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Giallo alla stazione di Second Street
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E-book330 pagine4 ore

Giallo alla stazione di Second Street

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Mary Handley, la prima donna detective di Brooklyn, alla prova per risolvere un caso di omicidio ed emergere in un ambiente di soli uomini

Brooklyn, fine Ottocento. Mary Handley, intelligente e anticonformista, poco dopo essere stata licenziata per insubordinazione, si ritrova per caso sulla scena di un delitto: la vittima è Charles Goodrich, contabile di Thomas Edison. Mary si rivela particolarmente abile nel notare e raccogliere indizi, tanto che viene assunta dal Dipartimento di Polizia, diventando la prima donna-poliziotto della città. Ma risolvere il caso non sarà facile perché l’indagine porta ai personaggi più potenti e rispettati di Brooklyn, disposti a tutto pur di proteggere i loro segreti.

«Una serie promettente. Un’eroina forte e una storia che intreccia abilmente realtà e finzione.»
Kirkus Reviews

«Una detective nient’affatto convenzionale che i lettori ameranno di sicuro.»
Booklist
Lawrence H. Levy
è sceneggiatore di film e serie TV. Ha vinto il Writers Guild Award (un premio per le sceneggiature) ed è stato candidato due volte agli Emmy. Ha scritto diversi spettacoli di successo per la televisione. Giallo alla stazione di Second Street è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2017
ISBN9788822705365
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    Anteprima del libro

    Giallo alla stazione di Second Street - Lawrence H. Levy

    1

    Ma cosa era saltato in mente al senatore Conkling? La Bufera del 1888 aveva colpito a marzo e aveva praticamente paralizzato tutta la East Coast. Le linee del telefono e del telegrafo erano saltate, il trasporto pubblico era stato sospeso e tutti i negozi erano chiusi. Addossati agli edifici c’erano mucchi di neve alti quasi una decina di metri che bloccavano le strade a Brooklyn e a New York, rendendo quasi impossibile svolgere le normali attività quotidiane. Nulla si era salvato da quello che ormai veniva chiamato il Grande Ciclone Bianco.

    Perciò, cosa mai era preso all’ex senatore dello Stato di New York da fargli decidere di uscire per una passeggiata che l’aveva fatto ammalare, e in seguito alla quale ora si trovava sul suo letto di morte?

    Mary Handley non riusciva a togliersi quel pensiero dalla testa. Era strano. Sapeva che doveva esserci una distorta logica dietro quel comportamento così illogico, ma nessuno lo stava mettendo in dubbio. Lei non credeva affatto che gli fosse accaduto qualcosa di increscioso. Continuare a porsi domande era solo un esercizio mentale, del genere che le capitava di fare spesso: mettere in discussione l’inesplicabile finché non si riusciva a spiegarlo. Non si illudeva certo che qualcuno avrebbe mai preso seriamente le sue elucubrazioni, a qualsiasi conclusione fosse arrivata. Era una donna e non era ricca, perciò niente di ciò che avrebbe potuto dire sarebbe mai importato a qualcuno. Come le era stato detto svariate volte, doveva limitare i propri interessi alla famiglia e ai bambini o ad attività frivole come il teatro o l’arte.

    Ogni tanto capitava che un uomo mostrasse interesse per la sua opinione, ma di solito voleva dire che stava flirtando. Nonostante il suo aspetto poco convenzionale, a ventiquattro anni Mary era piuttosto attraente. Aveva il naso un po’ lungo e il mento leggermente sfuggente, ma i suoi folti capelli biondi e i penetranti occhi azzurri erano una compensazione più che sufficiente. Ma nessuna descrizione fisica potrebbe rendere davvero giustizia a Mary. Era circondata da una sorta di aura magnetica, alimentata dal suo spirito energico e dalla sua implacabile sete di conoscenza, che solo persone puramente superficiali potevano non percepire. Con grande disappunto di Mary, sua madre Elizabeth era quel genere di persona, e spesso la si poteva sentir dire: «Alla mia Mary manca tanto così per essere davvero carina».

    Estetica a parte, nessuno avrebbe mai potuto mettere in dubbio l’intelligenza di Mary, e sebbene essere trattata con condiscendenza o addirittura ignorata da una società che giudicava gli individui in base al loro sesso o ai loro soldi la facesse infuriare, Mary aveva imparato a conviverci. Sapeva che il mondo era dominato da tanti pregiudizi, ma sapeva anche che se si fosse soffermata solo su questo aspetto la rabbia le avrebbe impedito di raggiungere qualsiasi obiettivo.

    A Mary non importava di vivere in un piccolo monolocale con un minuscolo angolo cottura. Non le importava nemmeno che il suo palazzo fosse su Elizabeth Street, una delle zone peggiori di Brooklyn. Né le importava di lavorare per un salario da schiavi alla Lowry Hat Factory, una trappola mortale che pullulava di pericoli per la salute. Ma non sopportava il suo capo, la vedova Lowry, che credeva che la sua abilità nel prosperare sulle miserie altrui la rendesse superiore. Sebbene ne avesse provato varie volte la tentazione, Mary non aveva mai sfidato apertamente la vedova Lowry, ma rifiutava comunque di prostrarsi davanti a lei, perciò otteneva sempre meno ore di lavoro rispetto a chi lo faceva. Ma per lei la Lowry Hat Factory era solo una sosta temporanea lungo la strada per la realizzazione del suo progetto di vita. Un giorno, contro ogni probabilità e contro il più diffuso senso comune, avrebbe avuto la sua opportunità, e doveva essere pronta per quel momento. Possedeva una pazienza e una determinazione esemplari, e nutriva quell’ambizione da tanto tempo, fin da quando aveva preso il treno da Greenport a New York all’età di dodici anni.

    immagine

    Quella notte Mary e la sua famiglia stavano tornando da un fine settimana estivo a Long Island, trascorso in una fattoria di proprietà dei genitori dei loro vicini di Brooklyn, che erano anche buoni amici, i McNish. Le due famiglie avevano molte cose in comune: entrambe le coppie di genitori erano formate da immigrati irlandesi e tutti i figli erano americani di prima generazione. Quel fine settimana doveva dar loro un po’ di sollievo dall’intensa ondata di caldo dell’ennesima estate di Brooklyn, nonché permettere ai bambini di conoscere un po’ la campagna, ma i temporali e la pioggia incessante li avevano costretti a restare in casa, dove Mary non poteva sfuggire all’occhio vigile della sua estremamente critica madre. Elizabeth sapeva da tempo che Mary era diversa. Insomma, era affascinata da personaggi come Darwin, quella Elizabeth Blackwell con la sua laurea in Medicina, e quel tale Kierkegaard, chiunque egli fosse.

    «È una ragazzina un po’ eccentrica. Vuole diventare una scienziata, o una filosofa, o entrambe le cose. Pensa un po’», bisbigliava Elizabeth alla sua amica Abigail McNish. Sul treno erano sedute vicine, nella fila dietro c’erano i loro mariti, Jeffrey e Archie, mentre i bambini erano seduti davanti. A trentacinque anni, la sobria acconciatura di Elizabeth e i suoi abiti da madre di famiglia non riuscivano a oscurare del tutto la sua bellezza tradizionale. Da giovane si concedeva di essere un po’ più alla moda, e molti uomini l’avevano notata. Ma era stato Jeffrey ad affascinarla e a rubarle il cuore. Anche se, con il senno di poi, spesso le era passato per la mente il pensiero che avrebbe dovuto ignorare i suoi sentimenti e puntare più in alto, un errore che sperava di poter aiutare Mary a non commettere.

    «Se esiste qualcuno che può farlo, di sicuro è la tua Mary», aveva risposto Abigail. Sua figlia Sarah era cresciuta insieme a Mary e le due ragazze erano migliori amiche. Sarah non sarebbe mai diventata brillante quanto lei, ma ammirava l’intelligenza dell’amica. Non che la vita fosse stata avara di pregi con lei. Con i sui capelli neri, la pelle di porcellana e gli occhi grandi e dolci, Sarah aveva un tipo di bellezza più classica, che Elizabeth non perdeva l’occasione di sottolineare.

    «È la tua Sarah a essere speciale», rispose sottovoce anche in quell’occasione. «Stammi a sentire, con la sua bellezza e il suo buon carattere un giorno si troverà un marito come si deve. Un marito coi fiocchi».

    Questo riassumeva in breve le vedute di Elizabeth. Per lei il matrimonio era l’unico mezzo realistico con cui una ragazza poteva migliorare la propria posizione, ed era suo compito di madre riportare Mary con i piedi per terra per il suo bene. E se questo significava sminuire le sue ambizioni, non c’era altro da fare. Le opportunità per le donne erano molto poche, e negli ambiti elevati cui Mary aspirava praticamente non ce n’erano. Tuttavia la negatività di sua madre non faceva altro che rafforzare la determinazione di Mary. Come risultato, erano sempre ai ferri corti. Ciononostante anche Elizabeth fu colta di sorpresa da ciò che accadde dopo. Una voce riecheggiò forte e chiara nel vagone: «Raccoglili, Sean. Raccoglili o ti riempio di botte, piccola merdina invidiosa».

    Elizabeth chiuse gli occhi, sperando di sbagliarsi sulla direzione da cui arrivava la voce. Un’esclamazione del genere sarebbe stata inaccettabile per un uomo fuori da un chiassoso saloon, eppure proveniva da una ragazzina di dodici anni.

    L’imprecazione di Mary era rivolta al fratello Sean, e lui aveva fatto del suo meglio per meritarsela. Dopo aver perso una partita a scacchi contro Mary si era fatto prendere dall’ira e aveva lanciato i pezzi per terra. Sean era maggiore di due anni e l’opinione comune gli aveva insegnato che i ragazzi erano più intelligenti delle ragazze. Ma avere Mary come sorella gli aveva insegnato anche che l’opinione comune non sempre era corretta. Che fossero gli scacchi o qualsiasi altra attività che richiedesse l’impiego di acutezza mentale, Mary lo batteva tutte le volte. Lui continuava a provarci, quasi sperando che un giorno la sua superiorità maschile, al momento assente, potesse magicamente comparire e aiutarlo a sconfiggere la sorella, ma non succedeva mai. Perciò era costretto a ripiegare dandole fastidio (un’attività in cui eccelleva) o mettendola nei guai. Entrambe le cose riportavano il sorriso sul suo volto.

    A Elizabeth non importava nulla di tutto ciò. Evitare le situazioni imbarazzanti in pubblico era fondamentale per lei, e sua figlia l’aveva appena ricoperta di imbarazzo.

    Mary aveva un vocabolario piuttosto esteso per una ragazzina della sua età, ed era certamente al corrente che la buona società si accigliava di fronte a certe parole. A causa della costante sorveglianza di sua madre, di solito teneva sotto controllo le emozioni, ma tutti questi sentimenti repressi erano inevitabilmente destinati a esplodere di tanto in tanto. Uno dei motivi per cui parolacce e imprecazioni le sfuggivano di bocca con tanta facilità era che trovava fondamentalmente illogica l’ossessione della società verso quelle espressioni. Se servivano a dare la giusta enfasi a ciò che si stava dicendo, Mary non ci vedeva niente di male. Era molto peggio usare le parole per mentire, ingannare o fare del male. E ancora peggio di tutto ciò era il gusto del sapone. Nel giro di un secondo Elizabeth era comparsa accanto a lei con una saponetta intera. Ne teneva sempre una nella borsetta, a uso disciplinare.

    «Sai cosa farne, ragazzina, e dacci dentro», ordinò Elizabeth, con l’accento irlandese che si faceva più marcato quando era arrabbiata.

    Mentre Mary prendeva la saponetta Elizabeth lanciò un’occhiata a Sean, stravaccato sul sedile. Quando lui se ne accorse si tirò subito su e si raddrizzò più che poteva. Infine, fatto il suo dovere, Elizabeth tornò al suo posto a testa alta, come a sfidare chiunque a dire qualcosa su di lei, sulla sua famiglia e sulle sue capacità come madre.

    Mary guardò Sarah, i cui grandi occhi tondi erano colmi di compassione per l’amica e per l’orribile compito che l’attendeva. Si erano sempre confidate tutto, anche i pensieri e i sentimenti più intimi, ma in quel momento tutto ciò che potevano fare era scambiarsi qualche sguardo e scuotere la testa di fronte al fastidioso ghigno di Sean. Mary piano piano si calmò, pensando che la soddisfazione che lui provava per averla messa nei guai in realtà era il risultato di una logica sbagliata. Perché lei non aveva alcuna intenzione di mangiare quel sapone.

    Non appena Sean e i suoi genitori distolsero lo sguardo, Mary scivolò via. L’idea era di incidere il sapone per fingere di averne mangiato un po’, perciò tutto quello che doveva fare era trovare qualcuno con un coltellino. Tra la pioggia che batteva incessante sulle pareti del treno, le esplosioni dei tuoni e i lampi che di tanto in tanto illuminavano l’oscurità, quell’impresa si trasformò in un’avventura in cui Mary immaginava fantasmi e demoni spuntare fuori da ogni fessura. Si era fermata davanti a un ampio finestrino per osservare quel minaccioso temporale, quando un passeggero emerse dalle ombre spaventandola. Si voltò di scatto ed era stato allora che aveva notato la porta aperta del francese per la prima volta. Senza la sua inclinazione scientifica, Mary avrebbe pensato che il marchingegno che l’uomo teneva in mano fosse qualcosa di magico. Ma doveva esserci una spiegazione. Perciò, mentre tornava indietro, dopo che un controllore molto gentile l’aveva aiutata a incidere sulla saponetta un capolavoro che era sicura avrebbe ingannato sua madre, sperò di trovare di nuovo la porta aperta. Sebbene fosse quasi del tutto avvolto dalle ombre, Mary scorse un uomo robusto e dall’aspetto severo, con in testa una bombetta, uscire dallo scompartimento del francese. I loro sguardi si incrociarono per un breve istante, ma la sua attenzione era attratta più dalla porta che lui aveva lasciato aperta. Mary decise che per dare una seconda occhiata al marchingegno valeva la pena rischiare un altro assaggio del caratteraccio del francese.

    Quando entrò nello scompartimento e vide l’uomo con il cappio al collo, la sua mente passò automaticamente in modalità analitica. Non aveva mai visto un cadavere prima. I suoi parenti non le avevano permesso di andare alla veglia della zia che era morta di parto, tuttavia Mary si comportò come se esperienze del genere fossero all’ordine del giorno. Era sicura che il francese fosse morto, ma gli controllò comunque il polso. Niente. Quel pover’uomo era andato. Non poteva fare nulla per lui, perciò si guardò intorno nello scompartimento, stilando un inventario mentale. Vide gli abiti appesi ad asciugare e la valigia, ma dov’era lo strano oggetto che produceva quel suono? Mary non provava paura né eccitazione, solo il desiderio di scoprire cosa era successo. Solo quando arrivarono gli adulti si scatenò il panico.

    «Ragazzina, devi uscire subito di qui», disse un uomo con la pipa in bocca guardandosi intorno convulsamente nel corridoio, ma Mary non si mosse. «Controllore!», gridò l’uomo. «Qualcuno chiami il controllore!».

    «Gesù, Giuseppe e Maria!», urlò il controllore quando vide il francese impiccato. «Qualcuno mi aiuti a tirare giù questa povera anima».

    A quel punto però si era radunata una folla. Troppe persone si fecero avanti per aiutare, anche se molte rimasero indietro, pietrificate alla vista del francese morto. Il rumore e le dimensioni della folla aumentavano. Il controllore prese in mano la situazione e indicò tre uomini.

    «Tu, tu e tu, aiutatemi a tirare giù quest’uomo». Mentre i tre cominciavano a darsi da fare il controllore si voltò verso la folla: «Signore e signori, vi prego di tornare ai vostri posti. Non c’è niente da vedere qui, solo un poveraccio che si è ammazzato. Concedetegli un po’ della pace che evidentemente non ha trovato in vita».

    La folla cominciò a disperdersi e il controllore sentì qualcuno tirargli una manica. Quando si voltò vide la ragazzina che aveva aiutato a incidere la saponetta.

    «Questo non è posto per te piccola. Torna dalla tua mamma».

    «Ma signor controllore, quest’uomo non si è suicidato».

    «Vuoi dire che hai visto…». Il controllore si fermò un istante per scegliere con cura le parole. Stava pur sempre parlando con una bambina. Ma Mary l’aveva capito al volo.

    «Non esattamente». Gli raccontò dell’uomo con la bombetta, che non era riuscita a vedere bene, e di quell’oggetto che suonava e che adesso era sparito.

    Il controllore capì di avere a che fare con una ragazzina dotata di una fervida immaginazione e le ripeté di tornare da sua madre.

    «Ma non ha senso, signor controllore. Perché mai qualcuno dovrebbe togliersi le scarpe per impiccarsi? O mettere ad asciugare vestiti che non indosserà mai più?».

    Il controllore non sapeva cosa rispondere, ma non aveva tempo da perdere dietro a quella logica infantile. «Probabilmente era matto». Dopodiché spinse con gentilezza Mary nel corridoio e chiuse la porta.

    La notizia del suicidio del francese si era diffusa in fretta ed era già un eccitante argomento di conversazione quando Mary ritornò al suo vagone e annunciò con calma di aver visto il morto. Ma la sua famiglia e i suoi amici erano tutto fuorché calmi. Dimenticato in un istante l’incidente della parolaccia e il sapone, Elizabeth abbracciò Mary, facendo del suo meglio per calmare la sua figlioletta, che in realtà non ne aveva alcun bisogno. Approfittando di quell’inconsueto slancio di affetto da parte della madre, Mary la informò di aver cambiato idea.

    «Non voglio più diventare una filosofa o una scienziata, madre».

    «Davvero?», disse Elizabeth sollevata, pensando che quell’orribile incidente potesse in qualche modo avere avuto delle conseguenze positive.

    «Ho deciso: voglio diventare una detective».

    Elizabeth sbatté le palpebre. Quella figlia non le avrebbe mai dato pace.

    Mary trascorse il resto del viaggio a pensare alle ragioni per cui il francese morto avrebbe dovuto togliersi le scarpe e appendere i vestiti prima di impiccarsi. Ma non ce n’erano. Era certa che fosse stato assassinato.

    immagine

    Era passato qualche giorno dalla Bufera del 1888, i negozi di New York e Brooklyn avevano riaperto i battenti e la città si era rimessa in piedi. In un certo senso Mary era stata contenta di quell’evento. La Lowry Hat Factory aveva chiuso e anche se la perdita del salario le pesava, la stufa Franklin teneva la sua stanzetta al caldo e lei aveva sfruttato il tempo per portare avanti le sue letture.

    Essendole stata negata l’istruzione superiore al college («Quella è per i ricchi», le aveva detto sua madre, «e anche se avessimo i soldi, perché mai sprecarli per una femmina?»), Mary assorbiva come una spugna tutta la conoscenza su cui poteva mettere le mani. Quando i loro figli erano ancora piccoli, Elizabeth e Jeffrey avevano investito nell’acquisto di una Enciclopedia Americana, sperando che Sean potesse aspirare a un genere di istruzione superiore redditizio, come la Medicina o la Giurisprudenza. Con loro grande disappunto, la passione di Sean per gli studi era piuttosto tiepida. Mary, invece, aveva reagito in maniera diversa e aveva letteralmente divorato quel materiale, leggendo tutti i volumi uno dopo l’altro. Adorava la scienza, e Thomas Edison divenne uno dei suoi idoli. Aveva cominciato a seguirlo quando lui aveva presentato la rivoluzionaria lampadina incandescente nel 1879 e ammirava il suo genio creativo e il suo infaticabile lavoro.

    Ma la curiosità di Mary era più vasta dell’enciclopedia e i libri costavano molto. Gli occasionali regali di Natale o di compleanno le davano ben poca soddisfazione. Perciò Jeffrey strinse amicizia con il proprietario di una libreria che si trovava qualche porta più avanti della macelleria in cui lavorava. Il libraio aveva un angolo dedicato ai libri di seconda mano, la maggior parte dei quali proveniva dalla sua collezione privata. Fu contento di sapere che la figlia di Jeffrey era una lettrice vorace e le diede accesso libero a tutti i libri della sezione usato. In fondo erano stati già letti, non sarebbe stato un grosso guaio se qualcuno li avesse letti una seconda volta prima di rivenderli. In questo modo nacque una tradizione per cui ogni tanto Jeffrey tornava a casa con una scintilla particolare negli occhi, e Mary capiva che aveva un regalo speciale per lei. Di conseguenza fece esperienza di ogni genere di scrittori, da Dickens a Dostoevskij, alle sorelle Brontë, e poi Shakespeare, Milton e tanti altri.

    Elizabeth disapprovava. «Le darai false speranze», si lamentava con Jeffrey. «Le uniche cose che ricaverà da tutte queste letture saranno delusioni e tristezza».

    Ma tutto questo non importava. Se anche Elizabeth avesse avuto ragione, e Jeffrey sospettava che potesse essere così, non poteva negare a Mary il puro piacere che provava nell’imparare, né poteva privare se stesso dell’orgoglio che gli suscitava avere una figlia dalle capacità così straordinarie. Sperava che, quando la delusione fosse arrivata, più in là nella vita di Mary, tutto ciò che stava apprendendo l’avrebbe aiutata a essere abbastanza forte da sopportarla.

    Fortunatamente per Mary, i progressi raggiunti nella pubblicazione e nella produzione dei libri avevano abbassato il prezzo dei volumi. Adesso si trovavano rilegati in cuoio o in tela, o avvolti in semplice carta per le edizioni più economiche. Il libraio era ancora così gentile da permettere a Mary di prendere in prestito i libri, ma la sua selezione era limitata. Lei scoprì che risparmiando su qualche pasto riusciva a mettere insieme i soldi per comprare i libri rilegati in carta.

    La lista di letture di Mary tradiva la sua passione per la scienza forense e per i romanzi gialli. Il suo angusto monolocale era talmente disseminato di riviste scientifiche e libri da lasciar pensare che Il Grande Ciclone Bianco si fosse scatenato lì dentro.

    «Fa parte del mio progetto di arredamento», scherzava Mary. «Può sembrare disordine, ma in realtà è un modo per dare colore a un pavimento terribilmente smorto».

    La città era tornata al lavoro, ma Mary ancora no. Per vendicarsi della mancanza di sottomissione da parte della ragazza, la vedova Lowry aveva diminuito i suoi giorni lavorativi, ma comunque la fatalità per cui la Lowry Hat Factory aveva riaperto proprio in uno dei suoi giorni liberi non preoccupava Mary più di tanto. Certo, avrebbe dovuto tirare la cinghia ancora per un po’, ma qualsiasi giornata era più bella senza la vedova Lowry, e aveva altro tempo per leggere.

    Era sdraiata sul divano (che in realtà era il suo letto mascherato approssimativamente da divano) e immersa nella lettura del «Beeton’s Christmas Annual», una rivista che stava pubblicando a puntate Uno studio in rosso, il primo romanzo di un nuovo autore, un certo Sir Arthur Conan Doyle. L’inequivocabile odore di un french toast bruciato la distolse dalla lettura. Mary schizzò ai fornelli e afferrò la padella che era sul fuoco con la mano sinistra.

    «Merda!», esclamò lasciandola cadere e correndo al lavandino. Aprì l’acqua e mise la mano sotto il getto, sospirando quando il liquido freddo placò il dolore della scottatura. Aveva imparato a moderare l’uso di imprecazioni del genere, o meglio, ci avevano pensato sua madre e la società, ma in casi come quello un bel Merda! ci stava tutto.

    Qualcuno prese a bussare alla porta, e lei decise di ignorarlo. Era così bello restare sotto l’acqua. Ma i colpi sulla porta si fecero più insistenti.

    «Mary, sono Kate. Tutto a posto?».

    Mary sorrise. Kate Stoddard lavorava con lei alla Lowry Hat Factory. Aveva una stanza come la sua al piano di sopra e le due erano diventate buone amiche. Non intime come lo erano state lei e Sarah McNish, ma Mary e Sarah non si vedevano più così spesso quanto avrebbero voluto. I loro sentimenti tuttavia erano rimasti immutati e se una avesse avuto bisogno, l’altra sarebbe subito accorsa in suo aiuto. Sarah però era sposata con un avvocato e aveva due bambini. Crescerli le rubava molto tempo e le loro vite avevano preso strade differenti.

    Kate Stoddard era una ragazza sui vent’anni, con i capelli castani e una certa tendenza al drammatico. Si entusiasmava con estrema facilità, ma in maniera molto genuina e senza atteggiarsi a cosmopolita. Era una ragazza di campagna originaria del New Jersey che tentava di vestirsi e sembrare più sofisticata possibile per integrarsi meglio nella grande città. Ma le sue origini trasparivano sempre e Mary non era l’unica a pensare che quella dicotomia fosse molto affascinante.

    Kate stava molto attenta a tenere la propria famiglia all’oscuro della sua scandalosa vita cittadina. Andava regolarmente all’ufficio postale sulla Twentieth Street, a Manhattan, a ritirare le loro lettere. Una volta Mary l’aveva accompagnata. Le era sembrato un viaggio inutile.

    «Dovresti farti spedire a casa la posta invece di venire ogni volta fin qui».

    «I miei genitori gestiscono un negozio di alimentari a Haddonfield. È una piccola cittadina».

    «E non vorrebbero che la loro figliola vivesse nella spaventosa Brooklyn».

    Kate aveva annuito sorridendo. «Perciò per loro sono in affitto da una vecchia coppia di New York che non vuole la consegna a domicilio della posta».

    «E loro ci credono?»

    «Haddonfield. Me ne sono andata da quella cittadina senza prospettive e per questo loro pensano che io sia pazza».

    Kate era sempre divertente quando parlava delle sue origini e delle sue avventure nella grande città. Mary la trovava una compagnia ristoratrice, soprattutto in confronto al cinismo e alla durezza dei cittadini consumati. Perciò nonostante la bella sensazione dell’acqua fredda, Mary si avvolse uno strofinaccio intorno alla mano sinistra e aprì la porta.

    «Hai bruciato di nuovo la colazione?», bisbigliò Kate.

    Mary annuì, vergognandosi un po’ per averlo fatto di nuovo. Diversi vicini comparvero sulla soglia dei loro appartamenti. Kate prese in mano la situazione.

    «Tutto a posto gente, niente di cui preoccuparsi». Alzò il braccio di Mary. «Giusto una bruciatura, accidenti a lei!».

    Mary

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