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L'amore che hai in più
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E-book655 pagine6 ore

L'amore che hai in più

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Info su questo ebook

“L’amore che hai in più” è un libro-documento, con molte fotografie e articoli di stampa, costituito da “frammenti di memoria e anti- memoria” di oltre cento rappresentazioni culturali e teatrali incentrate su alcuni dei grandi personaggi della storia dell’umanità (Gesù, Euripide, Sofocle, Dante, Shakespeare, Leopardi, Nietzsche, etc) . Ci sono dentro aspirazioni, sogni , utopie, filamenti azzurri e d’oro d’un anima sotterranea, una sorta di zibaldone scritto dietro i “sipari”, tra una prova e l’altra. Parla del teatro portato in scena da un gruppo di amatori che lo vedono non come evasione, o diversivo, ma come una vera e propria celebrazione di un rito che si ripete da millenni. C’è un po’ di tutto, la poesia, la pittura, la musica, il pathos, l’ironia . Ripercorre la strada faticosa e piena di fascino dell’arte, dai carri di Tespi ai tempi nostri, un lungo percorso per giungere al… Nulla. Ma in fondo, -dice l’autore, - è tutto qui il gioco della vita: fare un girotondo, un teatro delle nostre solitudini che non s’incontrano mai per caso, per farci innamorare di un’idea, di un progetto da fare insieme, di una follia che dura fino all’ultimo respiro.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2020
ISBN9791220308595
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    Anteprima del libro

    L'amore che hai in più - Augusto Benemeglio

    palpiti.

    QUEL CHE RESTA

    Che resta a me di quello che ero qui/ Cosa resta oltre il morire?

    Tornare a Roma, dopo quattordici anni di vita a Gallipoli e nel Salento (dov’ero già stato per undici anni, come Ufficiale della Capitaneria di Porto e, in quel periodo, mia moglie e io avevamo acquistato l’unica casa che abbiamo mai posseduto), era un trauma, significava per me ricominciare da zero. Dimenticare tutto ciò che avevo fatto, ossia troppo: teatro, letteratura, arte, giornalismo televisivo presso l’emittente locale Teleonda Gallipoli, in cui avevo intervistato molti noti personaggi della politica e dello spettacolo.

    Ma mia moglie aveva sopportato oltre ogni limite la separazione, l’esilio dalla sua città e dai suoi familiari. Tornavamo a Roma in quel fine dicembre 2004, con opposti stati d’animo: lei partiva direttamente per la nuova casa romana, mentre io, in un ultimo soprassalto (ma era un impegno assunto in precedenza), andavo a presentare una mostra di pittura nel Palazzo del Capitano della magnifica città medioevale di Ascoli, di un paesaggista marchigiano dal tocco lieve: Luciano Ascolani.

    Tornare a Roma significava dover resettare tutte quelle mie attività amatoriali, tranne una, che non ho ancora menzionato: il tennis.

    LA TRAGICA BELLEZZA DEL TENNIS

    Ah, che incrocio nel tuo polso/ del tempo contro il tempo!

    Un tempo anche mia moglie giocava a tennis, ma aveva dovuto presto abbandonare per una delicata operazione a cuore aperto, nel 1979. Ai tempi belli avevamo occasionalmente giocato sullo stesso campo di tennis dello scrittore Giorgio Bassani, quello de Il giardino dei Finzi Contini, che era stato un eccellente tennista, vincitore dei campionati regionali dell’Emilia Romagna, prima delle leggi sulla razza. Roma era anche la mia città, pur non essendoci nato. Mi ci avevano portato che avevo solo due anni e mezzo, dopo la morte di mia madre, a Venaria Reale. A Roma avevo trascorso l’infanzia e gran parte dell’adolescenza, e anche una parte della mia carriera militare: per quattro anni avevo lavorato allo Stato Maggiore, a Palazzo Marina, e altri quattro anni presso la Capitaneria di Porto, che allora era un ex Casello fluviale dello Stato Pontificio, a porto fluviale. E avevo frequentato il Circolo Marina, dov’erano sei campi da tennis in terra battuta. Per un periodo di tempo avevo fatto addirittura il direttore sportivo, e in una circostanza ero riuscito anche ad arrivare in finale nel torneo sociale. Ma ora nella capitale ero solo uno dei tanti pensionati, che vi dimorano spesso come anime smarrite.

    Che ne sanno loro di te?/ Neppure ti conoscono/ O appena ti conoscono/ Tu sei disperato, tu soffri, / non puoi dormire/Che cosa farai domani?

    Trovai quasi subito un circolo tennis confacente alle mie esigenze, il più vicino possibile al luogo in cui abitavamo (Malafede-Acilia): era nel parco della Madonnetta, a circa un chilometro e mezzo di strada. E qui, dopo un corso con il maestro di turno, che nonostante riuscisse a battermi faticosamente al tie-break, e mi vide poi semifinalista del torneo sociale, e addirittura (contro ogni pronostico) vincitore di un torneo sul campo in cemento, a 4 games, con il killer point, da lui stesso organizzato, alla fine (eravamo in giugno e fiorivano le ortensie e i gelsomini), mi fece un profilo da classica pippa: scarso di rovescio, che gioca solo in back, dritto debole, servizio macchinoso, stile mediocre, approssimativo a rete. Ci rimasi davvero male perché durante i tre mesi di corso non mi aveva detto praticamente nulla delle mie gravi carenze, anzi, si era congratulato con me, perché battevo tutti i suoi allievi prediletti. Aveva guardato solo al mio stile, che onestamente non è da manuale del tennis. Allora pensai di citargli le parole dello scrittore-tennista David Foster Wallace: il tennis non è solo stile, ma la combinazione perfetta di tante cose, atleticità, arte, potenza, astuzia e arguzia. Nel tennis c’è quello strano miscuglio di prudenza e abbandono che chiamano coraggio, quello che permette a un N.C. ultrasessantenne di battere una schiera di giovani presunti talenti. È uno sport che richiede esperienza e intelligenza, come tutti gli sport del resto. Ma nel tennis anche un singolo colpo in un dato scambio di un punto è un incubo di variabili meccaniche. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Ecco la ragione per cui il tennis è l’impresa essenzialmente tragica del migliorare e crescere.

    Ma non gli dissi niente di tutto ciò. Anzi, mi venne da pensare al teatro, che avevo appena lasciato e a quello che io dicevo ai miei attori. Ciascuno ha il suo ruolo e deve saperlo svolgere al meglio possibile. In questo caso – dissi a me stesso – il maestro è lui, e tu sei l’allievo. Così ritirai il mio profilo, me lo portai a casa, e poi lo stracciai. In ciascuno di noi (Paolo Villaggio era sicuramente un genio) vive qualcosa del ragionier Fantozzi. In realtà, da presuntuoso ex calciatore non avevo mai creduto fosse necessario prendere lezioni per giocare a tennis a livello amatoriale, ma sbagliavo di grosso. Mi ero pregiudicato almeno il trenta, o quaranta per cento dei colpi riducendo quindi le mie possibilità di diventare un buon tennista N.C. Torno con la mente sempre al teatro e mi viene in mente una frase di Eugenio Barba: Per ottenere la sorpresa, sorprendete voi stessi, accantonate ogni oncia di orgoglio e di presunzione. Siate umili.

    Piero Girardi

    Tra i miei compagni-contendenti d’allora c’era Big Piero Girardi (un omone di un metro e ottantacinque per centodieci chili… abbondanti), che sarà fondamentale per la mia rinascita artistica, ma allora nessuno di noi due sapeva nulla dell’altro. Giocavamo a tennis, una o due volte la settimana, ce le davamo di santa ragione, ma con una naturale corrente d’empatia (tutto merito suo), e, finita la partita, ci si salutava contenti con un arrivederci alla prossima stazione. Una volta, Piero, che aveva dritto e servizio devastanti, tenuto conto della sua notevole stazza, ma era carente nel rovescio e negli spostamenti in avanti, mi propose di fare un doppio. Accettai. Io ero con l’ecuadoregno mancino Julio Baus, campione del mondo dei break mancati consecutivamente (mi sono fermato a 31, poi ho smesso di contare) , lui col suo amico Ezio Pifferi. Ecco un altro nome che sarà importante per il prosieguo, o, meglio, la riapertura di certe attività artistico-culturali...

    M’inoltro nel futuro

    e sono già il passato

    di quelli che verranno.

    LA SCALA DI USELLINI

    Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.

    E così passò il mio primo anno nella zona di Malafede dove eravamo andati a vivere, al nostro ennesimo rientro, dopo ben tredici traslochi in luoghi sparsi per tutta la penisola italica. Mi era venuta l’idea di fare un profilo di tutti i pittori a cui erano dedicate le vie di Malafede, molti dei quali completamente sconosciuti al grande pubblico. Ne parlai con i responsabili del quartiere, ma non trovai nessuna rispondenza. A dire il vero avevano ben altri problemi di natura sociale. Tuttavia decisi lo stesso, per mio conto, di parlare di alcuni pittori del quartiere e feci due articoli, La scala di Usellini e Modigliani e i pittori di Malafede.

    Mi affascinò molto la personalità di Gianfilippo Usellini, il pittore del realismo magico a cui è stata intitolata una lunga via dove un tempo c’erano degli splendidi eucalipti, poi abbattuti per realizzarci un Megastore. Con l’opera La scala, il pittore milanese sembra voler dire a tutti noi: amici del condominio, ciascuno di noi si trova a un certo piano, a un certo gradino, a un certo terrazzino, ed è comunque in costante cammino, nella ricerca del proprio senso di esistere. Si sale o si scende, come nella vita. Usellini considera la sua pittura come un teatro. Dispone figure e cose nella scatola magica del quadro come se le collocasse su un palcoscenico e poi intesse intorno a loro le fila di un racconto, lasciando intuire un prima e un dopo e, soprattutto, presagire un oltre. La pittura, allora, diventa letteratura, narrazione visiva, teatro di immagini, ma anche fatto morale, metafisica, religiosità. Maestro, come non ricordare la scala di Giacobbe?

    La mia pittura vuole rappresentare il bene e il male, la loro perpetua lotta e il loro continuo intrecciarsi e giocare sulla bilancia della vita. Si tratta di un problema che mi ossessiona fin dagli anni ormai lontani dell’infanzia e dal quale non uscirò che con la morte… Il problema che mi interessa, al di fuori di tutto, è morale e spirituale; ognuno deve poter distinguere il bene e il male; il mio obiettivo è di far capire che il bene e il male, ognuno li ha di fronte in libera scelta.

    La sua visione è cattolica. Egli avverte con malinconia i limiti dell’uomo, i suoi conformismi, la sua capacità di resistere a tutto tranne che… alle tentazioni, come avrebbe detto Oscar Wilde. Dipinge, insomma, un uomo senza qualità. Ma, in modo uguale e contrario, ci insegna le qualità del sogno, del gioco, della fantasia: di tutto ciò che gli uomini definiscono infantile, e che invece è l’esito più alto della maturità e della sapienza.

    Dipingo un po’ per cercare di sorridere,

    un po’ per distrarre il mio prossimo

    che, in fondo, senza sapere perché,

    sento di amare.

    MODIGLIANI E I PITTORI DI MALAFEDE

    Compagni, a Malafede,/ Roma vi chiama/ e vi aspetta, vi cerca/ per compiere l’alchimia quotidiana.

    Nel quartiere di Malafede, antico fosso del Tevere sito tra la Colombo, la via Acilia e l’Ostiense, dove – nonostante le insidie, le paludi e i briganti – i romani agiati del IV secolo a.C. si costruivano le loro ville rustiche (ne è un esempio la villa Fralana, sita nel parco, di cui è visibile la recinzione del 2001, ormai semi-smantellata, qualche pietra bianca, e l’erbaccia incolta che si arrampica nel cielo), tutte le strade sono dedicate a pittori contemporanei, che nessuno conosce, tranne gli addetti ai lavori e i cultori dell’arte. Abito in quel comprensorio da otto anni, e all’inizio m’era venuta l’idea strampalata di fare delle piccole monografie di tutti gli artisti di Malafede, magari con l’ausilio di qualche immagine o audiovisivo. Niente di particolare, ma dare l’idea agli abitanti del luogo (sparuti, siamo meno di duemila) di chi fossero quei signori delle strade in cui sono domiciliati, Usellini, Menzio, Cappiello, Ghiglia, Calderara, Gioja, Irolli, Battaglia, Viner etc. Alcuni di questi pittori furono amici, o conoscenti del grande Modì, Amedeo Modigliani, artista inconfondibile, unico nel suo genere, – madonne senesi e angeli decaduti, arabesco quasi botticelliano, colli da cigno, ritmo e segreta architettura del movimento, delicato e mirabile pittore del dolore, Babele e unità dell’anima. Modigliani è stato – mi disse il vecchio Carrieri, una volta, a Taranto, – un peccatore rovinoso, uno di quelli che tutto bruciano per arrivare al centro dell’anima, malinconico, aristocratico, nobile e popolare, sensuale, amatissimo dalle donne d’ogni genere e classe sociale (modelle, prostitute, poetesse come l’Achmatova e Beatrice Hastings, o ragazze di buona famiglia come Jeanne Hébuterne, l’ultima sua compagna e musa), sempre innamorato e sempre disperato, angosciato, devastato da alcool, assenzio, hascisc e cocaina, vero poeta maudit, alla francese, e forse anche personaggio romanzesco (molti sono i libri e i film ispirati alla sua vita e alla sua arte).

    Il primo dei pittori di Malafede che attraversarono la sua esistenza travagliata, e gli fu amico sincero e confidente, è stato Oscar Ghiglia, a cui è intitolata la più brutta delle vie del quartiere, ma anche la più alacre, industriosa, frequentata, con una teoria di officine, bar, scuole, ristoranti e pizzerie; poi ci fu un mancato incontro con Leonetto Cappiello (è una traversa breve e silenziosa della lunga via Menzio) che sfondò letteralmente come disegnatore e cartellonista, a Parigi, la città che consegnò Modì alla storia e alla leggenda, ma anche la città in cui patì letteralmente la fame e vendette i suoi disegni nei caffè a cinque franchi per un piatto di minestra, un po’ di assenzio e hascisc, una specie di uscita di sicurezza dall’inferno della sua malattia, la tubercolosi. Ed è a causa di questa malattia, manifestatasi prestissimo, sotto forma di febbre tifoidea, che la madre, l’aristocratica Eugenia Garsin, donna colta, poliglotta, di temperamento artistico, decise – ai primissimi del Novecento – di accompagnare il figlio diciassettenne in un viaggio verso il magico sole del Sud. Si recarono a Napoli, Capri, Amalfi, poi a Roma, dove Modigliani passò l’inverno del 1902 a copiare opere nei musei.

    Oscar Ghiglia

    E da Roma scrive a Oscar Ghiglia, ragazzo di umili origini che frequentava insieme a lui, pur avendo otto anni di più, la stessa scuola dei post-macchiaioli del maestro Massimo Micheli, discepolo di Giovanni Fattori:

    … Ti scrivo per dirti che ho raccolto verità sull’arte, dopo aver compreso le bellezze di Roma, e di essere sulla soglia dell’orgasmo che precede la gioia, a cui succederà l’attività vertiginosa, ininterrotta dell’intelligenza. Vorrei che la mia vita fosse come un fiume ricco d’abbondanza, che scorresse con gioia sulla terra. Tu, caro Oscar, sei l’unico a cui posso dire tutto: ebbene io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera… Mentre ti parlo, io guardo Roma che non è fuori, ma dentro di me, come un gioiello terribile incastonato sopra i sette colli, come sopra sette idee imperiose.

    Dedo, come tutti lo chiamavamo a Livorno – dirà Oscar Ghiglia – si trovava in quell’esaltazione un po’ dannunziana e aveva già ripudiato la scuola dei macchiaioli e Livorno. Voleva esprimersi e realizzarsi attraverso un proprio linguaggio e per farlo doveva andar per forza a Parigi, che allora era la capitale del mondo della cultura. La sua insofferenza gli farà distruggere tutti i suoi disegni e i suoi dipinti giovanili. Mi ricordo un episodio. Una mattina di primavera il Micheli ci portò in campagna, camminava davanti con Lloyd e Romiti. Io e Dedo rimanemmo indietro. Lui aveva appena sedici anni, era timido, ma molto risoluto, quando gli frullava qualcosa per il capo. Io, pur essendo già ventiquattrenne, ero un autodidatta, non avevo studiato, né frequentato scuole in precedenza. Lui mi guardò dritto negli occhi e mi disse che era scontento del suo lavoro; allora io, considerata la sua giovanissima età, lo incoraggiai rispondendo che la strada artistica era lunga e difficile, ma che prima o poi saremmo giunti a fare le stesse cose di Romiti e Lloyd, che studiavano da molto più tempo, e già avevano fatto delle mostre con discreto successo. Ma Dedo mi raggelò dicendomi che non gli interessava affatto quello che faceva con Micheli. Non voleva continuare quel cammino, anzi, voleva uscirne a tutti i costi. Era uno che detestava il passato prossimo, la tradizione dei macchiaioli toscani. Odiava dipingere i paesaggi. Amava andare nei musei e guardarsi i maestri preferiti, i senesi per esempio. A Napoli conobbe le sculture di Tino di Camaino e se ne innamorò. Nelle sculture che ho visto a Parigi, quando lui non era più in vita, si sente l’influenza sia di Tino che dei negri d’Africa. Dedo era più avanti di tutti noi, culturalmente parlando: parlava correntemente quattro lingue, conosceva Nietzsche, Baudelaire, e aveva un senso critico fuori dell’ordinario. Ma era troppo drastico. I suoi giudizi erano pistolettate. E non accettava il contraddittorio.

    Firenze

    In quel periodo i due fanno sodalizio, hanno uno studio in comune a Firenze, e si iscrivono alla Scuola libera di nudo retta da Giovanni Fattori in cui le lezioni si tenevano in una soffitta decrepita, male illuminata e con scarso riscaldamento. A un certo punto Dedo dice all’amico che Fattori sarà pure un maestro di cavalli e di battaglie celebrative, di paesaggi, maestro sommo di incisione, per carità, ma non del nudo. Del nudo non sa nulla! E poi quella squallida soffitta! Decise di lasciare la scuola, ma non smise di frequentare i caffè di Firenze e le donnine allegre, che poi invitava nella sua stanza per ritrarle discinte, a letto. Erano modelle prese dalla strada, vive e dissolute, donne autentiche, con una loro umanità, una loro sessualità, donne del suo tempo e non manichini di carne, mi disse Modigliani. Le dipingeva e poi ci andava a letto.

    Fu in quel periodo in cui aveva continuato a frequentare la scuola di nudo del Fattori, a prezzo anche di notevoli sacrifici, che Dedo iniziò a bere assenzio, e beveva forte. Un giorno, seduti al caffè Giotto di Firenze, mi fa: Oscar, perché non vieni con me a Parigi? Faremo cose favolose, insieme. Ma io gli dissi di no, e aggiunsi che lui si stava comportando male, da ragazzino viziato, nei confronti della madre e dello zio Amedeo che lo spesavano in tutto e per tutto. Tu sperperi i loro soldi, Dedo. Loro ti mantengono convinti che tu studi, e ti curi, e invece fai il vagabondo, vai con le donnine, e bevi come un alcolizzato. Non ti vergogni?…

    E allora lui mi mandò a quel paese, alla maniera livornese.

    Venezia

    Ma la loro amicizia rimase immutata, tant’è che l’anno dopo, da Venezia, dove Dedo proseguiva il suo viaggio di formazione artistica (si fermerà due anni nella città lagunare), gli scrive un’altra lettera dannunziana:

    L’uomo che dalla sua energia non sa continuamente sprigionare nuovi desideri e quasi nuovi individui destinati per affermarsi sempre, e abbattere tutto quello che è di vecchio e di putrido restato, non è un uomo, è un borghese, uno speziale, quel che vuoi. Tu soffri, hai ragione, ma il tuo dolore non può forse divenire per te uno sprone perché tu riesca a ritrovarti ancora e a portare il tuo sogno più in alto ancora, più forte del tuo desiderio? Avresti potuto in questo mese venire a Venezia: però decidi, non ti esaurire, abituati a mettere i tuoi bisogni estetici al di sopra dei doveri degli uomini. Se vuoi fuggire da Livorno, io posso fornirti finché posso, ma non so se è il caso. Sarebbe comunque per me una gioia. Ad ogni modo rispondimi. Da Venezia ho ricevuto gli insegnamenti più preziosi nella vita; da Venezia sembra di uscirmene adesso come accresciuto dopo un lavoro.

    Fuggire da Livorno, fuggire dai macchiaioli. Fuggire e mettere i bisogni estetici al di sopra dei doveri degli uomini, ecco abbozzata la sua morale vagamente nicciana, che lo farà ballare sui tizzoni ardenti, che lo brucerà, lo consumerà, lo distruggerà nel corso di pochi anni. E vorrebbe che fuggissero anche gli amici e gli artisti che stima come Ghiglia. Gli rinnova l’invito di andare a Parigi. Ma Oscar non ha abbastanza coraggio e follia da seguirlo, e poi non sente il desiderio irresistibile come lui di andarsene dalla sua terra, non avverte l’esigenza di tagliare il cordone ombelicale che lo tiene legato al mondo pittorico del suo amatissimo maestro Giovanni Fattori. Ghiglia rimane a casa, e rimarrà un post-macchiaiolo, che oggi si fa fatica – onestamente – a trovare, anche fra i minori, nelle enciclopedie dell’arte.

    Parigi e Lenin

    Ma per Dedo Ghiglia rimarrà sempre un grande talento, l’unico pittore italiano degno di nota, dirà pubblicamente, a Parigi, nel 1909, – ormai diventato Modì –, ad Anselmo Bucci, architetto navale, incisore, pittore, e a un gruppo di suoi amici francesi nella Butte, in un alberghetto di place du Tertre sfiorato dai rami delle vecchie acacie: In Italia non c’è nessuno. Sono stato dappertutto. Non c’è un pittore che valga. Sono stato a Venezia, negli studi… In Italia c’è Ghiglia, c’è Oscar Ghiglia e basta.

    E chi è questo Carneade?, gli disse Bucci.

    È l’unico che abbiamo, ribadì Modigliani.

    Nel frattempo, a Venezia, con Boccioni, Marussig, Mauroner e il giovanissimo Cadorin (ha solo quattordici anni), Dedo ha frequentato poco i corsi di studio, ma molto i musei (Tiziano, Tiepolo, Bellini) e le ragazze del sestiere, dove, alla Giudecca, insieme a un baronetto napoletano, si davano alle gioie dello spiritismo e dell’hascisc, alla maniera baudelariana. Insomma il mito del pittore maudit in realtà parte da lontano (allora aveva appena diciannove anni), ma un conto è drogarsi a Venezia e un altro a Parigi, dove, insieme all’amico Maurice Utrillo sarà presto famoso per le solenni sbornie che si prendevano quasi ogni sera nella vera Accademia di Parigi di quel tempo, ossia i caffè, i bistrot, i cabaret e le osterie, dove venivano condotte le discussioni più accese sull’arte, la poesia, la musica, e si riunivano i nuovi spiriti del XX secolo. È qui che Modigliani conosce Picasso, Matisse, Derain, Apollinaire, Diego Rivera, Max Jacob, Lipchitz, Soutine, Brancusi, artisti e poeti provenienti da tutta l’Europa, è qui che conosce Lenin, a cui farà uno scherzo memorabile, dando fuoco al giornale che stava leggendo, cosa che fece molto arrabbiare Matisse, che tolse il foglio in fiamme dalle mani del leader russo, mentre lo stesso Lenin assisteva divertito alla scena. Siamo nell’autunno del 1910 ed è in questa circostanza che Modigliani, - ancora in cerca della propria arte, che lo renderà unico per eleganza eletta e armoniosa, per i suoi rossi da Santa Caterina, per il perfetto equilibrio tra l’angelica e decaduta poesia interiore e la profonda tristezza del suo destino, che troviamo riflessa in tutti i visi delle donne ritratte, permeate e quasi fasciate di un ineffabile pathos[kc4][BA5][BA6][BA7]- avrebbe potuto dare una svolta alla propria carriera, contattando Leonetto Cappiello, anche lui livornese, di nove anni più grande di Modigliani, uno dei pochi artisti italiani di successo, uno che era veramente riuscito a conquistare Parigi, una città in cui si mescolano miseria, disperazione, umiliazione, incomprensione, castità e spudoratezza, grandezza, generosità e violenza sensuale.

    Cappiello

    Leonetto Cappiello è il più famoso disegnatore del Figaro, e il caricaturista più in voga della vita teatrale francese. Ma è anche uno che ha rivoluzionato l’arte dell’affiche, il suo cavallo rosso montato da una donna in abito verde sfolgorava su tutti i muri di Parigi. Ed è il cartellonista che ha firmato il famosissimo cioccolato Klaus.

    Lui e Dario Nicodemi (il drammaturgo livornese de La Nemica) sono delle potenze nel vero senso della parola, – gli dice Renato Natali, – un altro allievo della scuola di Micheli che è andato a scovare Modì a Parigi e l’ha visto messo davvero male.

    Era irriconoscibile, aveva la testa rapata, e vestiva con un sacco di iuta. Viveva in una specie di serra, un orticello stretto fra delle palizzate. Contro la serra stavano allineati dei lastroni di pietra, erano le sue sculture.

    Abbracci e frenetiche manate sulle braccia. Si avviano verso il bistrot.

    "Si brindò alla nostra città, al nostro mare. Io ordinai un cappuccino, Dedo un assenzio. Gli dissi: vai da Cappiello, o da Nicodemi, sono nostri concittadini, si faranno in quattro per aiutarti, ti introdurranno nell’ambiente del teatro, ti faranno conoscere persone che contano, piene di quattrini. E tu, Dedo mio, nei hai un gran bisogno. Ma lui faceva segno di no, sogghignava, con una smorfia di gran disgusto. - Non andrò mai a bussare alla porta di quei livornesi altolocati, influenti, danarosi, per fare la stessa fine del povero Viani, E gli raccontò la vicenda capitata all’artista viareggino.

    Lorenzo Viani

    L’anno prima, nel dicembre del 1909, Lorenzo Viani – un altro artista povero e geniale, pittore ex macchiaiolo della Versilia divenuto poi espressionista degli urli silenziosi munchiani delle donne dei pescatori, che emigrò e morì ad Ostia, pieno di malinconia e pessimismo nichilista – si era recato da Cappiello: In quello studio – scrive Viani – ci si moriva, il tubo della stufa sfiatava gelo, il cranio dal freddo pareva si screpolasse alle suture, e i lobi del cervello ghiacciati perdevano la facoltà di suscitare pensieri, come quando si perde il tatto e pare di essere sospesi sopra un abisso… Le strade sembravano interminabili, allungate dalla mia stanchezza e dalla mia disperazione. Era notte quando si aprì sul cielo l’Arco di Trionfo. Oltre l’Arco il cielo aveva il rossore cupo dell’incendio… A Parigi d’inverno è sempre notte, non fa mai giorno largo.

    Lì, in quella cornice catastrofica descritta da Viani, abitava il re del manifesto, Leonetto Cappiello. "[kc8][BA9]Mi rifugiai nel suo studio, nella sua casa regale, introdottovi da un servo che mi guardava dall’alto in basso e mi squadrava le mani. Cappiello mi accolse con affabilità, stava dipingendo un gran quadro in cui ritraeva la sua famiglia, la sua bella signora e le bimbe. Portato alle stelle come cartellonista, aveva la stravolta ambizione di essere innalzato anche nell’olimpo dei ritrattisti. Ma era una vera pippa. L’artista aveva mosso il capo e il soffio di Dio non lo raggiungeva più. Mi chiese un parere sul dipinto. Vidi i gialli arancio, i rossi lampone, i bleu mare, i bianchi elettrici, i verdi acri dei suoi manifesti incorniciati dal bandone delle strade, facevano più quadro del dipinto inquadrato nell’imperiale cornice: quelli erano fatti con la testa a filo dell’alito di Dio. Ma fui circospetto nel giudizio. Mi ricordai che Garibaldi teneva più ai suoi versi che alle sue battaglie. Poi venne un signore francese, Paul Adam, era suo cognato, mi disse che si interessava alla mia arte forandomi con i suoi occhi salati. Nel dialogo tornarono i nomi di Steinlen, Forain e Toulouse-Lautrec. I due si appartarono e parlarono fitto fitto fra di loro, quando ebbero finito, Cappiello mi disse: - Lei esporrebbe volentieri da Georges Petit? A giorni vi si inaugura la Commedia Umana. Sarà in buona compagnia-

    Sì. Certamente, dissi. E fu tutto.

    Ma Viani non farà mai quell’esposizione. Tornerà a Viareggio come un barbone, coperto di stracci, sporco, lacero e pestilenziale, tanto da far vergognare il fratello e la madre.

    Ti ha visto nessuno in città?

    No.

    Spogliati.

    La madre gli prepara il bagno e gli porta la biancheria pulita, gli abiti piegati nell’armadio, lo fa rivestire, poi grida al vicinato: È ritornato il mi Lorenzo da Parigi. Come sta bene! Venite a salutarlo!

    In definitiva, Modigliani non andrà mai a bussare alla porta di Cappiello, né cercherà mai raccomandazioni per esporre i suoi disegni. Lui si sente superiore a Picasso, manda al diavolo Apollinaire e Jacob che pure vorrebbero aiutarlo. Si batte, se mai, per l’ingenuo Rousseau e per l’amico Utrillo, che è come un bambino. Modigliani non si umilia. Non si piega. Ed è questa sua dignità che ce lo fa amare di più, – scrive Aldo Santini, – uno dei suoi biografi, livornese come lui. E aggiunge, con un pizzico d’orgoglio campanilistico: Viani era viareggino. Viareggio è una città di sabbia. Livorno è una città di scoglio.

    SULLA VERANDA DELL’ABISSO

    … Ma egli ruppe la scorza del dolore/ in pezzi e ne distese alte le mani,/ come per trattenere il dio fuggente.

    Purtroppo alla fine di quell’anno (2005) dovetti arrestare la mia attività tennistica: mi ammalai seriamente, – una neoplasia della flessura colica sinistra, – e trascorsi quasi tutto il 2006, in condizioni precarie, ma alla fine ne venni fuori. Tre anni dopo l’operazione scrissi il libro Aldilà del Cancro (2008), che era il frutto onirico-diaristico-espressionistico delle mie sensazioni, durante il lungo periodo di degenza. La ripresa fu lunga, lenta e difficile. Camminare senza pensare ad altro. Prima cento, poi duecento passi, poi quattrocento, alla fine della strada. Poi riposo. Seduto su una panchina di pietra. A danzare stando seduti. Come fanno i cigni nell’acqua. Non avere fretta. La chemio in certi giorni era terribile. Immobilità assoluta. Bastava un minimo spostamento perché tornasse il dolore. Recitavo Leopardi, L’Infinito, A Silvia, Il passero solitario, Alla luna, tutto a memoria. E poi Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Era come una preghiera laica. Un atto appassionato, un tuffo nell’immobilità. E poi ricordavo la voce un po’ pasoliniana di Eugenio. Ricomincia sempre dall’Abc. Fai sorgere l’azione un secondo prima o un secondo dopo di quanto si aspetti il pubblico. Rotazioni del tronco, passi guardinghi o indifferenti, finte, colpi, parate… attento alle code. Ecco, ora stai in piedi. Concentrati. Attenzione. Ammazza il topo! Più attenzione, più attenzione. Questo è un ritmo. Stai attento alla tigre, però, che sta alzandosi ora lì davanti a te, nell’ombra. Questo è un ritmo diverso. Non ti muovere! Fai attenzione, attenzione, attenzione. Devi metterci tutta l’energia che possiedi, l’animus, che è vigoroso e forte, e l’anima, che è morbida e delicata. Ricordati, tu sei anche anima, cioè leggero e pieno di grazia, come può esserlo veramente solo una donna. E senza una donna al tuo fianco, non ce la farai mai. Mai. E in effetti nel cuore freddo delle notti invernali, all’IFO, per me splendeva ogni giorno un nuovo sole: era mia moglie, una donna innamorata come tante altre, ma era lei, e

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