L'estate di Bob Marley. 1980
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Info su questo ebook
Paolo Pasi
Giornalista e scrittore, nel 1995 vince la prima edizione del Premio «Ilaria Alpi» e dal 1996 lavora alla RAI. Ha scritto numerosi romanzi e racconti. L'estate di Bob Marley. 1980 è il suo primo romanzo pubblicato con Jaca Book. Pasi è anche chitarrista e compositore. Dopo il CD d’esordio Fuori dagli schermi (2009), è uscito il suo secondo album Un bacio stralunato. Fa parte della giuria dei premi musicali «Piero Ciampi» e «Bianca d’Aponte».
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Anteprima del libro
L'estate di Bob Marley. 1980 - Paolo Pasi
Paolo Pasi
L’ESTATE
DI BOB MARLEY
1980
Prefazione di
Daniele Biacchessi
© 2021
Editoriale Jaca Book Srl, Milano
tutti i diritti riservati
Prima edizione italiana
gennaio 2021
Redazione Jaca Book
Impaginazione Elisabetta Gioanola
eISBN 978-88-16-80267-4
Editoriale Jaca Book
via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520
libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
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INDICE
Prefazione. L’estate del reggae e degli attentati, di Daniele Biacchessi
Quarant’anni dopo, di Paolo Pasi
Parte prima
Parte seconda
Parte terza
Parte quarta
A Emanuela e Margherita
Prefazione
L’ESTATE DEL REGGAE E DEGLI ATTENTATI
Daniele Biacchessi
Il 27 giugno 1980, quando Bob Marley trionfa con il suo reggae allo stadio di San Siro di Milano davanti a centomila persone, il presidente della Repubblica è Sandro Pertini, il presidente del Consiglio Francesco Cossiga, ministro dell’Interno Virginio Rognoni, ministro degli Affari Esteri Emilio Colombo. È un esecutivo composto da Democrazia Cristiana (DC), Partito Socialista Italiano (PSI), Partito Repubblicano Italiano (PRI). Resta in carica dal 4 aprile al 18 ottobre 1980, 197 giorni, ovvero 6 mesi e 14 giorni. Giulio Grassini (tessera p2 n. 515), è direttore del SiSde (il servizio segreto civile), Giuseppe Santovito (tessera P2 n. 527), è il responsabile del SiSmi (il servizio segreto militare), Pietro Musumeci (tessera P2 n. 487) e Giuseppe Belmonte (non affiliato alla loggia P2) sono gli ufficiali più alti in grado del SiSmi. Il capo della Polizia di Stato è Giovanni Rinaldo Coronas. Il comandante dell’Arma dei Carabinieri è il generale Umberto Cappuzzo.
L’Italia è in balia di attentati terroristici della lotta armata di sinistra e si sta preparando a un’estate terribile di stragi.
Alle 21, mentre inizia il concerto di Bob Marley allo stadio di San Siro, un Douglas – DC9 IH870 della compagnia Itavia, partito dall’aeroporto di Bologna con destinazione Palermo Punta Raisi, con 81 persone a bordo (77 passeggeri, 4 componenti dell’equipaggio), sparisce dai radar dei centri di controllo militari e civili tra le isole di Ponza e Ustica, in un luogo aeronautico chiamato Punto Condor. Quarant’anni dopo si conosce la gravità di ciò che è avvenuto la sera del 27 giugno 1980: il DC9 viene colpito da un razzo sparato da un aereo militare con il transponder spento, di nazionalità ancora da decifrare, durante un’esercitazione in mezzo al Mediterraneo. E poco dopo, il 2 agosto 1980, un ordigno ad alta potenza distruttiva devasta la sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna provocando una carneficina: 85 morti, 200 feriti. Quarant’anni dopo per questa strage ci sono i nomi degli esecutori ed è in corso il processo ai mandanti: Loggia P2, servizi segreti, neofascisti.
Il concerto di Bob Marley a Milano, organizzato da Mario Giusti di Radio Città, preceduto dalle esibizioni di Roberto Ciotti e Pino Daniele, si trasforma in un appuntamento di massa di enorme portata mediatica che mobilita giovani provenienti da ogni parte del Paese e d’Europa. Centomila ragazzi ammassati tra prato e gradinate in un clima calmo e rilassato. E giunge dopo gli anni di magra musicale, seguiti dalla durissima contestazione degli autonomi inscenata il 13 settembre 1977 al Vigorelli di Milano contro il chitarrista Carlos Santana, e la conseguente decisione di larga parte dei manager del rock di chiudere le frontiere italiane ai grandi tour delle star internazionali. Qualcosa si muove con i concerti di Patti Smith a Bologna e Firenze organizzati dall’Arci nel 1979, con l’evento dedicato a Demetrio Stratos all’Arena di Milano del 1979, con la riorganizzazione delle Feste dell’Unità, con i festival organizzati dalle radio libere per autofinanziarsi tra il 1979 e il 1980. Poco altro.
Deve servire una scossa, e il terremoto nella palude stagnante della musica in Italia si chiama Bob Marley. Lui non è una star del rock, ma un profeta. Un uomo umile che propone idee molto chiare. Un leader naturale per tutti i giamaicani. Quando arriva all’aeroporto di Milano rilascia poche parole al Tg2. La collega Grazia Coccia gli chiede una giustificazione per l’evidente contraddizione tra il messaggio delle sue canzoni e i soldi guadagnati dalla vendita dei dischi. Ma Marley va di fretta e le risponde con un proclama di difficile attuazione.
«I soldi non sono importanti, sono importanti solo per l’uomo bianco. Lui prende i soldi, se ne impadronisce, ne ha fatto una religione. Quello che è importante è Dio, il cielo, la terra, il sole, la natura. Perciò i soldi non contano nulla, sono solo dei pezzi di carta e non devono condizionare la vita».
Tutti sono lì ad attenderlo. E dopo gli apprezzati riff della chitarra di Roberto Ciotti e le canzoni straordinarie e ancora inesplorate di Pino Daniele, appare Bob Marley.
Sale sul palco di San Siro poco dopo le 21, anticipato da un urlo assordante e da una lunga introduzione cantata solo dalle sue coriste e poi dal brano Marley Chant.
Si capisce subito che dietro a Marley c’è qualcosa che va al di là della musica: emozioni, vibrazioni, forza delle idee di giustizia sociale e di riscatto.
Ci sono i ghetti di Kingston, e c’è il ritorno verso Mamma Africa.
L’inizio del live viene affidato a Natural Mystic e Positive Vibration, e poi prosegue con una scaletta divenuta immortale: Revolution, I Shot The Sheriff, War, No More Trouble, Zimbabwe, Zion Train, No Woman, No Cry, Jammin’, Exodus, Redemption Song, Natty Dread, Work, Kaya, Roots, Rock, Reggae, Is This Love, Could You Be Loved, Kinky Reggae, Get Up, Stand Up.
Il concerto di Marley a Torino del 28 giugno 1980 ottiene un grande consenso di pubblico e critica, ma l’impatto è diverso da quello milanese.
Perché quelle passate a San Siro sono due ore e mezza precise composte da suoni ipnotici, accendini accesi, balli continui e prolungati, amori nati proprio quella sera, piccole storie che attraversano la grande Storia d’Italia, il giorno che il reggae travolge un’intera generazione.
Perché è grande Storia quella narrata da Paolo Pasi in questo romanzo che ora viene ripubblicato nella collana Contastorie di Jaca Book.
QUARANT’ANNI DOPO
Paolo Pasi
Scrivo mezzo attorcigliato sul letto, spinto dalla necessità di rompere l’isolamento. Dalla strada mi arriva solo il debole sussurro del Naviglio e il passaggio di biciclette fruscianti che consegnano i pasti. Sottofondo di una guerra, così la chiamano, che sta chiudendo miliardi di persone nel ristretto perimetro dei propri confini domestici. Tutti asserragliati in difesa contro il comune nemico. Allora ascolto una canzone di Bob Marley, Natural Mystic, la prima che aprì il concerto di Milano nello stadio di San Siro, il 27 giugno 1980.
There’s a natural mystic blowing through the air…
L’aria era già mistica, intrisa del profumo dolciastro e inebriante della cannabis, satura del caldo estivo, bollente e ribollente sotto l’occhio benevolo e fulgido della luna piena.
… if you listen carefully now you will hear…
Saper ascoltare anche questo silenzio, tra una pausa e l’altra, e poi riprendere il filo da quella sera, da quel concerto che non ho visto ma che mi è stato raccontato tante volte.
Anni fa decisi di scrivere questo libro per prendermi una rivincita e superare il rimpianto attraverso la sfida più spudorata. Viaggiare nel tempo. Tornare a quel concerto, concedermi una seconda possibilità e ripercorrere un’intera stagione, intensa e drammatica, attraverso l’ispirazione del reggae e le cronache dell’epoca.
Mentre la canzone sta sfumando, Marley si prepara al secondo brano in scaletta: Positive Vibration.
Vibrazioni positive. Energia che si libera nel ballo di questo artista giamaicano così minuto e insieme carico di vitalità. La morte lo avrebbe colto qualche mese dopo, a 36 anni. Nelle stesse ore del concerto, un aereo della compagnia Itavia cadde nelle acque di Ustica. 81 vittime, un silenzio sulle cause che ancora oggi dura, imbarazzante ma eloquente. Poche settimane dopo, il 2 agosto, una bomba sarebbe esplosa alla stazione di Bologna. 85 morti. Un’altra strage senza mandanti.
Quarant’anni dopo, la trincea in cui ci ritroviamo ci spinge a una nuova fuga, a una nuova diserzione. I ventenni di oggi ascoltano ancora oggi la ballata che emozionò il pubblico di San Siro: Redemption Song.
C’è sempre una possibilità di redenzione, una canzone di libertà. Quella di Marley è una voce senza tempo, sopravvissuta a tante crisi ed emergenze, ai poteri di ieri e di oggi. L’immagine del concerto sembra un richiamo nostalgico nell’era del distanziamento. Centomila persone strette nel catino dello stadio, contagiate unicamente dalla vitalità di un uomo che ipnotizza con il suo ballo. Tutti fusi in una danza in levare. Più che nostalgia, preferisco pensare a una promessa di futuro. Una sfida al tempo. Una terza possibilità.
La morte non lo colse nel sonno.
Fu lei a restare sorpresa.
Era già morto.
PARTE PRIMA
UNO
Se c’era un motivo per cui diffidava della pizza a cena, era che gli metteva una sete notturna senza tregua. Di nuovo l’insonnia. Percorse il corridoio con lentezza, strascicando le ciabatte. Pareti nude, stanchezza dentro e fuori, lui in bilico tra soggiorno e cucina.
Diede un’occhiata alla scrivania, all’angolo più luminoso della casa che al buio restituiva il profilo di oggetti spenti. Spento il computer. E poi i fogli ammucchiati, il bicchierino per il whisky, qualche mozzicone di sigaretta in un posacenere di metallo.
La provvisorietà di un lavoro in corso.
Neppure l’ultima stesura del finale lo aveva soddisfatto. Mancava qualcosa, era evidente, ma non era facile capire che cosa, e soprattutto con che parole. Mancava l’idea, e perfino la voglia. Mancava quasi tutto, compresa Elena, nonostante avesse fatto il possibile per essere lasciato. Ricordava i giorni svogliati, ma adesso che lei se n’era andata sembravano più importanti i ricordi migliori.
L’insonnia e un finale da trovare. Ecco la sintesi dell’ultimo mese. E poi la mezza età che diradava i traguardi, la noia, la solitudine, quella casa che ancora gli parlava di lei…
Adesso provò rabbia. Al diavolo i pensieri, si disse, ma pensò ancora. Ogni congettura era un passo più lento, faticoso. Di lato, la rastrelliera con le chitarre, una elettrica e una classica. A fianco lo stereo e la custodia di un cd.
Bob Marley riusciva ancora a emozionarlo. Sussurrò il motivo di Redemption Song, e immaginò lo stadio di San Siro, il concerto che si era perso per pigrizia o semplice indecisione nell’estate del 1980. A Milano Marley aveva raggiunto l’apice, ma lui aveva preferito dormirci sopra. Era un rimpianto musicale che aveva cercato di colmare nel tempo.
Belle anche le chitarre, pensò. Ma poi la rabbia si riaccese. Una ribellione interiore senza sbocco. La voglia di affondare le unghie nella pelle, l’urlo nella notte di un pazzo che chieda: «Haaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaai una sigaretta?».
Preferì entrare in cucina, silenzioso e assetato. La luce del frigorifero illuminò le dita secche, la pancia appena accennata. Quel genere di rivelazione che rende antipatiche certe notti.
Afferrò la bottiglia e scolò a canna. Acqua fredda per ripulire i cattivi pensieri. Ma quando ebbe finito di bere, Pietro si rassegnò. Altro che sete. Non aveva per niente sonno. Tanto valeva accendere la luce.
Piatti sporchi nel lavandino e briciole sparse. Perché aveva deciso di complicarsi la vita con la pretesa di un finale all’altezza?
Il giorno in arrivo si profilava già esausto, e le ore di sonno contavano, eccome. Se c’era una cosa da evitare, in situazioni del genere, era di sfidare il tempo, ma gli occhi erano già puntati sull’orologio a muro.
Le tre meno un quarto. Neppure così tardi, pensò, prima di accorgersi che qualcosa di strano stava accadendo nella notte. La lancetta dei secondi stava camminando all’indietro.
Tac, tic. Tac, tic.
Non era una corsa impazzita, ma un tempo che trascorreva normalmente, secondo dopo secondo. Solo che andava alla rovescia.
Tac, tic. Tac, tic.
Doveva essere la pila scarica. Da quanto tempo non la cambiava? Da quanto tempo la sua vita era così fuori controllo?
Tac, tic, tac tic, tactictactictactictactictactictactictactictactic…
Eppure le lancette erano cariche di energia, adesso anche quella dei minuti camminava all’indietro, sempre più veloce, e poi quella delle ore. Ripercorrevano rapide il quadrante come uomini in fuga nella direzione sbagliata. Pietro si sentì risucchiato in un vortice di rumori e da un’alternanza di luce e buio.
Luce buio luce buio luce buio…
La rabbia precipitò in ansia. Niente crisi di panico, perdio, sentiva che l’attacco era in agguato, e non sarebbe servito a niente.
Calmo, devo stare calmo.
Tactictactic luce buio luce buio giorno notte giorno notte…
Un fruscio lo fece trasalire, il cuore agitato, il terrore senza sudore. C’era qualcuno in casa. Uscì dalla cucina e si affacciò sul corridoio che era tornato buio. Riconobbe Elena, con la sua vestaglia corta, il viso insonnolito, il passo rapido e a scatti che ricordava l’attrice di un film muto.
«Elena… Elena… Sei tornata?… Ma che sta succedendo?».
Anche lei camminava all’indietro. Stava andando verso la camera da letto con tale sicurezza da far pensare a due occhi segreti sulla schiena. Sembrava l’immagine riavvolta da un videoregistratore.
«Elena! Che cosa fai?».
Adesso urlava davvero nella notte. Era spaventoso rivederla così, sospesa in un dormiveglia accelerato, una sonnambula che si allontanava in retromarcia invece di abbracciarlo. Elena gli rispose con una voce impastata e incomprensibile.
«…ongab ni odav».
Fu come ascoltare una frase alla rovescia, un registratore umano che si era incantato sul tasto di rewind. Il panico lo invase con un’ondata che partì dalle gambe e salì al cervello. Pietro si sentì spacciato. O il tempo si stava ribellando, oppure stava per morire e le allucinazioni erano il preludio al nulla.
Che giorno era adesso? Era ancora il 25 ottobre, o l’autunno stava tornando all’estate?
Sto morendo, aiuto, sto morendo, aiuto…
L’attacco fu violento. Gli sembrò di uscire dal proprio corpo, il cuoio capelluto insensibile, la pelle estranea al tatto. Forse urlò, forse pianse, forse non disse nulla. Ma prima di crollare sul pavimento, Pietro ricordò il dettaglio più importante, la conferma della sua fine. Quella sera non aveva mangiato la pizza.
DUE
«Pietro? Pietro? Oohhh, sveglia…».
Una voce distante, appannata, poi più vicina e molesta. Dal sonno pesante al dormiveglia, il torpore da cui faticava a riemergere, la stanchezza persistente, il buio che si rischiarava.
«Pietro… Ma che cazzo fai, stai bene? Svegliati, è tardi…».
Uno scuotimento di corpo lo stava riportando a galla. Lui aprì lentamente gli occhi. C’era la luce del giorno in una stanza familiare. I mobili di legno scuro, la scrivania, le tende bianche, la chitarra appoggiata alla parete, il suo letto basso, stretto, a una piazza. E quella sensazione di vigore ritrovato dopo una lunga convalescenza.
«Pietro, mi senti? Ti vuoi alzare o no?».
La presa al braccio si strinse e lo scuotimento divenne rabbioso. Chi poteva essere così sadico da imporre la sua voce ruvida e prepotente a uno che si era appena ristabilito?
Pietro lo guardò.
«Perché mi fissi con quello sguardo da ebete? Che è successo? Ti sei fatto un acido di prima mattina?».
Luca come non lo vedeva da anni. Luca con le fattezze di un giovane che con un filo di barba cercava di ingannare il tempo. Luca fratello maggiore che era tornato ad avere ventitré, ventiquattro anni al massimo. Pietro si guardò le mani, il pigiama. Poi si annusò e sentì il suo odore di ragazzo. Quella casa…
«Mi vuoi rispondere o no? Sei scemo?».
«Luca…».
«Sì, sì, sono Luca, brutto pirla, mi pigli anche per il culo? Sono Luca e tu mi stai rompendo le palle. C’è un biglietto in più per il concerto. Vuoi venire o no?».
«Luca, ascolta, mi è accaduta una cosa incredibile».
«Bravo, poi me la racconti. Adesso dimmi se vieni al concerto».
«Ma quale concerto?».
«Ma tu sei veramente andato di testa… Oooooohh, svegliati. Ti interessa o no Bob Marley?».
«Bob Marley?».
«Basta. Adesso me ne vado».
Luca mollò la presa. Furibondo, impaziente, ma con un fondo di preoccupazione negli occhi. Due passi e tornò indietro.
«Si può sapere che cos’hai?».
«Luca, ascoltami ti prego. È come se avessi fatto un sogno lungo venticinque anni. Ero un uomo maturo, uno scrittore, avevo una moglie, ed ero in crisi dopo un periodo felice, e pensavo spesso al concerto di Bob Marley che mi ero perso, e tu mi rinfacciavi per anni di non essere venuto con te, e io sapevo di essermi perso qualcosa di grande, ma poi alla fine…».
«Che cos’è? L’ultimo numero di Urania? Secondo me leggi troppa fantascienza e ti fai un sacco di seghe mentali. Dai, sbrigati».
«Sono tornato indietro nel tempo. C’era un orologio in cucina che…».
«Adesso mi hai rotto il cazzo con le tue stronzate. Vieni o no?».
«Bob Marley era morto da un pezzo, ma i suoi dischi…».
«Forse è il caso di chiamare uno psichiatra».
«Ascoltami…».
«Tu ascolta me. Hai dieci minuti per ripulirti il cervello e fare colazione. Se vuoi è così. Altrimenti il tuo sogno si avvera. Te ne stai a casa e domani ti racconto tutto io. Va bene?».
Bob Marley era ancora vivo. Glielo dicevano la casa, il profumo di caffè, il rumore in sottofondo della pentola a pressione, il viso di Luca, l’aria… Aria d’estate.
«Che giorno è oggi?» chiese a Luca.
«Venerdì».
«Intendo la data».
«Andiamo bene. Non è che ti sei fatto veramente un acido?».
«Ma quale acido… Che giorno è?».
«Oggi ne abbiamo ventisette».
«Che mese?».
«Ma vaffanculo…».
Luca uscì dalla stanza. Pietro si scrollò di dosso il torpore e si alzò dal letto.
«Dai, scherzavo. Vengo. Aspettami».
Bob Marley a San Siro. Lo avrebbe visto. Aveva solo fatto un sogno realistico, forse accurato nei dettagli e nel tempo, ma un sogno. Anzi, un incubo che si era dissolto nella morbida concretezza della sua camera da letto. Sarebbe andato al concerto, nessun sonno prolungato avrebbe più potuto definire un futuro diverso.
«Luca, mi hai sentito? Arrivo».
«Sbrigati, Urania».
Sulla poltrona c’era un numero di Alan Ford ancora nuovo, e in copertina Superciuk, l’uomo dal fiato alcolico