Rien que nuances: Null'altro che sfumature
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Anteprima del libro
Rien que nuances - Alessandro Ceccoli
Napoli, 15 febbraio 2022
Preda dei tremori d’un vento instabile che aveva spazzato via le nuvole sopra le isole di Ischia e Procida, il piccolo aereo si apprestava a liberare i carrelli. Era l’ultima virata sul mare prima di giungere all’aeroporto partenopeo di Capodichino.
Un sole napoletano ricco di ricordi e di promesse mai mantenute accompagnava l’editore newyorchese Franco Sinatra alla sua meta. L’uomo sperava in qualche novità; magari di trovarlo lì, in quella città. Esattamente nell’appartamento in via Salvatore Tommasi, a San Potito, quartiere popolare non lontano dal Museo Archeologico Nazionale.
Il suo amico aveva finalmente preso possesso di quei locali. O almeno così gli aveva scritto nella sua ultima lettera. Sì, Ettore Del Bono o meglio Henrico Valdez Moreno
, pseudonimo assegnatogli dall’editore newyorchese, all’epoca di WhatsApp, mail, Telegram o altre diavolerie gli aveva scritto una lettera. Proprio una lettera, giacché mal sopportava quei marchingegni che riducono i tempi, eliminano le distanze e non lasciano modo di pensare.
Lo scrittore scomparso aveva infatti una sua personale visione del concetto di tempo e spazio: descriveva il tempo come una creazione della mente umana, un bisogno, e invece lo spazio come un luogo dove permaneva la vera misura del divenire. Un modo di pensare bizzarro, ma all’amico dell’editore non importava essere giudicato stravagante.
L’avventura di Franco Sinatra era appena all’inizio. Se solo avesse conosciuto l’epilogo della vicenda forse non si sarebbe mosso dal suo mondo newyorchese. Nella sua testa coesistevano infatti desideri opposti, tra i quali non era mancato anche un lascia perdere
.
Non era certo la prima volta che un romanziere affermato scompariva. La letteratura era ricca d’autori svaniti senza lasciare tracce, anche se solo per pochi giorni, come Agata Christie, Edgar Allan Poe, ecc. Ma da quell’ultima sua missiva era passato troppo tempo, e lo scrittore non rispondeva più al telefono. Visto l’imperversare della pandemia da covid, dubbi sulla sorte dell’amico erano più che legittimi. Ettore Del Bono era stato toccato dall’infezione, da quel morbo assurto a giustiziere spartano dei più deboli?
Le notizie sugli effetti della pandemia in Italia avevano molto colpito Franco Sinatra. Gli erano rimaste impresse le immagini sulla Cnn delle file di camion militari che portavano via i morti dagli ospedali.
L’editore si chiedeva se lo scrittore potesse aver fatto quella fine; del suo decesso, come gli era stato riferito, in realtà non v’era evidenza. Il detective, per essere precisi una detective da lui ingaggiata, gli aveva fornito quelle prime informazioni. La donna, un vero segugio, ora lo stava attendendo a Napoli.
L’editore era molto legato a Ettore Del Bono e a breve avrebbe dovuto versare sul conto svizzero dello scrittore i diritti d’autore; ma prima di farlo voleva assicurarsi, a pandemia attenuata, che fosse ancora in vita.
Henrico Valdez Moreno, ovvero Ettore Del Bono, non aveva eredi. Dunque all’editore, che aveva una promessa da mantenere, risultava indispensabile scoprire cosa gli fosse successo. Sinatra s’era impegnato a versare i diritti d’autore post mortem in un fondo di sostegno a progetti per l’infanzia in Africa Equatoriale; del resto aveva ricevuto dalla vita più di quanto s’aspettasse, gli aveva confidato l’amico scrittore una sera di intime confessioni.
Il viaggio da New York era stato lungo e complicato. Seppur più volte tamponato, vaccinato e rivaccinato, a causa di alcuni viaggiatori dagli occhi a mandorla aveva vissuto un’estenuante attesa prima dell’imbarco.
La stessa procedura gli era stata inflitta anche all’arrivo al Charles de Gaulle di Parigi. Il pilota del piccolo aereo privato ingaggiato, che l’attendeva all’aeroporto di Le Bourget¹, fu costretto a rivedere più volte il piano di volo prima del decollo.
Giunti finalmente a Napoli, capitale del tutto è possibile, lo sbarco si svolse celermente. In fondo era l’unico passeggero, e le sapienti conoscenze del comandante gli avevano evitato inutili controlli.
Il parcheggio di stazionamento dei taxi, luogo stabilito per l’incontro con la detective, era deserto e, complice la stanchezza del viaggio, quell’attesa gli rievocò un’atmosfera. Ovviamente quel quadro non aveva niente della landa desolata di bianchi sassi, dai bassi cespugli, della nebbia e dei precipizi del Deserto dei Tartari – v’era solo un piazzale di cemento malconcio con qualche pozzanghera – ma il romanzo di Dino Buzzati parlava di solitudine, di stagnante attesa e di tempo infinito, ed erano quelle le sensazioni che attanagliavano al momento l’editore mentre si guardava intorno.
Sarà stato a causa degli strascichi della pandemia, degli scrosci di pioggia o di un aereo di linea mattiniero da poco giunto, ma Sinatra non vedeva vetture nonostante la detective gli avesse assicurato di mandarlo a prendere. Non v’era nessuno cui chiedere, non s’intravedeva neanche un cane, seppur fosse certo che in quella città i randagi non dovessero mancare.
«Mister, mister!», fece una stridula voce femminile alle sue spalle.
L’editore si guardò in giro; era il solo che potesse esser oggetto di quel richiamo.
Una giovane usciva a passo celere gesticolando dall’aeroporto: mister, mister!
La donna stringeva tra le mani uno strano cappello fiorato. Indossava un’afflitta giacchetta scura a tre bottoni e una larga gonna a pieghe che, ondeggiando, seguiva il movimento degli scarponcini stile militare.
L’editore newyorchese la guardò stupito. Quello stupore portò la donna a estrarre subito dalla tasca un foglio sgualcito con il suo nome in stampatello.
«Mi manda Maria, Maria Sanchez, la detective», gridò la giovane per sovrastare il rumore di un piccolo bimotore di passaggio.
L’uomo guardò quel malconcio foglio con orrore. L’orrore non era per la donna – al netto dei tatuaggi che le s’intravedevano sul collo e della voce graffiante era effettivamente carina – ma per lo stato in cui si trovava quel pezzo di carta. L’indole maniacale di Sinatra per l’ordine ne era stata profondamente ferita.
La sua casa, come anche il suo ufficio di New York, dell’ordine erano il regno; ogni cosa aveva un suo posto, ogni posto aveva le sue cose. Gli armadi contenevano quello che dovevano contenere: vestiti ben allineati; mentre i cassetti racchiudevano solo accessori d’abbigliamento. Tutto era ben piegato, ben disposto e anche nel salone, accanto a un giradischi Torenz immancabilmente analogico, la grande raccolta di vinili era ben disposta: erano ordinati per autore e date di uscita. Il disordine gli mandava in corto circuito il cervello, ma ora, davanti a quel foglietto stropicciato, l’editore non poteva far altro che seguire la donna.
«Il veicolo non è lontano», aggiunse la giovane.
Rientrarono all’interno dell’aeroporto per imboccare un’altra uscita verso un parcheggio coperto, dove una vecchia Fiat 128 giallo canarino, simbolo degli anni sessanta, sostava.
Quanti anni erano passati, forse troppi, da quando da piccolo l’editore aveva lasciato Calvera nell’appennino lucano. Aveva dovuto seguire il trasferimento del padre a Napoli, al Comando Regionale dei Carabinieri di via Salvatore Tommasi. E lì aveva conosciuto Ettore Del Bono, colui che sarebbe divenuto lo scrittore Henrico Valdez Moreno.
La famiglia dell’editore abitava in un appartamento nella caserma, mentre l’amico Ettore risiedeva due vicoli sopra, a monte verso l’aristocratica collina del Vomero. Franco Sinatra ricordava ancora con nostalgia quell’indirizzo: vico Mancinelli 42.
Nella sua mente era ancora vivo il ricordo di quel vecchio palazzo patrizio residenza dell’amico, un immobile di trascorsa opulenza, toccato dalla decadenza dei tempi. Le facciate in molti punti erano scrostate. Le artistiche ringhiere arrugginite, come anche il grande portone intarsiato e sempre aperto, erano ormai scorticate a vivo. Sembrava che tra quelle mura, sui grandi ballatoi in marmo susseguentisi di piano in piano, dovesse svolgersi una commedia di Eduardo De Filippo.
Quel palazzo, appartenuto per secoli ai principi Del Pezzo, era entrato a far parte del patrimonio immobiliare di un avido predatore, il proprietario di un banco dei pegni. Un’esperta sanguisuga che ne estraeva il plasma, senza peraltro provvedere alla sua alimentazione, al suo ripristino. Era al terzo e ultimo piano che alloggiava la famiglia dell’amico dell’editore, il futuro scrittore.
Quell’edificio, vissuto all’epoca da Sinatra distrattamente, aveva conquistato nella sua memoria una reale consistenza; e anche la portinaia Filomena, con otto figli e un marito costretto su una seggiola a causa dei bombardamenti degli alleati
, aveva acquisito un suo perché, una sua dignità. La donna, che gestiva con zelo da carabiniere l’accesso al palazzo, organizzava anche, insieme al figliuolo – lo scartellato² Gesualdino – riparazioni per i condomini, che giammai si sarebbero sognati di coinvolgere il proprietario.
Nella testa dell’editore si affollavano e si sovrapponevano vari pensieri, mentre la singolare chauffeur costeggiava il Museo Archeologico Nazionale, mitizzato luogo d’incontro dei due amici.
A quei tempi l’interesse di Franco Sinatra e di Ettore Del Bono non era certo per il contenuto del museo. I due amici, invero, erano attratti dalla grande ripida gradinata posta alla destra dell’ingresso, che volgeva verso piazza Cavour. Quella scalinata, luogo d’incontro, territorio di gioco e di sfida, era un’area seducente dove dimenticare, finite le lezioni, la tensione dell’apprendere e l’obbligo di rimanere per ore seduti.
La gara di sciuliamazzo
era il loro modo di sentirsi vivi, d’osare, di superarsi, di mettersi alla prova; era un esercizio pericoloso di equilibrio e temerarietà su delle assi di legno da far sdrucciolare lungo la grande gradinata. A quei tempi si viveva di cose semplici, con poco, e quel poco bastava.
Erano in tanti, nel post guerra a Napoli, che coltivavano l’arte dell’arrangiarsi per sbarcare il lunario e svagarsi. Erano molte le famiglie che vivevano in piccoli appartamenti sovraffollati e fatiscenti fronte strada, come i vasci³. Si era felici, il futuro era promettente e la povertà non spaventava; non si pretendeva, ma ci si industriava per migliorare.
«Allora dotto’, siamo quasi arrivati», era la giovane chauffeur che lo distoglieva da quei pensieri.
Stavano costeggiando il mare di via Partenope. Tra pochi minuti sarebbero giunti all’Hotel Vesuvio, dove l’uomo contava d’incontrare subito la detective Maria Sanchez.
Non conosceva personalmente la donna. L’incarico e la pattuizione del compenso erano avvenuti tramite email. Era stato Monsignor Uboldi, un prelato conosciuto durante una presentazione degli scritti del Papa per la sua casa editrice, a segnalargliela.
Il religioso aveva grande fiducia in quella detective. La donna aveva svolto molte indagini riservate per il Vaticano, sempre con grande discrezione ed efficacia; l’alto prelato la convocava quando, per delicatezza della materia, non poteva fare affidamento sulle strutture interne dello Stato Pontificio.
«Buongiorno signor Sinatra», all’ingresso dell’hotel una donna, sigaretta in bocca e giubbino in pelle da motociclista, si presentava all’editore.
«Sono Maria Sanchez. Spero abbia fatto buon viaggio e trovato subito all’aeroporto Gemma, la mia assistente». L’editore non rispondeva, non annuiva, aveva bisogno di tempo per metabolizzare l’insolita mise delle due donne.
«Non si lasci ingannare dal nostro aspetto – aggiunse con ironia la detective immaginando lo sconcerto dell’uomo – siamo gente pratica, ma anche, quando serve, capace di esprimere estrema eleganza».
La detective accompagnò quell’ultima sua frase rivolgendo uno sguardo d’intesa all’assistente, che, ricambiando silenziosa, addolcì con un gran bel sorriso l’espressione imbronciata del suo volto.
Sinatra, dopo il primo impatto, trovò che quell’approccio ironico della detective e la condizione d’aver due giovani donne a investigare fosse intrigante; il contesto da manuale per un romanzo poliziesco: l’amico scomparso, il ritorno a Napoli e le due detective alternative.
In aereo aveva immaginato che una volta giunto all’hotel si sarebbe riposato – a New York dovevano essere circa le nove e trenta del mattino – ma la stanchezza del viaggio era improvvisamente svanita, la curiosità per quell’insolita situazione aveva preso il sopravvento. Immaginava già di scoprire altro sulle due donne e, ovviamente, di sapere se vi fossero novità sulla scomparsa dell’amico Ettore.
___________________
¹ Aeroporto per i voli business, sette chilometri a Nord di Parigi.
² Gobbo.
³ Piccole abitazioni di uno o due vani poste al piano terra, con l’accesso diretto sulla strada.
Il vaso di Pandora
Introdursi nella casa dello scrittore non fu difficile, il portiere Radamés aveva un doppione delle chiavi della porta d’ingresso e convincerlo non fu complicato.
L’uomo era una vecchia conoscenza dell’editore. Erano stati amici d’infanzia, e quell’insolito nome gli era rimasto nella memoria; ricordava ancora quando da ragazzi giocavano con una minuscola pallina di plastica colorata a calcetto per strada. Rammentava soprattutto il buffo soprannome che gli avevano affibbiato: Semmulella.⁴
Il custode da ragazzo aveva ben poco dello storico nome Radamés da muscoloso guerriero. Il desiderio del padre, suonatore di trombone al San Carlo, e della madre corista, amanti del melodramma verdiano, difatti non aveva trovato riscontro nel fisico e nel carattere del loro figliuolo.
Erano bastati pochi minuti, il tempo di riconoscersi, di raccontarsi qualcosa, di lasciar scivolare una mancia sostanziosa, e le chiavi erano tra le mani della detective che faceva scattare la fragile serratura dell’ingresso al primo piano. La porta non s’apriva com’è costume verso l’interno. Curiosamente volgeva il suo battente verso l’esterno occupando buona parte del ballatoio del piano. Una soluzione insolita, ma indispensabile per permettere l’esistenza dei due gradini interni che davano accesso all’appartamento.
La costruzione dello stabile doveva risalire alla fine del secolo decimo nono. L’immobile, da grande residenza patrizia, era stato trasformato attraverso scelte definibili inusuali e ardite in una moltitudine di civili abitazioni.
L’alloggio era composto da tre sale allineate con l’ingresso, mentre la cucina e il bagno erano sfalsati di un piano: per accedervi bisognava salire una decina di gradini. Quel luogo non era del tutto sconosciuto all’editore, lo aveva frequentato da ragazzo; era lì che si era trasferita la famiglia dello scrittore quando non poté più permettersi il grande appartamento di vico Mancinelli.
Sinatra ben ricordava la prima volta che aveva visto quei locali, e del dolore alla schiena conseguente.
Era un quattro di maggio⁵, sì, uno dei tanti quattro di maggio in cui a Napoli si facevano i traslochi. La famiglia dello scrittore, padre anziano e ormai malato, madre chioccia che sopperiva con l’affetto alle difficoltà finanziarie, aveva chiesto aiuto agli amici del figlio per scaricare il vecchio camion del verdummaro⁶. A quell’epoca tutto si svolgeva attraverso la nobile arte dell’ingegnarsi e chi poteva, in quel giorno del trasloco di massa, arrotondava agevolmente i suoi introiti; c’erano poche regole e molto era affidato al buonsenso.
V’è da chiedersi se oggi, mezzo secolo dopo, dove molto è regolarizzato, normalizzato, controllato, non si sia persa parte di quella assennatezza. Difatti per ogni trasformazione, voluta, subita o accettata, c’è sempre un prezzo da pagare; l’incredibile è che non vi sia certezza che il prezzo pagato sia stato congruo.
Sinatra, la detective Maria Sanchez e la sua assistente Gemma, dopo aver aperto le imposte delle grandi finestre e acceso dove