quando il paese stava attraversando un violento periodo di tumulti politici. Si tratta di una storia di passione e massacro, delle sue genti e dei suoi luoghi, delle leggende che hanno plasmato la psiche di una nazione dipinta sulla tela del tempo che scorre. 

Se davvero desideri capire l'Uruguay, allora questo libro fa al caso tuo.
 

LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2020
ISBN9781071579831
Le maschere rosse di Montevideo
Autore

James Dargan

James Dargan was born in Birmingham, England, in 1974. Coming from an Irish background, he frequently writes about that experience. As well as England, he has also lived in the United States, Ireland, and - for the best part of fifteen years - in Warsaw, Poland, his home from home from home.

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    Anteprima del libro

    Le maschere rosse di Montevideo - James Dargan

    L’UFFICIO

    Pietro Abate, detto ‘Peter’, aveva accettato il lavoro per capriccio. Cresciuto ad Allentown, in Pennsylvania, l’agente di origini italiane si era unito alle forze di polizia non appena uscito dalle superiori, facendosi strada da solo. Seguì l’FBI, per conto della quale trascorse alcuni anni in Austria e a Berlino Ovest pedinando i membri della Stasi, alle dipendenze della Direzione per la Cooperazione Internazionale. L’incarico successivo lo portò in Brasile. Poi, nel 1964, ad Asunción, capitale del Paraguay, dove Abate, durante una rapina, venne ferito da un colpo d’arma da fuoco e lasciato in fin di vita. Ebbe fortuna: se la cavò con un polmone perforato e un’escoriazione sul collo.

    Ciononostante, le sofferenze non mancavano mai di essere ricompensate e, grazie ai risultati nel continente, venne distaccato in Uruguay per supervisionare, per conto dell’Ufficio per la Sicurezza Pubblica segreto, OPS in breve, la lotta del Partito Colorado, guidato dal Presidente Jorge Pacheco Areco, contro il movimento di guerriglia urbana di sinistra.

    Abate aveva portato con sé la sua famiglia, la moglie di vent’anni e tre figli piccoli. Per l'italoamericano, Montevideo era un paese delle Meraviglie latino, molto simile alla sua città di origine, Cagliari, in Sardegna.

    Trascorse due settimane dal suo arrivo aveva già trovato una casa in cui vivere e delle scuole per i bambini. Ora, però, era pronto per affrontare il suo primo giorno di lavoro.

    La sede principale dell’Ufficio per la Sicurezza Pubblica era un edificio poco appariscente situato in di una stradina che dava sul Boulevard España nel centro di Montevideo. Era lì per incontrare il Capo dell’Intelligence della Polizia uruguayana, Pablo Portero, suo superiore per tutta la durata della sua permanenza nel paese Sudamericano.

    L’inglese di Portero era eccellente, per questo motivo la comunicazione tra loro non avrebbe mai rappresentato un ostacolo. Diplomato all’Accademia di Polizia della capitale, Portero era stato per un periodo a Washington D.C. e poi in Texas per apprendere le tecniche avanzate di controguerriglia. Il suo governo era in lotta con il Movimento di Liberazione Nazionale, MLN-T, noto come i Tupamaros. 

    L’Uruguay, un tempo una delle maggiori potenze economiche dell’America Latina, era caduto in declino nell’ultimo decennio. Nel tentativo di arrestare l’inflazione, il Presidente Pacheco aveva imposto il blocco dei salari. Inoltre, all’esplodere delle vertenze sindacali che coinvolgevano i lavoratori e gli studenti dell'intero paese aveva dichiarato lo stato di emergenza.

    Il governo aveva perso il controllo - e così anche Portero e le sue forze di polizia. Bisognava fare qualcosa. Ecco perché avevano chiesto l’intervento degli americani: per ripulire una volta per tutte la capitale dagli insorti.

    L’autista dell’OPS, Manuel Flores si era recato, a bordo della sua Ford Falcon Sedan nera, a prendere Abate nella sua villetta di quattro camere nel quartiere di Pocitos alle nove in punto. Come Portero, anche Flores parlava un ottimo inglese.

    Salve Manuel, disse Abate a Flores che aspettava alla porta.

    Buongiorno signore, rispose Flores.

    Flores conosceva la strada. Fecero la maggior parte del tragitto in silenzio.

    Le strade di Montevideo brulicavano di furgoni della polizia e di agenti muniti di pistole e manganelli. Le persone vivevano nella paura di essere rapite, sia dalla polizia che dai guerriglieri. La guerriglia urbana era brutale, ma come sempre, erano i cittadini a sentirne il peso maggiore.

    Flores fece il suo ingresso nell’edificio seguito da Abate. L’autista lo condusse su per le scale da Portero.

    Il Signor Portero è qui dentro, disse Flores prima di sparire.

    Abate bussò alla porta.

    Avanti, rispose Portero in spagnolo. L’americano entrò. Oh Mr. Abate, ce l’ha fatta, aggiunse in inglese. Portero appoggiò il mate, bevanda nazionale degli uruguaiani, e la bombilla, una cannuccia di metallo. Prego, entri pure e si sieda.

    Nonostante Portero indossasse abiti scuri da civile dava comunque l’aria di essere dotato di un certo potere.

    Si strinsero le mani.

    Portero aveva già incontrato Abate in altre occasioni, una delle quali era stata la conferenza internazionale sulla sicurezza nella capitale brasiliana di Brasilia due anni prima. 

    Gradisce qualcosa da bere? chiese Portero.

    No, grazie.

    Le piace?

    "Che cosa?"

    Il suo ufficio

    "É il mio ufficio?" aveva risposto Abate con una certa sorpresa. 

    Sì... lo so è un po’ scarno al momento, ma le farò avere tutto ciò di cui ha bisogno, una macchina da scrivere, uno schedario, la cancelleria, cose del genere.

    "Una segretaria?" disse Abate guardandosi attorno con trepidazione. A Rio i brasiliani erano stati più accomodanti riservandogli un ufficio degno di un re.

    So che crede che non sia molto, ma vede, la sua presenza qui non deve dare nell’occhio e...

    Non capisco. lo interruppe Abate.

    Il suo governo non vuole che nessuno sappia che ci sta aiutando.

    Ho già parlato con il segretario personale di Byron Engle, Luke Millington: mi ha detto che il Direttore dell’USAID ha dato l’ok a procedere."

    Lo ha fatto.

    L’OPS era sotto il controllo dell’USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale.

    Ma lei sa com’è nel suo paese, Mr. Abate, le cose non sono mai come sembrano.

    Quando si trattava di prendere una decisione l’ultima parola spettava a Richard M. Helms, Direttore della CIA.  

    Che teste di cazzo, disse Abate, riferendosi ai suoi capi a Washington D.C. 

    C’è un detto qui nel mio paese, Mr. Abate, e credo che finché sarà qui debba tenerlo a mente.

    E quale sarebbe? chiese Abate, sollevando la bombilla di Portero dal mate.

    Le galline appollaiate in alto cagano su quelle che stanno sotto.

    Non credo di capire.

    Oh, andiamo Mr. Abate, disse Portero allontanandogli la bombilla, lei è un uomo intelligente e scaltro. Il suo governo non l’avrebbe mai mandata qui altrimenti...Ora, la lascio a prendere confidenza con il suo nuovo ufficio. Dirò a Manuel di aspettare fuori. Sa che è a sua disposizione, vero?

    Significa che non avrò la mia auto personale?

    Temo di no.

    Non sapevo che facesse parte dell’accordo.

    Meglio che ne parli coi suoi superiori a Washington allora, Mr. Abate.

    Credo che seguirò il suo consiglio.

    Portero si diresse verso la porta, la aprì, e disse mentre se ne andava:

    "Oh, mia moglie ed io daremo una festa sabato sera. Vorremmo invitarvi...lei e sua moglie, giusto?"

    Temo che abbiamo già preso degli impegni improrogabili per questo fine settimana.

    Bene. Portero accese una sigaretta. Allora, a domani.

    "E per quanto riguarda la segretaria?"

    Vedremo.

    Portero lasciò la stanza. 

    "E si assicuri sia bilingue!" urlò Abate.

    L’ufficio fu il suo primo rimpianto: gli uruguaiani non avevano intenzione di piegarsi agli americani a differenza quanto aveva fatto l’amministrazione brasiliana sotto il Presidente Castelo Branco, che aveva ricoperto con vino, donne e canzoni gli agenti americani inviati ad addestrare la polizia nella soppressione dei rivoluzionari contro il regime. 

    Quello era il passato, e questo era il presente: Abate avrebbe fatto meglio ad abituarcisi.

    IL SOPRAVVISSUTO

    La caravella di quindici metri capitanata dal capo della navigazione Juan Díaz de Solís, stava navigando sul fiume da giorni. Si trovava vicino alla confluenza di quelli che un giorno sarebbero stati i fiumi Uruguay e Paranà, dopo aver navigato sul Río de la Plata, che De Solís aveva già nominato in onore della propria finanziatrice, la Regina Giovanna di Castiglia - da quello stesso anno regina anche dell’Aragona. Erano già entrati in contatto con una tribù locale, i Charrúa: alcuni erano stati felici di vederli, altri meno.

    "Cosa crede che dovremmo fare capitano?" chiese il luogotenente Pedro Durán, suo secondo in comando, mentre guardavano oltre dalla prua della nave.

    Andare avanti - che altro?

    Durán era il più cauto tra i due. Avevano già perso trenta uomini più a valle. Ora i due ufficiali e undici ‘conquistadores’ pesantemente armati stavano correndo il rischio più grande da quando erano salpati mesi prima da Sanlúcar de Barrameda in Spagna. Il compito di Díaz de Solís era quello di esplorare le estremità più a sud del nuovo regno spagnolo e di aggiungere dettagli cartografici al Padrón Real - il modello usato per tutte le mappe a bordo delle navi spagnole. Si trattava di un incarico importante e il capo della navigazione non voleva fallire.

    Della ciurma, due terzi erano insoddisfatti della situazione in cui erano stati trascinati.

    Ci sta portando dritti all’inferno, lamentò Simon Padilla, un soldato con un’esperienza di dieci anni nel Nuovo Mondo, con due suoi amici, Patricio Ramirez e Francisco del Puerto. 

    L’estate era al culmine e il caldo e l’umidità li stavano uccidendo dentro le armature di acciaio, appesantite dalle armi che trasportavano: alabarde e archibugi. In battaglia, armi e munizioni potevano salvare loro la vita, ma per il tempo che rimaneva, erano un fastidio da indossare e trascinare in giro.

    Calò la notte, e il gruppo si accampò lungo la sponda del fiume. Dopo i recenti scontri con le tribù native della regione, Díaz de Solís aveva deciso che mentre metà dei suoi uomini riposava, il resto sarebbe rimasto di guardia seguendo turni di tre ore.

    Paimaca Tacuavé, capo dei Charrúa, si trovava nella grande capanna dell’anziano del villaggio, Pamayo Incayam, e discuteva con il secondo in comando, Tomárahon Zamúca. I guerrieri erano pronti per un altro attacco. Il capo era in cerca di vendetta dopo che suo fratello minore, Maputi, era stato ucciso alcuni giorni prima da un ‘bastone magico che sputava fuoco’. L’unità politica tra i diversi villaggi Charrúa lungo la sponda del fiume del Río de la Plata e all'interno del territorio era fortemente instabile. Erano stati in guerra con gli Yaro per due generazioni - ma l’apparizione di strani uomini dalla pelle pallida e dai capelli chiari fu una distrazione di cui non poterono fare a meno.       

    Andate. Uccideteli. E riportate i loro corpi, ne faremo un banchetto, disse l’anziano del villaggio. 

    Una giovane donna - pronipote di Pamayo Incayam - stava arrostendo un formichiere gigante sullo spiedo per il pasto prima della battaglia. 

    Quindi non faremo prigionieri? chiese Paimaca Tacuavé.

    No - lo sciamano ci ha ordinato di non farne.

    Il giorno prima, Talú Tavé, il guaritore del villaggio, scrutando le costole di un giaguaro appena ucciso aveva dato a Pamayo Incayam una premonizione. La profezia, come sempre, gli aveva dato molto a cui pensare prima del banchetto con Paimaca Tacuavé, capo della sua gente e colui che avrebbe condotto i guerrieri nella gloriosa battaglia contro gli stranieri. Nella migliore delle ipotesi, i Charrúa - se ce ne fosse stato bisogno - avrebbero radunato duemila uomini pronti a combattere dai villaggi della zona. Questo scenario, però, non si presentava da almeno duecentocinquant’anni, sin dalla grande guerra contro i Bohán che aveva portato ad un sanguinoso seppur pacifico epilogo. Paimaca Tacuavé aveva sentito quelle storie, tramandate di padre in figlio, generazione dopo generazione finché la leggenda era divenuta una specie di torbida ossessione per lui. 

    Paimaca Tacuavé lasciò la capanna dell’anziano con la pancia piena e il sorriso stampato sul viso - stava per vendicare la morte di suo fratello. Non ci sarebbe stato alcun perdono. Solo dolore e atroci torture per gli stranieri che avevano attaccato i loro terreni di caccia senza compassione e alcun rispetto.

    La notte nell’accampamento sul fiume era trascorsa senza che accadesse nulla. Díaz de Solís aveva deciso di riprendere a navigare sul fiume. Durán e altri avevano obbiettato ma alla fine l’anzianità, e il fatto che il capitano di navigazione avesse il potere di giustiziare chiunque si fosse ammutinato, furono dei motivi abbastanza validi per farli desistere da ulteriori proteste.

    Sono preoccupato, señor, aveva detto Durán dopo un’ora di viaggio.

    Per cosa? aveva risposto Díaz de Solís.

    Temo ci incaglieremo.

    Durán era un marinaio esperto, al pari del suo superiore negli aspetti più pratici della navigazione. Sul fiume Uruguay avevano visto animali mai visti prima. In passato Díaz de Solís aveva esplorato la Penisola dello Yucatan e alcune zone a nord del Brasile, trascorrendo l’ultimo periodo come navigatore per Vicente Yáñez Pinzón. Durante quel viaggio, avevano fatto rifornimento di cibo, armi e soldati. Ora, però, quasi dieci anni dopo, il capo della navigazione non era nella posizione di poter fare ciò che voleva.

    Ve l’ho detto, ci sta portando all’inferno, aveva commentato Padilla ai suoi

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