Le cento care.: Variazioni nel tema
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Le cento care. - Giuseppe Goisis
Table of Contents
Giuseppe Goisis Le cento care. Variazioni nel tema
Giuseppe GoisisLe cento care.Variazioni nel tema
L'autore
Uccelli di terre straniere
1
2
3
4
5
6
7
8
MAKEUP52
1
2
3
4
5
Rosario
Matrioška
Remanso
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
Eroi*
1 - Straordinari
2 - Corsa
3 - Due
4 - Bolivia
5 - Dragone
6 - Metafora
7 - Giraffa
8 - Sassi
9 - Bagnato
10 - Farfalle
11 - Fermo
Giuseppe Goisis
Le cento care. Variazioni nel tema
© Musicaos Editore - Tutti i diritti riservati
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Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano (Le) - Tel. 0836.618232
Progetto grafico:
Bookground
info@musicaos.it - www.musicaos.it
I edizione: Settembre 2015
ISBN 978-8899315-504
Giuseppe Goisis
Le cento care.
Variazioni nel tema
Le cento care. Variazioni nel tema
è una raccolta di sei racconti; sei universi nei quali Giuseppe Goisis scandaglia lo spazio profondo dell'essere umano, con la fluidità di un linguaggio vero
, capace di entrare nelle pieghe più recondite della realtà, svelando in ogni racconto il rapporto cruciale fra vita e morte. Scegliendo questa prospettiva, questo rapporto, quale sua propria lettura del reale. Giocando nelle variazioni di essa. Storie intense, di trama coinvolgente e sentimenti vibranti. Lo spiccato realismo si sposa con scene surreali, sconfinando, alle volte, nel grottesco; la tragedia si mescola alla commedia; sono situazioni dalle tinte forti, quelle raccontate, di tensione viva, in cui il lettore rimane coinvolto senza soluzione di continuità, sospeso, nello spazio di una pagina, a interrogarsi su cosa accadrà immediatamente dopo. Con poche pennellate decise, Giuseppe Goisis restituisce spaccati di vita, caratteri dei personaggi, luoghi e cose che acquistano vita propria; i più piccoli dettagli sono indispensabili, perché staccano dalla mera descrittività e acquisiscono valenza sostanziale.
L'autore
Giuseppe Goisis (1967) è nato a Bergamo. È laureato in filosofia. Dal 2001 è direttore artistico di Compagnia Brincadera, con la quale ha prodotto spettacoli di sala e per spazi aperti, reading musicali e performance teatrali di varia natura. Dal 2012, in particolare, si occupa della direzione artistica del Festival In Necessità Virtù, rassegna nella quale forme differenti del linguaggio artistico danno voce e corpo a forme differenti della fragilità umana. Ha collaborato a lungo con Il Teatro Tascabile Bergamo.
Ha pubblicato la raccolta di racconti Un posto vale l’altro, PeQuod (2004), il romanzo Senza replica, Baldini Castoldi Dalai Editore (2005), il romanzo Il contrabbasso e la rosa, Greco&Greco editore (2011), il volume Senza sparire - Verdello e la sua memoria, Lubrina editore (2013), oltre a racconti in antologie e riviste (La nuova prosa, Da un mondo all’altro, Maltese narrazioni, Dizionario affettivo della lingua italiana).
Varie le pubblicazioni (articoli e saggi) per Teatro e Storia e Open Page.
Ha diretto i cortometraggi Ne me quitte pas, Molti anni dopo, Metamorfosi e Cars, in collaborazione con il Lab 80 di Bergamo, e il cortometraggio Inversioni, per Sguazzi Onlus. È autore di canzoni.
Insegna inglese in organizzazioni umanitarie, multinazionali e presso privati.
Per contatti con l’autore:
Giuseppe Goisis
trumangiu@gmail.com - +39 338 852 0819
Uccelli di terre straniere
Birds from foreign lands had flown far away, just as I had learnt how to recognise the dance of their wings, and yet they had brought an odd and delightful melody from their own remote forests. Likewise, in the course of life, an unexpected angel sometimes comes from a foreign land, crosses our path and broadens the boundaries of our heart. Not being called it comes and when we invoke it, at the end, it’s gone. But setting off, it leaves on the pale weft of living a hem of embroidered flowers, and nights and days are made precious for evermore(1).
1
Quando puntai il faro al cielo, al salire dei palloni gonfiati a elio, anche quella volta piansi.
Non c’era verso, due anni dopo. Quasi tre.
Le note di una musica di cui non ricordo il titolo (e non capisco come sia possibile, essendo tanto lancinante per me, e tanto limpida la linea della melodia), un brano classico comunque, violini tristi con le note acute, la miccia che brucia qualche secondo, i palloni che salgono fino a venti metri d’altezza, lo scoppio, la cascata di petali e coriandoli rosa, come farfalle in tracciati di luce, sui trampoli e la gente sotto. Di solito esclamavano oooh, e anche quella volta fu così, nonostante il freddo polare che ci trapassava tutti.
Stavamo in un paesino della Norvegia ed era poco prima della fine di Valse.
Da due anni, quasi tre, piangevo sempre.
Dopo la cascata c’è un’ultima scena, i trampoli sgombrano, restano una bimba e una scimmia, il segui-persona che manovravo tornava a terra, a seguire nei bolli di luce i movimenti delle due. Io di solito la scimmia, un altro la bambina. Bisogna smanettare sulla focale, aprire e chiudere l’ampiezza, senza stratte, non semplice, la scimmia ha movenze animalesche, ma soprattutto asciugarsi gli occhi, se avevo pianto troppo, pulirsi via con il polso e reggere il peso del fucile, un sacco di chili su piantana da far ruotare in equilibrio. Avevo un corpo ancora molto grosso e forte allora, questo mi aiutava.
Poi finiva davvero, saluti schierati e grandi applausi, in ogni parte del mondo. L’unica preoccupazione a quel punto non accecare i trampolieri.
Bloccai il faro. Tolsi i guanti e soffiai sulle dita irrigidite. Con un gesto del braccio salutai il ragazzo dell’altro bollo. Un pescatore lentigginoso cui avevo spiegato i dettagli essenziali dell’azione giusto dieci minuti prima di andare in scena. Non se l’era cavata male. Quando sorrideva gli sparivano le lentiggini. Ricambiò il saluto e scese dal praticabile dove avevamo installato la sua postazione. Io invece restai sul mio. Guardavo immobile la gente andarsene. Attorno iniziarono a smontare. Rimisi i guanti. Tirai su con il naso.
Da sotto sentii chiamare il mio nome.
Guardai giù e sforzai un sorriso.
I petali e i coriandoli rosa salivano e poi cascavano. Il fatto è quello.
Non era soltanto per la bellezza della scena, per la musica che non ricordo e per come sono andate le cose, con il teatro.
Il turbamento per me stava anche nel movimento.
Quando ero piccolo lo immaginavo con le pallottole.
Sparare in cielo e immaginare il momento nel quale la pallottola inverte la direzione, raggiunge il punto più alto e comincia a cadere.
La vedevo ferma nell’aria, in primissimo piano, tolto anche l’audio, poi in principio di ricaduta.
Il luogo dove precipitava no, non diventava un’immagine. Era un effetto troppo lontano dal momento dell’inversione.
Io credo che la scena di Valse mi riportasse a quella fantasia: vedere il momento in cui la pallottola scollina. Comincia a cadere. In cui le cose cominciano a finire.
Ora io sto nella parte discendente della vita. Nella traiettoria che mi porterà a cascare da qualche parte. Quando guardavo la scena di Valse non sapevo se stavo ancora salendo.
2
Tutto cominciò quattro anni prima.
Da pochi giorni ero uscito di prigione.
Cercavo lavoro, senza volontà.
Mi sarebbe piaciuto partire per qualche posto lontano piuttosto.
Camminavo ore nella parte collinare della città, l’unica che mi piacesse.
Arrivai nelle vicinanze di un posto che era un ex-monastero. Vidi gente che ci entrava e mi accodai. C’era un poster che s’intitolava Teatro vivo e un foglio vicino con la scritta Cercarsi urgentemente tecnico per tournée. Non credo fu il motivo, ma entrai. Dopo la scalinata c’è un chiostro, e fu un luogo che mi incantò. Chissà perché.
A una colonna era legato un asino.
La gente aveva tratti da intellettuale, pallidi, trasandati. Sia i giovani che i su d’età.
Senza capire avanzai insieme a loro fino a una porta.
La varcammo e prendemmo posto su una gradinata scricchiolante.
C’era un uomo seduto in mezzo a una grande sala, davanti alla gradinata, con gli occhiali. Le spalle striminzite. I sandali e i piedi senza calze.
Accanto a lui un tavolino, 4 libri, una bottiglia d’acqua.
Cominciò a parlare non appena la gente fu disposta.
La memoria non funziona per importanza delle cose, sono sicuro.
Come per la musica dei petali rosa.
Vorrei potermi ricordare meglio di ciò che ascoltai quel giorno.
Per esempio ho amato una donna nella vita, e di lei nella mente mi resta un calzino scivolato lungo il calcagno, che le allungava il piede.
Una forma ridicola.
Quel giorno fu una lezione.
Il primo argomento il teatro di strada.
L’uomo seduto disse che la cosa più bella di un teatro erano i lampadari, come aveva affermato un francese(2), per questo bisognava uscirne, e che il teatro di strada invece appartiene al rischio e assomiglia alla vita. Come nel circo, dove l’acrobata può davvero cadere.
Poi parlò della Festa, una forma di rinnovamento contro l’istituzione e le inadeguatezze della società. La creazione di un tempo sciolto dai vincoli del quotidiano, contro ciò che è feriale, integrato.
Disse che la Festa è eresia, e che è un altro teatro, che si oppone a un teatro morto che ha ormai perso coscienza di sé.
L’ultima cosa riguardò il rapporto fra l’attore e il pubblico.
Purtroppo in un linguaggio troppo difficile per le mie categorie.
Non mi riuscì di capire se nel teatro di strada c’è distinzione o integrazione.
Se bisognava ci fosse o era meglio di no.
Il secondo argomento fu il teatro indiano.
Prima che parlasse gli attori e le attrici fecero alcune danze.
Gli uomini il Kathakali. Le donne l’Orissi e il Bharata natyam.
Mi parvero molto bravi.
Non si capiva niente dei segni e dei gesti ma c’era ritmo e precisione in ogni loro movimento.
Dopo le esibizioni spiegò che l’idea fondamentale dell’India sta nell’allontanamento dal desiderio, e che Gandhi i lunedì taceva. Il suo soprannome era ‘la rana in fondo al pozzo’, oppure Bapu. Se c’erano questioni urgenti, il lunedì, Bapu scriveva 2 righe.