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Somma Zero
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E-book647 pagine9 ore

Somma Zero

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Info su questo ebook

Giuseppe nasce in un’Italia che si è appena accorta di essere fascista. Figlio di un ufficiale di cavalleria, proprietario terriero, è adolescente allo scoppio della guerra, quando il mondo in cui è vissuto comincia a vacillare. Nel 1943 la chiamata alle armi raggiunge Giuseppe, neanche ventenne, e lo porta via dalla campagna modenese dove era nato; il conflitto che lui e i suoi compagni conoscono non è la guerra patriottica combattuta sul Piave e sull’Isonzo dai loro padri, bensì la guerra civile dove una nuova Italia cerca di ritrovare sé stessa. Giuseppe passerà dall’Emilia al Veneto e poi al Friuli. Combatterà per i fascisti, con i tedeschi, poi con i partigiani e di nuovo altrove con gli americani, passando il fronte più volte cercando di conciliare quello che apparentemente sembrava inconciliabile: l’Onore, la Vita, la Libertà e la Giustizia.

Al di là delle Alpi Andreas ha qualche anno di più di Giuseppe e vive l’ingresso delle truppe del Reich a Vienna. Da soldato e poi da uomo segue l’esercito di Hitler in Polonia, poi in Francia e in Russia. Approda nella provincia di Lubiana quando la guerra è oramai persa e infine in Veneto. In Slovenia incontra una ragazza, poco più che bambina. Gli occhi di Vesna non sono quelli dei soldati che combattono attorno a lei, il suo punto di vista è diverso. Giuseppe, Andreas, Vesna e molti altri personaggi si incontrano e si sfiorano raccontando con le loro vite la Storia che sta creando l’Europa dei loro figli e nipoti.

LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2016
ISBN9788892588462
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    Anteprima del libro

    Somma Zero - Paolo Valerio Maria

    vita.

    CENTO ANNI FA

    Carso goriziano, 1915.

    L’inarrestabile avanzata del regio esercito si era infranta sulle prime alture del Carso, cozzando sull’acqua sempre fredda dell’Isonzo. Si era spenta dopo una breve marcia e pochi chilometri di verde pianura.

    Le armate orientali italiane si erano mobilitate con la tipica lentezza di un meccanismo difettoso al quale fretta e incompetenza avevano imposto un ritmo insostenibile.

    Jacopo aveva incontrato il suo reparto poco prima di varcare il confine e aveva subito preso confidenza con il suo fucile ’91. L’arma lunga gli si adattava alla perfezione, la canna e il calcio erano il prolungamento della sua spalla, del suo braccio, il mirino era tutt’uno con il suo occhio allenato al sole e al buio. Del resto era un cacciatore: il fucile lo aveva imbracciato fin da bambino, sotto la guida attenta del padre.

    Gli altri commilitoni non si sentivano a loro agio come lui, tantomeno sembrava esserlo il tenente che guidava il plotone: un giovane uomo dai baffetti curati che impartiva gli ordini cercando sempre con la mano destra la fondina della pistola, come per ricordarsi di essere un ufficiale e non un impaurito professorino di liceo, promosso per via della bella grafia. La sua voce poi era troppo acuta e quando era sul punto di perdere il controllo parlava in piemontese.

    Chissà se durante la battaglia ci urleranno in dialetto, pensò Jacopo. Poco importava, in fondo, visto che buona parte degli uomini accanto non parlava italiano; come il pastore calabrese di fronte. Lui si era subito proposto di occuparsi di uno dei muli della compagnia; sembrava intendere meglio i segnali e i bisogni dell’animale che le istruzioni del proprio ufficiale. Così aveva scelto il suo compagno.

    A maggio avevano passato il confine senza sparare un solo colpo, sempre con il fucile a tracolla. Avevano marciato in fila seguendo il compagno davanti, passo dopo passo erano entrati in un paesino incitati dal loro tenente: La strada per Vienna passa per Gradisca, Monfalcone e Trieste! aveva sentito dire. Vienna e Roma, regge lontane da quelle poche case sulla strada per Sagrado.

    Al passaggio dei fanti, a destra e a sinistra, poche donne si erano affacciate dalle finestre, qualcuno aveva tirato fuori un tricolore cucito in tutta fretta, ma nessuno salutava i soldati. Di fronte alle scuole elementari avevano incontrato un messo comunale, forse solo un postino, la mano sulla bicicletta nera, serio e impassibile testimoniava la sua fedeltà all’imperatore con una vistosa barba e baffi alla moda austriaca. Dietro di lui non sventolava più sull’edificio la bandiera asburgica, la stessa della piccola coccarda sul berretto che si aggiustava in capo.

    Nessuno toccò né lui né il suo cappello e l’aquila bicipite passò in rassegna le truppe dell’invasore che liberava la propria terra. Le nuvole all’orizzonte si facevano più basse e buie: portavano pioggia. Pioggia sarebbe arrivata e tanto di più.

    Quel giorno di primavera sembrava così lontano quando arrivò l’autunno e poi l’inverno nelle terre redente dell’Isontino. Acquartierati in trincea a poche decine di metri dalle opposte linee gli uni fronteggiavano gli altri. Il nemico era là, in posizione dominante. Jacopo lo aveva visto da vicino, nel frastuono della battaglia, durante i disastrosi assalti sui sassi aguzzi del Carso, e lo sentiva sussurrare nel silenzio della notte. Parlava in tedesco, ma anche in italiano, con l’accento del luogo: chissà, pensava Jacopo, se erano i figli e i fratelli coscritti delle donne che aveva visto alla finestra quel giorno di maggio. Per questo non avevano salutato i soldati: uno di quei fucili, forse, avrebbe colto il loro caro su di una barricata, sulla linea del fronte. Un tratto sottile disegnato da Vienna, da Roma.

    Ma Jacopo era un cacciatore e l’istinto di un cacciatore era stanare la propria preda, così ogni sera, dopo il tramonto, si appostava solitario. Con il dito sul grilletto scorreva lentamente il bordo della trincea nemica, il mirino allineato alla tacca.

    La prima settimana ne aveva centrati due, a distanza di tre giorni. Aveva visto al buio il minuscolo braciere delle loro sigarette e il suo occhio allenato aveva saputo dove tirare. Non aveva mai ucciso un uomo, ma premere il grilletto non fu difficile. Sparare fu come abbattere un capriolo sull'Appennino. La seconda vittoria venne senza difficoltà.

    Il fumo, pensò sarcasticamente, il fumo uccide più degli inutili cannoneggiamenti delle due del pomeriggio! Altro che disinfettare i polmoni come gli aveva detto il suo medico a Pistoia.

    Da allora non era più successo di avere un così facile obiettivo, ma il Cacciatore era sempre là, con la pazienza di chi sa aspettare. Prima o poi, pensava, l'abitudine prenderà il sopravvento. Ci si abitua a tutto, anche ad avere paura, anche a morire: bastava attendere ed essere pronti a cogliere quel momento.

    L'occasione arrivò a notte inoltrata.

    Aveva visto muoversi qualcosa, una minuscola lucciola rossa che subito era sparita dietro la roccia dove si era nascosto il suo bersaglio. Poteva intravedere il bordo dell'elmetto che ogni tanto sporgeva di pochi centimetri prima di ritirarsi.

    Deve star facendo altro, pensò. Forse fra poco, sovrappensiero, si sposterà di quella spanna che mi serve e un singolo sparo sveglierà tutti e metterà a dormire per sempre un suddito dell'impero. Sciocchezze. Uno sparo che svegli il sonno dei soldati in trincea? Ma quando mai! E l'austriaco si sporse.

    Stupido! Ha messo la sigaretta sulla stringa di cuoio dell'elmetto, non l'ha spenta bene ed è rimasta accesa. Che idiozia sprecare così una sigaretta ancora buona... e la propria vita! Jacopo tirò il grilletto verso di sé, ma non ci fu alcuno sparo.

    Senza rabbia estrasse il colpo dall'otturatore. Il bordo di ottone aveva una crepa, proprio sotto il proiettile. Una piccola fessura e l'acqua del cielo avevano dato una seconda possibilità a quel capriolo scomparso tra le rocce.

    Jacopo soppesò la pallottola tra le dita e se la mise in tasca.

    ROSSO O NERO

    Torre Braida, dintorni di Modena, primavera 1923.

    La bassa modenese finiva lì, pochi chilometri a sud della casa. Di fronte a lui le basse colline e i calanchi di terra franosa preannunciavano la catena degli Appennini, spartiacque e spina dorsale d’Italia.

    Francesco guardava dall’altana della villa le alture del Frignano. La sua famiglia veniva da là, da oltre le montagne: secoli addietro era fuggita dalla Toscana e aveva varcato i monti, stabilendosi in pianura. I suoi antenati non avevano fatto tanta strada però, visto che si erano fermati nei primissimi chilometri di terreno pianeggiante. Forse, pensava Francesco, la nostalgia della patria perduta era più sopportabile se potevano vedere, dal versante opposto, le stesse montagne di un tempo e per quello si erano stabiliti laggiù in quella fetta di terra circondata dalle acque di due rami del torrente Torpido. La terra fra le acque: la sua Isola. I poderi di famiglia ora si estendevano a nord, oltre i cedri secolari della grande rotonda di bosso, dalle pendici delle colline fino alla periferia di Modena.

    La casa avita era austera e antica. Francesco era cresciuto là con suo fratello e aveva ricevuto una educazione severa. Era il quarto di quattro figli ed era il primo, non primogenito, a essere cresciuto in villa, Villa Giglio. Le rigide usanze di famiglia prevedevano che solo il maggiore potesse essere allevato a casa, i figli cadetti, invece, erano immediatamente mandati a balia altrove, lontano. Una volta al giorno poi un uomo fidato della servitù avrebbe informato i Signori sulla salute dei Signorini, che potevano venire in visita, per poche ore, solo la domenica.

    Questo era successo per generazioni, per secoli, fino a che i due fratellini più grandi di lui non si erano ammalati di pertosse. Morirono entrambi, gli antichi cedri della rotonda non piansero la loro perdita e il servitore fidato non dovette più andare a informarsi dello stato di salute dei piccoli. Alla nascita di Francesco, il nuovo nato, sua madre si rifiutò di sottostare un’altra volta a quell’inumano protocollo. Così lui era cresciuto nella casa che ora era sua.

    Anche questo era una novità in famiglia. Aveva ereditato una fortuna considerevole e la casa paterna. Al fratello primogenito era andato il bel palazzo che era stato di loro madre, ritenuto più consono per l’attività di avvocato del dottor Nicolò. Francesco invece, attaccato alla terra, fu felice di ricevere come seconda scelta quello che aveva desiderato per sé.

    Francesco era giovane, od almeno lo era stato fino a quel momento, aveva ereditato. I suoi erano morti da poco, per questo aveva lasciato la carriera militare in cavalleria: la sua sciabola fu riposta nella vetrina dello studio e i Lancieri di Montebello persero un giovane ufficiale. Ora in Villa era lui il padrone e le regole sarebbero state le sue. Si accorse di aver vissuto una vita diversa, quasi spensierata. Certo aveva combattuto e vinto una guerra, era sopravvissuto all’Isonzo e poi al Piave, ma ora le sfide erano nuove: era a capo di una fortuna da amministrare in un mondo in agitazione.

    L’odore di rivoluzione che era nell’aria a Bologna là era ancora più forte. In città, con il suo amico e futuro cognato Alfonso Guzzi, aveva piantonato i palazzi del centro. Dall’alto della sua cavalcatura, in uniforme da ufficiale, aveva ripiegato sotto il peso della folla in tumulto come mai aveva fatto sul Carso, sul Piave: uomini, donne, bambini e vecchie urlavano sputando sugli stivali lucidi dei cavalieri. Scioperi e violenze si susseguivano nelle campagne che diventavano sempre più rosse. La situazione era peggiorata e Francesco aveva perso la fiducia. Assediato nella sua stessa casa pranzava in cucina con i suoi ‘bravi’, uomini fidati che mangiavano a tavola con le doppiette allo schienale delle sedie e le pistole in tasca per paura di visite.

    Sorse allora un partito che difendeva la sua classe, che combattendo l’anarchia sembrava porre un limite alla distruzione dei principi cristiani e dell’autorità. Così almeno Francesco vedeva le cose in quel momento e così decise la sua bandiera, il suo colore: appoggiò la causa di quel partito che in un primo tempo e a grandi linee sembrava arrestare il peggio. Erano gli anni in cui il fascismo si contrapponeva al comunismo difendendo i valori tradizionali, nazionali e poi religiosi: quel partito sedusse molti, gli industriali, i proprietari terrieri e la Chiesa. I liberali a loro volta credettero di poterlo usare e controllare. Si sbagliarono, tutti: la rivoluzione ci fu, non rossa di sangue, fatta di teste mozzate su alte picche o fucilazioni di massa, ma fatta con manganello e olio di ricino. La rivoluzione fu nera.

    Poco prima, Pieve Di Sotto, 1923.

    Il matrimonio fu bellissimo. Celebrato il giorno dopo la maggiore età di Amelia, la giovane e ribelle ragazza di cui Francesco si era innamorato due anni prima, durante il matrimonio del suo migliore amico e compagno d’armi Alfonso. Al compiere dei diciotto anni l’aveva sposata. Così aveva voluto il padre di lei.

    Tutta Montebello era intervenuta, in alta uniforme. La balaustra del grande scalone del palazzo Guzzi era piena di mantelli celesti di cavalieri: ogni stanza era occupata da ufficiali di cavalleria nelle loro eleganti tenute.

    Il signor Guzzi, padre della sposa, schivo e riservato, era oramai rassegnato all’allegra invasione e intratteneva notabili e personalità destreggiandosi tra spade e drappi svolazzanti che sembravano essere ovunque; una battaglia persa per la sua tranquillità. Nell’enorme salone i preziosi regali per gli sposi venivano accumulati: una lunga processione di convenuti sfilava per portare i doni. Il signor Guzzi era emozionato come non pensava di poter essere: sorrideva.

    Probabilmente sono felice, pensò il padrone di casa salutando l’ennesimo commendatore che si avvicinava con la moglie e un curioso pacchetto al seguito. Sì, probabilmente sono felice! Ma dove sono tutti? dove sono gli sposi e dove la Leopolda?

    La madre della sposa piangeva nella sua stanza. Guardandosi allo specchio tentava di ricomporsi, ma le lacrime continuavano a scendere e il petto ad ansimare. Per lei non era ancora il caso di scendere. No, non ancora.

    Gli sposi comparvero all’improvviso nel salone, lei con la mano al braccio di lui, più vicini di quanto non fossero mai stati. Francesco le sfiorò con un dito le labbra. Una briciola... la sposa non si era risparmiata durante il rinfresco: felice e sorridente aveva mangiato come fosse stata al matrimonio di qualcun’altra. Anche per questo lui ne era innamorato.

    Al loro ingresso gli ufficiali presenti nella stanza si allinearono d’istinto su due lati e gli sposi avanzarono tra file di spade.

    Quando ancora il ricevimento era al di là da finire marito e moglie si accomiatarono.

    Ricomparvero vestiti da viaggio, con i guanti di pelle, le giacche attillate e occhiali in mano. Davanti al palazzo era parcheggiata non la carrozza consueta ma una bellissima macchina da corsa color caffellatte.

    Gli sposi salirono sul bolide che rombò potente. Partirono salutando gli invitati che erano scesi nel loggione e che si sporgevano dalla lunga fila delle finestre del palazzo.

    Una partenza ultramoderna, insolita per quel piccolo paese della Bassa.

    --

    Dove andiamo, mio caro marito? chiese Amelia a gran voce per sovrastare il vento.

    Via, ma poi torneremo.

    Così, senza bagaglio?

    Quello ci aspetta già dove stiamo andando, ho dato disposizioni. Qui per ora bastiamo noi due disse guidando sicuro per lo stradone che portava fuori dal paese. Firenze! E’ Firenze dove stiamo andando, ho scelto bene?

    Amelia non rispose, ma sorrise.

    Firenze era bellissima, immersa nell'aria frizzante di una nuova primavera con i balconi e giardini in fiore.

    Amelia non voleva si sapesse che erano in luna di miele quando entrarono nell'elegante albergo che li avrebbe ospitati. Ma in incognito rimasero solo il tempo di cambiarsi: scendendo li accolse una bellissima e sproporzionata composizione floreale offerta dal direttore. Stupita si voltò verso il marito che con un cenno le disse di accettarlo.

    Sei tu che hai l'aria dello sposino disse lei con una piccola gomitata sul fianco mentre a malapena riusciva ad abbracciare quella selva floreale, ti metti la perla nella cravatta e hai l'aria tutta gentilina e zuccherosa.

    Francesco toccò la perla fra le dita e si guardò nello specchio dorato di fronte. Sì, aveva ragione, sembrava addirittura un ragazzino e gli sorridevano gli occhi.

    Tornarono in camera dopo una breve passeggiata con il sole ancora alto nel cielo. Francesco accostò le tendine e le chiuse l’una sull’altra. Sfilò la perla dalla cravatta e ne appuntò la spilla sulla fina tela ricamata.

    Il sole del pomeriggio traspirava tra la trama e l’ordito diffondendo una fresca penombra. Lui si voltò, dimenticò il gioiello e cercò la sua sposa. Francesco non l’avrebbe mai più dimenticato quel giorno, quando ancora una volta l’umanità caparbia contrattò con Dio i dolci termini della propria immortalità.

    Villa Giglio, aprile 1923.

    Mio Dio che emozione! sussultò Amelia sul lungo vialone alberato che terminava sul cancello della Villa, già aperto in attesa del ritorno del padrone.

    Francesco suonò il clacson per avvisare dell’imminente arrivo e guardò sorridente la ragazza che aguzzava la vista per scorgere da lontano la nuova dimora. Non era necessario suonare, visto che il rombo del motore si sentiva per chilometri e nessun’altra auto era attesa, ma Francesco indugiò come un bambino.

    Varcarono il cancello, due grandi battenti artistici in ferro battuto con lo stemma di famiglia là in alto: un giglio. I domestici erano schierati davanti al portone sotto il balcone centrale, in attesa. La ghiaia della rotonda per il giro delle carrozze di fronte alla antica casa crepitava sotto le gomme dell’auto.

    Francesco saltò giù dalla macchina e con un cenno salutò i famigli: corse come un ragazzino ad aprire la portiera alla sposa.

    La servitù con un piccolo inchino salutò la padrona e si guardò un poco perplessa. Non avevano mai visto il padrone così sorridente. Francesco notò gli sguardi e porse il braccio alla giovane moglie con aria più seriosa.

    Salutarono cortesemente il personale mentre Amelia esplorava con gli occhi l’intorno: l’antica torre di sasso di fiume del trecento, la piccola chiesa nascosta tra alberi e le belle aiuole di tasso. Il giardino era un posto incantato, tutto fiorito, dalle camelie alle verbene, alle rose, tanti fiori strani e sconosciuti alla giovane signora di quel piccolo castello: girarono insieme attorno alla casa. Dietro vi era una grande rotonda abbracciata da cedri secolari altissimi che coprivano allo sguardo le vigne di famiglia, oltre i giganti di legno un bosco con piante rare, capanne e grotte tutto tenuto in modo ordinatissimo e perfetto. Cantavano gli uccelli tra i rami e dai piccoli cancelli laterali della recinzione si assiepavano le donne dei contadini dei poderi vicini venute a vedere la sposa. Francesco guardava sorridendo, ma con un leggero fastidio per tutti quegli occhi e quell’attenzione: I Cedri, così così alcuni chiamavano affettuosamente la villa, erano un luogo austero e non abituato a tali effusioni. Era stato sempre così, così la aveva pensata il padre di Francesco, severo e autoritario padrone la cui presenza sembrava non aver mai lasciato quelle mura.

    Tornati di fronte casa, dietro al grande cancello di ferro vi era una piccola folla che guardava incuriosita.

    Francesco chiamò Moncalieri, il suo più fidato fattore.

    Oggi abbiamo dato un bello spettacolo, vero?

    Sgnòr Padron, sono ore che vi attendevano. Quasi una giornata di lavoro persa. Ma non li ha tenuti nessuno.

    Vedo, vedo Francesco guardò i contadini e le massaie sbirciare tra le sbarre per rubare un’immagine della giovane padrona. Un filo di fastidio gli scorse lungo la schiena la Villa dei Cedri non era abituata a sguardi indiscreti.

    Penso disse Francesco, che il cancello abbia bisogno di una modifica. Forse tamponare le sbarre dell’inferriata con una lamiera di ferro. Ho visto che sovente cani e gatti si intrufolano. Forse sarebbe una buona idea.

    Moncalieri lo comprese all’istante: Se Voi lo desiderate è lavoro da poco. Taglieremo delle lamiere e le aggiungeremo. Una buona mano di minio e poi rimetteremo tutto a posto. Ci vorrà poco.

    Ma il cancello sarà rosso disse Francesco.

    Solo per il tempo necessario. Poi lo pittureremo del colore che vorrete.

    Bene, facciamolo stasera. Il minio diamolo al calar del sole. Domattina presto date la prima mano di vernice, chi si sveglia dovrà vedere fin da subito il suo colore.

    Quale colore?

    Nero!

    ALI

    Ostia, primavera 1932.

    Giuseppe aveva viaggiato tante volte con la macchina del padre, ogni domenica andava a messa in automobile fino alla chiesa del villaggio in fondo allo stradone che partiva dalla villa. Tutta la settimana suo padre, il segretario federale Francesco, si alzava presto, accendeva il potente motore della sua Lancia Lambda e partiva per attendere agli affari della tenuta nei vicini poderi affidati a una piccola schiera di mezzadri. La domenica non faceva eccezione, ma quel giorno dei sette tornava a casa poche ore dopo a prendere il figlio e le sue sorelle in tempo per la funzione. Si sentiva il rumore del quattro cilindri cantare da lontano, inconfondibile nella campagna il rombo preannunciava l’arrivo del padrone a casa. Solo due auto giravano regolarmente da quelle parti: l’altra vettura era del curato, e a quell’ora, di domenica, era sicuramente già occupato a preparare per la messa.

    Francesco in vista del nero cancello suonava il clacson. Puntualmente i domestici aprivano i pesanti battenti. I bambini scalpitanti sul vialetto di ghiaia erano già pronti per entrare nella macchina che girando intorno alla rotonda di bosso davanti alla villa si preparava a riuscire.

    A che velocità andiamo adesso, papà? disse il bambino.

    Veloci, ma non quanto potremmo andare se la strada fosse migliore. Quando saremo sullo stradone per Ostia c’è un bel rettilineo e là supereremo i 110 km/h.

    Francesco amava suo figlio di un amore più tenero di quello che avrebbe mai ammesso, ma l’aveva educato con severità perché così gli era stato insegnato. L’uomo guardò il bambino; cercava di abbracciarlo solo se in qualche modo lo avesse meritato. Bastava un voto eccellente a scuola o un qualsiasi encomio arrivato da qualcuno dei suoi istruttori e Francesco lo stringeva a sé virilmente, portandoselo al petto, indugiando qualche secondo più del dovuto. Se l’occasione non si presentava comunque Francesco non mancava mai di portare con lui a caccia il figlio, nonostante la giovane età, e se poteva anche in viaggio. Come quel giorno alle porte di Roma.

    L’amore per il bambino era cresciuto con il tempo, con l’abitudine di stargli vicino: era passato dalla gelosia del tempo che rubava a lui e alla sua sposa a un amore paterno che Francesco non aveva mai pensato di saper dare. Il primo dubbio lo aveva avuto quando si era preso cura del figlio, in prima persona, per quella polmonite, quando non lo aveva lasciato alla tata, ma per due giorni e due notti si era prodigato attorno alla sua culla e al letto della madre anche lei febbricitante. La paura di perderlo lo aveva assalito come un leone che gli azzannasse il petto. La morte in tenera età di Valeria, la terzogenita, qualche anno dopo, poi, lo aveva fatto arrendere: una bambina bella e sorridente, allegra e simpatica; voleva sempre stringere la mano del suo papà prima di addormentarsi, e si appisolava con un sorriso incorniciato di boccoli. No, Francesco non era come suo padre, era diverso.

    L’uomo sorrise al bambino.

    Vedremo il generale Balbo? chiese Giuseppe.

    Il padre lo guardò di lato senza distogliere lo sguardo dalla strada.

    Suppongo di sì. Siamo suoi ospiti, ci ha fatto sapere che potevamo venire. Per questo siamo qui. Del resto già lo conosci.

    E vedremo gli aerei?

    Suppongo di sì ripeté suo padre.

    E potremo salirci… forse potremmo?

    Francesco pensava proprio di sì, in fondo aveva organizzato quella visita non solo per rivedere il vecchio amico, oramai famoso, ma anche e soprattutto per il figlio. La sosta per prove tecniche della squadriglia degli idrovolanti S55 al Lido di Ostia era un’occasione perfetta, e lui l’aveva colta.

    La macchina correva veloce sullo stradone deserto, i pini marittimi sull’attenti sfrecciavano di lato lasciandosi dietro la campagna romana. Arrivarono in poco tempo a destinazione, entrarono nell’idroscalo superandone i cancelli e il controllo alla guardiola; parcheggiarono non lontano dagli approdi del molo dove sei sagome allineate si stagliavano contro il mare.

    Il bambino guardava a bocca aperta i famosi aeroplani, bellissimi e maestosi galleggiavano leggeri e immobili nel mare calmo di fronte a loro. Il sole si rifletteva sulle ali e sulla ogiva dell’elica tirata a lucido come sulle minuscole onde che increspavano la superficie dell’acqua. Si fermò a guardare i dettagli del motore, con le sue eliche opposte issato in alto, come una testa d’aquila in agguato sulle ali leggere e possenti dell’aereo che formavano un’unica solida superficie appoggiata sugli scafi gemelli. Leggerezza, Velocità e Potenza in un unico oggetto che aveva rapito l’attenzione di padre e figlio.

    Dietro di loro sopraggiunse un drappello di uomini in tuta da aviatore, non visti, quasi a passo di corsa, li avevano raggiunti.

    Francesco! Eccovi arrivati! Sono magnifici vero? disse una faccia sorridente con i capelli spettinati ma con barba e baffi perfettamente curati. E tu sei sicuramente Giuseppe. Ti ricordi di me? Sono un caro amico di tuo padre disse il Generale salutando velocemente il vecchio camerata.

    Vostra Eccellenza balbettò Giuseppe, ma il padre con una vivace carezza gli strapazzò i capelli e continuò a posto suo.

    Siamo in anticipo. Era una così bella mattina che abbiamo corso un poco per strada, e così eccoci qua.

    Bene, anzi meglio, questo ci apre delle possibilità direi! Zavorra, avevo proprio bisogno di zavorre! Dobbiamo fare alcune prove di decollaggio a medio carico e mi mancava qualche sacchetto si sabbia. Da 35-40 Kg più o meno disse il generale guardando il bambino. Potrei usare te e tuo padre se avete il tempo, il mio aereo è già pronto e il vento perfetto. Venite!

    L’idrovolante, liberato dal suo gavitello, lasciò il molo. Dondolando verso il largo si allineò con il vento, i motori salirono di giri e il doppio scafo prese velocità sul mare, si sollevò dalle onde che battevano sulle chiglie con piccoli colpi secchi sempre più frequenti fino a che gli urti cessarono. E furono in aria.

    Ti piace volare? chiese con voce decisa il Generale al bambino per sovrastare il rumore dei motori.

    Sì, Sua Eccellenza! Si!

    "Sua Eccellenza… Vostra Eccellenza va bene a terra e alle parate, qui non sono Sua Eccellenza, qui sono un pilota, il comandante di questo vascello!"

    Signorsì Signor Comandante!

    "Bene! Comandante va meglio. Quando si vola su in aereo nessuno è più importante del pilota, non importa quanti generali o vostre eccellenze porti l’aeromobile. Chi è importante è il pilota. Chiaramente a meno che non si sia sperduti sopra l’oceano, perché allora il più importante è il navigatore. E questo sempre che il motore non tossisca, altrimenti nessuno è più fondamentale del motorista! Hai capito ragazzo mio?"

    Credo di sì, signor Comandante! Signor Comandante questo è lo stesso aereo della crociera del Brasile?

    Sì e no. Sì è l’aereo della crociera dell’anno scorso, ma no, non è lo stesso aereo: ora lo abbiamo migliorato, ha motori nuovi, più potenti. Ritoccato le eliche e fatto tante altre cose. In aviazione un anno è un tempo lungo, abbiamo imparato tante cose e le metteremo in pratica per volare sull’Atlantico del Nord. Ogni raid è diverso. Si deve far tesoro di quanto imparato in precedenza.

    Ma l’Atlantico del Nord è stato sorvolato tante volte. Perché non fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non ha mai fatto nessuno prima? Un record?

    Un record? riprese il Generale. Ti faccio una domanda, come sei arrivato all’idroscalo?

    In macchina, con mio padre rispose il bambino.

    E hai avuto paura? Hai pensato di non riuscire ad arrivare, o che tuo padre non trovasse la strada?

    No, non ho avuto paura, è stato bello e mio padre conosce la strada. Siamo arrivati, è stato facile.

    Tuo padre conosce la strada perché qualcuno ha costruito quella strada, qualcun altro ha lavorato per dargli una macchina affidabile e altri ancora hanno messo cartelli e segnali lungo la via.

    E il Generale continuò.

    Vedi Lindbergh è stato un eroe perché non sapeva se sarebbe arrivato. E’ stato un eroe fortunato. Molti grandi raid del passato sono stati frutti di audace improvvisazione! Fortuna, Audacia e ancora Fortuna! Eroi supplici della capricciosa dea bendata, ma per le attraversate atlantiche di stormi di aerei non è così. C’è, e ci sarà sempre, margine per l’imprevisto, ma il vero progresso è poter attraversare l’Atlantico in sicurezza con una probabilità di riuscita sempre più prossima al cento per cento! La vera eccellenza è la normalità della prestazione, non il record fortunoso di un eroe solitario! Costruire, costruire strade che siano strade nel deserto o nel freddo Atlantico questa è la vocazione di Roma.

    Giuseppe era avvezzo all’idea di Roma colonizzatrice, faro di civiltà, non aveva alcun dubbio, nel suo cuore di bambino, che ascoltare quelle parole da Sua Eccellenza, quadrumviro della rivoluzione fascista, era un privilegio. Roma civilizzatrice, guidata da un capo infallibile che sempre sveglio al suo tavolo lavorava per il suo popolo. Popolo che come un bambino, ignaro delle scelte fatte per lui, doveva essere guidato, educato per il suo stesso bene. E il popolo avrebbe saputo essere riconoscente di tanta illuminata lungimiranza. Giuseppe ascoltò.

    Il vero progresso è rendere le cose semplici, sicure, accessibili. Volare sull’Atlantico deve diventare normale come la tua scampagnata in automobile, volare deve diventare così facile che potrebbe farlo un ragazzino.

    E così dicendo il Generale invitò Giuseppe a sedersi al posto del secondo pilota accanto a lui. Il bambino non arrivava a sporgersi dai vetri sigillati dell’abitacolo e raggiungeva a malapena i comandi.

    Stringi la cloche nelle mani con fermezza, ma senza volerla strozzare. Ecco, così. Tieni i piedi fermi e non muovere questa leva. Se sposti a destra o a sinistra la cloche virerai. Non tirarla a te, non spingerla in avanti… bene, bene così si stirò come se fosse intorpidito. E ora mi scuserai ma vorrei scambiare qualche parola con tuo padre in un posto un poco più comodo: adesso sei tu la persona più importante di quest’aeromobile!

    Con naturale agilità Sua Eccellenza si alzò dal sedile del pilota lasciando Giuseppe impietrito ai comandi del grande idrovolante che continuava stabile il suo volo orizzontale sul Tirreno. Francesco indirizzò uno sguardo interrogativo all’amico come per chiedere se quella fosse una buona idea. La risposta fu un minuscolo cenno e un’occhiata che non potevano essere fraintesi. I due fecero per spostarsi.

    Giuseppe irrigidito fissava i vetri della cabina sopra di lui, non aveva coraggio di voltarsi, come se distogliere lo sguardo avesse potuto mandare giù a vite l’apparecchio senza preavviso. Con gli occhi sbarrati chiamò: Vostra Eccellenza...

    Giuseppe non ti preoccupare, questa è una macchina, è stata costruita per piegarsi alla tua volontà, devi essere consapevole di questo. E’ una macchina, è fatta per obbedirti. Poi ti basterà osservare il mare e il cielo, ascoltarli e rispettarli come alleati tuoi pari.

    Come faccio ad ascoltare il cielo?

    Questo non è facile, per ora è sufficiente ascoltare me. Non spingere in avanti o verso te la cloche e non toccare queste leve.

    Così dicendo gli pose una mano sulla spalla e lo lasciò sparendo nello stretto passaggio di servizio.

    I due camerati raggiunsero lo scafo sinistro e si sedettero alla luce dei piccoli oblò.

    Rimasero qualche minuto in silenzio l’uno di fronte all’altro guardando fuori il sole che si rifletteva sul mare ottocento metri più in basso. Francesco fissava la linea dell’orizzonte quando notò un leggero cambio di rotta dell’S55X. Con la faccia tirata si girò di scatto verso l’amico e lo guardò negli occhi.

    Tranquillizzati Francesco, sì, stiamo virando, già da qualche secondo, tuo figlio sta sperimentando… direi. Sta vedendo se è vero che ha in mano i comandi. Adesso si sarà accorto anche lui che l’aereo gli ha obbedito e si rimetterà in rotta: quattro, tre, due...

    Sì, sì ho virato!! pensò il bambino dopo aver inclinato impercettibilmente la cloche sulla sua sinistra. L’aereo ha virato e sono stato io! E adesso? Se ne saranno accorti? No. Ho fatto troppo piano, ma la rotta?? Sarà cambiata! Come faccio? D-devo fare l’opposto girare sulla destra… per lo stesso tempo, ma quanto tempo è stato, cinque, dieci secondi? Dieci, circa dieci…

    Tre, due, uno… contò il Generale guardando negli occhi l’amico e il grande monoplano cominciò a virare sulla destra per poi allinearsi di nuovo con l’orizzonte.

    Sembra proprio che io conosca tuo figlio meglio di te amico mio. Il fanciullo è proprio come me lo avevi descritto, non mi aspettavo nulla di meno. Ardito con le leve del comando ma responsabile e coscienzioso del potere che gli è stato affidato. Sarà un buon italiano e un bravo fascista.

    NUVOLE

    Amburgo, marzo 1933.

    Mancavano giusto due svolte per arrivare al lungo viale alberato dove era casa dei suoi. I lampioni erano accesi ma la loro luce flebile faceva apparire neri tutti gli edifici accanto.

    Rolf si stringeva nel cappotto e camminava spedito nel vento di marzo. Aveva voglia di correre ma si tratteneva per non destare attenzione. Le strade erano vuote, troppo vuote.

    Meglio così. E affrettò il passo con falcate sempre più lunghe. Un cappotto scuro tra le ombre degli alberi sulle case nere con le finestre chiuse scivolava sul marciapiede.

    Sul portone di casa si fermò e si guardò indietro, bussò. Sentì dei passi in corridoio, la porta si aprì e incontrò la faccia inespressiva di sua madre. Si tolse il soprabito e il cappello e li porse nelle mani tese della donna che lo guardò in silenzio scorrendolo da capo a piedi. Aveva sicuramente notato l’occhio ancora gonfio, ma non disse nulla. Pochi passi ed entrò in sala da pranzo.

    Lui, il figlio inaspettato avuto quando suo padre e sua madre non speravano più in un dono del Signore, era ora atteso da tutta la famiglia. Aveva tre fratelli maggiori e li trovò in piedi attorno al tavolo. Albert, il più giovane dei tre, aveva dieci anni più di Rolf e lo salutò per primo.

    Dov’eri? Ti aspettavamo qui oltre un’ora fa, Josef e sua moglie hanno preparato tutto con gran cura. Avevano chiesto di essere puntuali!

    Sono stato trattenuto disse Rolf, e la risposta andò bene per Henry e Albert, ma non per Josef, il fratello maggiore.

    Se non per me e mia moglie saresti dovuto arrivare puntuale per rispetto di tua madre e del tuo defunto padre di cui sei ospite disse il fratello.

    Ospite del suo defunto padre, questa era bella, semmai ospite tuo pensò Rolf, mentre si accomodavano a tavola. Il fratello maggiore sedeva nel posto che era stato di loro padre, la giovane moglie alla sua sinistra e loro madre a destra, poi i due fratelli mediani e al lato opposto lui. La cena era stata preparata con cura e nel rispetto della tradizione, cosa che non era mai stata un’abitudine quando Rolf era bambino, ma che oramai sembrava essere una necessità per il nuovo capofamiglia. Josef non era mai stato un ebreo osservante e se ne era andato di casa alla prima occasione; in pratica loro due non avevano mai vissuto assieme. Tutta la famiglia aveva invece visto il primogenito condurre una vita dissoluta, cambiare donne con grande facilità, lavorando tutti i sabati.

    Ma quando il padre morì Josef si era ripresentato alla porta, aveva parlato con la madre e preso il posto che sentiva suo. In pochi mesi aveva trovato una ragazza, figlia di un affine, morigerata, modesta e giovane, molto giovane. E la aveva sposata, Sarah, trattando quell’impegno con la stessa efficienza dei suoi floridi affari.

    Rolf si guardò intorno, non vedeva i suoi riuniti da molti giorni; seduti attorno al tavolo erano in attesa.

    Tutto correva intorno a loro, ma la sua famiglia, invece, sembrava rallentare e fermarsi come se superato l’uscio di casa si entrasse in un mondo a parte. Un mondo in cui Rolf faceva sempre più fatica a respirare. Con la speranza di scoprire che i suoi fossero diversi, guardò i fratelli. Henry il secondogenito era vestito con cura, taciturno come sempre, sembrava voler compiacere con ogni suo gesto qualsiasi cosa dicesse o facesse il fratello maggiore. Lui non era affatto cambiato. Albert più affabile e giovane era invece candidato a mostrare segni di cambiamento: dei suoi fratelli era stato l’unico che avesse in qualche modo condiviso con lui una piccola parte della giovinezza e qualche momento di spensieratezza. Albert era sicuramente il meno intelligente dei quattro, ma non così tanto da non accorgersene; anche per questo aveva sviluppato un certo timore e sospetto su tutto quello che non poteva controllare. Una mancanza di autonomia e di autostima che lo facevano oscillare tra l’essere il più dolce dei fratelli al diventare un vile conformista. Oggi era chiaramente entrambi, pensò Rolf guardando il fratello a disagio sulla sedia e si accorse che anche lui era rimasto lo stesso.

    In famiglia da poco tempo Sarah invece era un’altra cosa; troppo giovane e troppo bella perché qualcuno potesse desiderare che cambiasse. Lei, poco più che bambina, aveva solo un anno di differenza con Rolf ed era l’unica a cui lui si sentisse legato. La prima volta che si erano incontrati, in quello stesso salotto, si erano guardati negli occhi e subito piaciuti. Sarah ora gli sorrideva con il più dolce dei sorrisi, sorrisi che Rolf non ricordava di aver mai ricevuto da sua madre.

    Nulla di nuovo e nulla di interessante, pensò il ragazzo mentre portava alla bocca ritmicamente il cucchiaio come tutti i commensali.

    Rolf guardò dinnanzi come volesse cancellare con uno sguardo il fratello impassibile di fronte a lui e i suoi occhi misero a fuoco il camino dietro alle spalle di Josef: si rese conto che il menorah non era più al suo posto. Lo cercò e lo trovò. Ora il candelabro era sul mobile vicino alla finestra. Chiunque passando per strada lo avrebbe potuto scorgere al di là del vetro.

    Rolf lo guardò stupito e si girò di scatto verso Josef che lo stava osservando: aspettava le parole del fratello.

    Ora forse ti vedrò girare con il kippah e frequentare la sinagoga. Ora che nessuno ci va più. Mi chiedo perché questo cambiamento, vuoi portare la rovina su questa casa?

    Rolf non aveva mai parlato così a suo fratello, ma quel giorno oramai aveva preso la sua decisione. Rincarò: Tu non hai mai creduto alla legge né ai profeti, perché ora fai finta di farlo?

    Josef con una ostentata pazienza che non gli era solita disse: "Tu non sai in cosa io credo. Ci attendono tempi difficili e dobbiamo prepararci. Le nuvole si addensano all’orizzonte, ma la tempesta passerà e ci lascerà ancora qui. La vera prova è come supereremo la prova stessa. Dobbiamo rafforzarci…"

    Rafforzarci? scattò Rolf, e in che modo? esponendo i nostri arredi alla finestra? provocando quei bastardi? i nazisti?

    Il Signore non ha l’abitudine di mandare prove insormontabili al Suo Popolo Josef ora aveva lasciato le vesti del padre patriarca e si stava appropriando dello scialle da preghiera del vecchio rabbino loro zio. Dio, sempre più distante dal mondo di Rolf era per il fratello maggiore la nuova rivelazione: vecchia di migliaia di anni la signoria di Dio sul Mondo e sulla Storia aveva trovato in Josef un nuovo adepto.

    Esiste solo un modo per affrontare questi tempi proseguì il fratello. Seguire la Legge come e più di prima, rinnovare l’Alleanza con Dio e Lui manterrà la Promessa. Dunque sì, d’ora in poi vedrai dei cambiamenti in questa casa e dovrai adeguarti, se vorrai rimanere sotto questo tetto.

    Stupidaggini disse Rolf.

    E’ una bestemmia!! scattò la madre seccamente risvegliandosi dal suo nero letargo senza alzare gli occhi dal piatto, ma Josef fece un cenno. La donna si alzò e si ritirò in cucina senza più parlare.

    Non ti sarai fatto intimorire troppo da quel fanatico e dalle sue SA giù a Berlino? interruppe Henry.

    Quel fanatico, come tu lo chiami, da qualche giorno è il nostro cancelliere e a Berlino ora il Reichstag è un cumulo di macerie. Tutti sanno chi è stato, ma ognuno sembra credere alle voci incredibili di un complotto comunista e…

    Ed ebreo, come noi… aggiunse Albert con una arguzia che non gli era propria.

    Quando la gente crede a queste fantasie con tanta facilità… continuò con maggior energia Rolf, ma Josef lo interruppe subito.

    Amburgo non è Berlino. Qui non è là, la gente è diversa, il popolo è diverso il Partito Nazional Socialista dei Lavoratori non è forte come noi socialisti. Amburgo, una città-stato commerciale di antichi origini dove non era strano parlare diverse lingue e appartenere a gruppi ugualmente eterogenei. In città il partito socialista aveva delle basi forti, là era cresciuto, nella periferia urbana, nelle banchine del porto e finanche nelle belle strade del centro.

    Stupidaggini disse di nuovo Rolf e rincarò con forza. Il socialismo è come il mobile del salotto, sembra solido ma dentro è tarlato e vuoto. Si sbriciolerà al primo colpo che gli verrà inferto! Nessuno aveva mai detto una cosa simile a quella tavola, ma il pensiero che quella potesse essere la verità era cresciuto dentro ciascuno di loro. Il vecchio Impero, odiato ma stabile ed efficiente era stato sostituito dal vuoto, da promesse non mantenute e dalla cronica debolezza di una Repubblica nata nel disastro economico e strangolata dal trattato di Versailles. Nei pochi anni di sovranità dello Stato si era sopravvissuti, ma la gente adesso si sentiva perduta. Il Socialismo poi non aveva mantenuto le sue promesse. E il popolo tedesco non sarebbe rimasto a lungo inattivo, il popolo avrebbe rivolto lo sguardo altrove.

    Tanti pensieri si ammassavano nella testa di Rolf ma l’unica cosa che seppe dire fu: Un tedesco non aspetterà ancora!

    E cosa dovrebbe fare un tedesco?? Seguire i vaneggiamenti di quel pazzo? disse Henry appoggiando il fratello maggiore.

    Sarà fin troppo facile continuò Rolf. Il popolo esasperato dalla nuova crisi venuta da lontano era sfiduciato e aveva paura, una ricetta pericolosa per chi è abituato a combattere e agire. Qualcuno che dica cosa fare, dove incanalare energia, rabbia, voglia di rivincita: una ricetta semplice che funzionasse o sembrasse funzionare, fin da subito, era tutto quello che serviva. I nostri vicini saranno i nostri nemici! concluse.

    Nemici? Ma cosa dici?? Sei solo un ragazzino! Anche noi siamo tedeschi, noi più di loro abbiamo reso grande la nazione urlò di un tratto Josef scattando in piedi e sbattendo il pugno sul tavolo.

    "Parassiti, bastardi, indegni di vivere, così dice il Libro" disse Rolf con voce bassa e lenta come per dare più forza alle sue parole.

    Ma non hai letto anche tu il Libro? Il Mein Kampf, la bibbia laica del Reich.

    Josef lo aveva letto con attenzione e come sua abitudine aveva riempito le pagine di note e commenti lasciando libero sfogo alla matita. Le centinaia di annotazioni tradivano l’idea di Josef che cercava tra le righe prove e indizi per avvalorare la sua tesi: credeva che il libro fosse sì l’opera di un giovane agitatore, ma anche il pensiero di un futuro statista. Deprecabile, certo, ma alla fine dei conti sensato. E se non fosse stato così?

    Io ho letto il libro dopo di te, e ho visto quello che tu hai sottolineato, le note che hai preso. Tu non pensi che sia tutto vero.

    Tutto vero? Le idiozie economiche? La razza? La democrazia destabilizzatrice della Società? la cieca devozione dell’individuo al gruppo? allo Stato? l’esoterismo? il culto del capo supremo? I traditori di novembre, il lavoro, la piena occupazione per i tedeschi, l’autarchia e la lotta ai nemici del popolo. I nemici del popolo, chiari, semplici e identificabili senza difficoltà: il diverso, l’ebreo, il comunista, lo straniero. Un nemico biologico più che ideologico, facile da individuare, ancor più facile da combattere, con solo il piccolo sforzo di dover ridefinire il bene e il male.

    Pagliacciate come al di là delle Alpi! sentenziò Josef con un cenno della mano che sembrava voler disperdere una nuvola di fumo davanti agli occhi.

    Sono risposte! Risposte a tutti i problemi di adesso, a tutto quello che ora è in crisi. E sta funzionando e funzionerà sempre più disse Rolf senza farsi intimorire dagli occhi fissi di tutti i suoi fratelli.

    E allora parti, vattene! Prima che le nuvole nel tuo cervello diventino una tempesta e ti travolgano sentenziò Josef.

    Lo farò domani fu la risposta inattesa.

    Tutti si fermano e lo guardarono attoniti. Sarah si impietrì e rimase con la forchetta a mezz’aria senza più poter respirare.

    Parto con una nave domattina all’alba. Vengo ora dal molo dove ho contrattato con il capitano del bastimento i termini della mia presenza a bordo; avrò un angolo dove dormire e un pasto alla sera, se saprò rendermi utile.

    Sei solo un ragazzino, ti ruberanno soldi e i bagagli non appena fuori dal porto. Sempre che tu di soldi ne abbia! Quale è il vero motivo della tua visita oggi? apostrofò con sospetto Josef.

    Non ti preoccupare non sarò derubato e tranquillizzati non ti chiederò nulla, caro fratello Rolf aveva in mente di partire con pochissimo bagaglio e praticamente senza denaro.

    Sono qui solo per dirvi addio.

    Perché… perché domani? disse Sarah di scatto con voce stridula senza più nascondere disperazione.

    Questa mattina ero per strada cominciò a raccontare il ragazzo, due di fuori città mi hanno avvicinato e mi hanno sputato sui piedi dandomi del bastardo.

    Rolf non li conosceva e non sapeva come loro conoscessero lui, ma certo sapevano che era ebreo, come tutti nel quartiere. Quando si erano avvicinati Rolf stava pensando a tutt'altro e l’aggressione lo aveva colto di sorpresa. Il più basso dei due lo aveva urtato. Era un tipo magro con la faccia affilata e lo aveva fatto vacillare. Rolf aveva immediatamente ripreso l'equilibrio e aveva risposto agli insulti dei due uomini. Non aspettavano altro. Uno si era gettato per bloccarlo da dietro le spalle mentre il suo compare aveva cominciato a tirare cazzotti veloci e precisi. Molte persone passavano per strada ma nessuno lo aveva aiutato, come se nulla stesse accadendo. E fra questi il signor Schneider del negozio all’angolo che conosceva Rolf da quando era piccolo, gli vendeva le caramelle e a volte gliele aveva regalate incontrandolo per strada la domenica. Il signor Schneider aveva sempre delle caramelle in tasca per i bambini, era gentile. Ora stava scivolando via con passo frettoloso e la falda del cappello abbassata.

    Ma aveva fatto l'errore di guardarsi indietro e aveva incrociato gli occhi del bambino di un tempo. Schneider era riuscito a fare altri due passi, poi era tornato. Così stava raccontando Rolf alla famiglia.

    Vedi che ti ha difeso? disse Sarah cercando disperatamente di trovare del buono nella storia che avevano tutti sentito.

    Non capisci? disse Rolf, quando Schneider mi ha separato da loro gli l’ho visto alzare la mano su quel bastardo, pensavo che gli mollasse un cazzotto, invece... invece il suo gesto si era smorzato diventando una pacca sulla spalla per aggiustargli il soprabito. Il signor Schneider li aveva mandati via con un cenno che sembrava offrire le sue scuse e chiedere pazienza. A lui invece aveva dato, con evidente sforzo, la mano per farlo rialzare.

    Poco vicino c'era un poliziotto che aveva assistito a tutta la scena. Aveva riso divertito fino all'arrivo di Schneider, poi aveva cambiato espressione e si era avvicinato minaccioso per proteggere gli assalitori. Tutto però si era risolto troppo velocemente.

    Schneider mi conosce da quando sono nato... concluse Rolf. Le nuvole sopra di noi sono già una tempesta e il cielo è già più nero del nero.

    Non vuol dire nulla e forse ha ragione Schneider, sei un piantagrane, lo sei sempre stato e se andartene è quello che vuoi, allora fallo.

    Tutti a tavola rimasero per un lunghissimo istante in completo silenzio. Senza dire altro Rolf spostò lentamente la sedia e si diresse in salotto a recuperare il soprabito. Si infilò il cappotto nel corridoietto e diede un’ultima occhiata alla famiglia ancora immobile: Albert aveva lo sguardo stupito con le posate a mezz'aria e la bocca leggermente aperta. Ora riconosco mio fratello, pensò Rolf stringendosi la cintura sui fianchi.

    Assistere a tutto questo era stato fin troppo per Sarah che si alzò di scatto facendo stridere la sedia sul pavimento. Corse alla porta. Sarah prese entrambe le mani di Rolf e con gli occhi rigati di lacrime ingoiò i suoi singhiozzi: Dove andrai Rofy? Rolf si trovò a sorridere di nostalgia, Sarah aveva usato il suo nomignolo da bambino.

    Palestina rispose lui guardando gli splendidi occhi neri, profondi e umidi di lacrime. Rolf le strinse le mani e sentì la presa di lei farsi più forte. Guardò la ragazza e pensò che se la avesse tirata a sé lei gli sarebbe caduta tra le braccia come un bambino con la sua mamma.

    Portarla con me? pensò Rolf, ma come poteva farlo?

    Sarebbe stato facile. Sarebbe bastato stringere poco più forte le mani già nelle sue, guardarla e chiederle di venire con lui. E lei avrebbe accettato, dietro i suoi occhi c’era la richiesta disperata di essere rapita. Ma Rolf aveva già sfidato troppo la famiglia e la sua vita. Cercò nel suo cuore cosa avrebbe detto.

    Ti prometto che… Sarah lo fermò sfiorandogli le labbra con due dita come per chiedergli di non promettere quello che non avrebbe potuto mantenere.

    Ti prometto che non ti dimenticherò mai!

    Palestina.

    Rolf si era immaginato la Palestina come un posto sempre caldo riarso dal sole sotto un cielo senza nuvole. Caldo e polvere tutto l’anno, non come la sua città lassù al nord. Invece era sbarcato in freddo giorno di tempesta, vento teso e pioggia abbondante. Un giorno buio senza sole fino a sera. Si era accorto fin da subito quanto poco conoscesse il posto in cui era finito, l’unica cosa che sapeva era che proprio là era voluto arrivare.

    L’attraversata era stata lunga, era rimasto per giorni chiuso sottocoperta fino a Gibilterra. Poi le cose erano migliorate e aveva goduto del vento fresco del Mediterraneo passeggiando sul ponte della nave. In pochi giorni il sospetto per quel clandestino dell’ultimo minuto era svanito e il capitano aveva cominciato a chiamarlo per nome, assicurandosi che il ragazzo ricevesse un pasto caldo come si doveva; lo stesso degli altri marinai. Rolf risultava simpatico. Sulla nave aveva conosciuto Sander, un ragazzo olandese che era già stato in tutti i posti del mondo. Almeno a sentire lui. Sander era rimasto divertito nell’apprendere che Rolf, minorenne, clandestino, senza bagaglio, intendesse immigrare illegalmente in Palestina senza sapere nulla di nulla del paese in cui era diretto.

    Ma la Gran Bretagna favorisce l’immigrazione degli ebrei aveva risposto con semplice ingenuità riferendosi alla politica generale del Mandato affidato agli inglesi dalla Società delle Nazioni quando l’Impero Ottomano si era disgregato.

    "Certo! Il Focolare Nazionale!" disse Sander, riferendosi alla famosa dichiarazione di Balfour del 1917 che aveva dato il via alla massiccia immigrazione ebraica negli anni venti.

    Sai, di ebrei come te ne sono arrivati tanti, anche troppi e ora ci si pesta i piedi. Non pensare di poter scendere dalla nave tra applausi di benvenuto. Per fortuna che il tempo sarà brutto Sander lo aveva messo in guardia.

    In Palestina il flusso migratorio si era rafforzato di anno in anno, molti ebrei erano arrivati dall’Europa e dal distrutto Impero zarista; sia poveri che ricchi avevano comprato e lavorato le terre migliori cedute con leggerezza da pigri latifondisti arabi. Con la grande depressione

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