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L'imperatore di Atlantide
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E-book188 pagine2 ore

L'imperatore di Atlantide

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La storia di un’opera artistica eccezionale per le circostanze in cui è stata creata, il Lager nazista, e ritrovata e riportata a nuova vita. La musica e il testo dell’Imperatore di Atlantide, opera lirica composta durante la prigionia nel ghetto di Terezín, risorgono dal fondo dell’abisso in cui furono creati e giungono fino a noi come altissima testimonianza della forza politica ed etica dell’arte. Nel volume – che presenta il testo del libretto in traduzione con l’originale tedesco a fronte –, Enrico Pastore racconta la storia dei due autori, illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico dell’opera, mentre a Marida Rizzuti è invece affidata l’analisi della partitura musicale.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2020
ISBN9788833860527
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    Anteprima del libro

    L'imperatore di Atlantide - Enrico Pastore

    madre

    Premessa

    Ho scoperto L’imperatore di Atlantide durante il corso di Storia del Teatro tenuto da Antonio Attisani all’Università Ca’ Foscari di Venezia nel 1995.

    Il corso monografico di quell’anno verteva sui teatri di guerra, nei campi di sterminio, nelle carceri. In quell’occasione si parlò di Terezín e di alcune opere lì composte ed eseguite, tra cui L’imperatore di Atlantide. La musica, il libretto, la storia della sua creazione mi affascinarono a tal punto che decisi di farne una tesina di fine corso.

    Mi era apparso evidente fin dal primo sguardo come L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien fosse una di quelle rare opere che hanno il potere di portare alla luce un frammento di verità abbagliante, che al suo apparire modifica sostanzialmente la coscienza che l’uomo ha di se stesso. Come dopo la venuta al mondo di Edipo, Amleto o Iago non è stato più possibile pensare l’umano allo stesso modo perché una nuova bolla di verità era venuta a galla e gettava una luce inaspettata sul mistero dell’esistenza, così è per L’imperatore di Atlantide, opera che possiede il potere di trasformarsi in paradigma.

    Nell’estate dell’anno successivo andai in vacanza a Praga con amici. In un vicolo tra Piazza della Città Vecchia e il Ponte Carlo visitai un negozio di dischi in cui trovai una bella edizione dell’opera di Ullmann. Immediato mi sorse il desiderio di visitare Terezín e il memoriale. Il ghetto dista dalla capitale poco meno di settanta chilometri, un viaggio breve tra le dolci colline di Boemia. La città nella canicola estiva apparve desolata, quasi abbandonata, ancora gravata dal suo funesto passato. Le grandi caserme che avevano ospitato i prigionieri erano in parte abbandonate, Terezín stessa appariva congelata, come incapace di vivere il presente, come se quanto era avvenuto le impedisse di sfuggire alla sua presa.

    Nel corso dei due anni successivi raccolsi altro materiale su Terezín e su Ullmann, e decisi che quell’interesse poteva divenire la mia tesi di laurea. Ne parlai con Attisani, che accettò la mia proposta. Nel frattempo fondai una Compagnia Teatrale DAF con alcuni compagni di corso, con la quale mettemmo in scena alcuni lavori di Marinetti.

    In seguito a queste prime esperienze, che erano per lo più brevi sperimentazioni formative per consolidare il nostro progetto artistico, avvertii l’esigenza di provare a mettere in scena un lavoro più ambizioso. Pensai immediatamente a L’imperatore di Atlantide. Ne parlai con Attisani, che a sua volta ne parlò con il compianto Giovanni Morelli e con Paolo Pinamonti, direttore artistico del Gran Teatro La Fenice.

    A Pinamonti piacque l’idea e si avviò una produzione in collaborazione con l’Università e La Fenice per allestire L’imperatore di Atlantide in una versione recitata con accompagnamento al pianoforte, all’interno de « L’altra scena », rassegna dedicata alla sperimentazione di teatro musicale.

    L’università ci mise a disposizione un locale nella sede del Dutars alla Giudecca e chiedemmo la traduzione del libretto alla germanista Andreina Lavagetto.

    Nel frattempo tornai a Terezín, alla ricerca di ulteriore materiale che ci permettesse di capire meglio quale fosse l’intenzione degli autori. Dovetti constatare la penuria di documenti che gettassero luce su molte domande che l’opera pone.

    Da quali fonti attinsero per la composizione? In che modo procedettero con le prove? Che idea di scena soggiaceva al loro progetto? Fu mai rappresentato? E in che modo Terezín, il ghetto modello voluto da Eichmann per ingannare il mondo, influenzò la composizione de L’imperatore di Atlantide?

    Molte di queste domande, per la mancanza di testimonianze, erano e sono destinate a rimanere irrisolte. Capimmo che ci si poteva avvicinare soltanto per approssimazione, lasciandosi guidare dal libretto, ma anche quest’ultimo pone quesiti a cui non è facile dare una risposta. Quale dei due finali utilizzare? Quello di Ullmann, quello di Kien o entrambi?

    Scegliemmo di ricorrere a quello di Petr Kien, più cupo e disperante e che forse era stato quello definitivo. Decidemmo anche di inserire delle parti danzate, ricostruendo una versione contemporanea delle Totentanz, le danze dei morti, presenti in partitura.

    Con quello che avevamo, nel gennaio del 1999 iniziammo le prove, che si protrassero per alcuni mesi. Lavoravamo quasi ogni giorno, affrontammo vari fallimenti, ricominciando ogni volta, cercando di dare corpo a un’opera che sfugge alle singole interpretazioni.

    Antonio Attisani fu il nostro mentore. Le sue critiche, anche quelle più drastiche, ci aiutarono a trovare una forma e una modalità performativa. Con molta fatica riuscimmo nell’intento e debuttammo, prima in Spagna al Miteu alla fine di aprile, e in seguito, il 7 e 8 maggio del 1999, a Venezia al Teatro delle Fondamenta Nuove.

    Fu un’esperienza ardua, difficile e anche meravigliosa, che mi permise non solo di immaginare l’opera di Ullmann e Kien ma di vederla viva, in carne e ossa. Ebbi inoltre la fortuna di lavorare con persone straordinariamente generose e disponibili, alcune delle quali sono diventati amici per la vita. Il lavoro su L’imperatore di Atlantide cementò una compagnia che, per i successivi sette anni, continuò a lavorare sperimentando nuove forme di teatro musicale.

    Anche il mio legame con l’opera di Kien e Ullmann fu rafforzato, benché alla fine il progetto di farne una tesi di laurea, per tanti motivi, non andò in porto.

    Negli anni che seguirono continuai a raccogliere materiale, pubblicando di tanto in tanto singoli articoli, ma le domande continuavano a rimanere senza risposte.

    Quando Alessandro De Vito e Miraggi Edizioni mi proposero di scrivere questo studio, capii che era giunto il momento di tirare le fila ed esporre le mie ricerche sull’argomento, provando a rispondere ad alcune di quelle domande.

    L’imperatore di Atlantide si configura a un primo sguardo come un vero e proprio mito, ma lo è veramente? Possiamo chiamarlo mito? E in che modo si costituisce come tale? L’imperatore di Atlantide vide la luce in un secolo, il XX, che non ha avuto la forza di crearne molti. Il signore degli anelli forse, e anch’esso parla di guerra, del male e della natura del potere. Come l’Iliade all’alba dell’Occidente. Ma se queste opere nacquero lontano dal campo di battaglia, L’imperatore di Atlantide nasce nel profondo dell’abisso che cerca di descrivere e fornire di senso.

    L’imperatore di Atlantide fu composto a Terezín, ghetto unico e particolare, tra tutti gli inferni partoriti dai nazisti quello più perverso, perché oltre all’orrore, alla crudeltà e alla sofferenza presenti in ogni lager si assommava una fitta trama di inganni e illusioni. In che modo questo ambiente influì sulla composizione dell’opera? Quali erano le condizioni produttive? Qual era il senso delle molteplici attività artistiche che sbocciarono nel ghetto?

    Terezín infatti sfugge a qualsiasi definizione, tra esse la più atrocemente ironica è quella di ghetto modello , utilizzato dai nazisti a fini di propaganda non solo per ingannare le vittime, che in molti casi si pagarono la permanenza pensando di trovarvi la salvezza, ma anche l’opinione pubblica mondiale.

    Terezín fu l’unico campo di concentramento più volte visitato dalla Croce Rossa a favore della quale fu allestito uno dei più perfidi spettacoli della storia.

    L’operazione Stadtverschönerung (Abbellimento) promossa da Adolf Eichmann nel novembre del 1943, aveva lo scopo di trasformare il ghetto di Terezín in un villaggio Potëmkin .

    Secondo la leggenda, per ingannare l’imperatrice Caterina sullo stato dei nuovi territori conquistati all’Impero ottomano, il principe Potëmkin fece costruire, lungo le rive del Dnepr, dei villaggi di cartapesta abitati da attori che fingevano una vita agiata e felice. Caterina ne fu ovviamente impressionata e cadde nella trappola del principe.

    L’episodio, diffuso su un pamphlet dall’ambasciatore tedesco Helbig che accusava Potëmkin di furto ai danni dell’imperatrice, si è dimostrato infondato, ma anche ciò che è falso può generare effetti nel corso della storia umana.

    I nazisti trasformarono un’intera città in un palcoscenico su cui allestirono un osceno spettacolo: vennero ridipinte le case, le strade poeticamente rinominate, costruiti negozi che rivendevano beni sottratti agli stessi prigionieri, aperta una banca che distribuiva monete di nessun valore, inaugurata una biblioteca di molte migliaia di volumi, una scuola (ovviamente chiusa per vacanza essendo proibito agli ebrei ricevere un’istruzione), un caffè dove non veniva servito altro che acqua ma venivano eseguiti concerti di grande levatura, un parco giochi per bambini (che non potevano giocarci), un gazebo dove suonavano orchestrine jazz (i Ghetto Swingers), allestiti teatri attrezzati per ogni tipo di rappresentazione.

    Per rendere credibile l’inganno, prima della visita della Croce Rossa Internazionale avvenuta il 23 giugno del 1944, furono trasportate verso Auschwitz più di diecimila persone, per ridurre il grave sovraffollamento del ghetto, e vennero aumentate le razioni di cibo (a Terezín erano persino inferiori che ad Auschwitz).

    Durante le otto ore in cui la delegazione si trovò a Terezín, tutti i prigionieri del ghetto dovettero interpretare l’impostura della città donata dal Führer agli Ebrei, in un rigido percorso attentamente studiato dalle SS. E la delegazione della Croce Rossa fu ingannata talmente bene che le SS pensarono di girare subito dopo un film di propaganda su quel palcoscenico ormai allestito.

    Il film, noto come Der Führer Schenkt den Juden eine Stadt ¹, e di cui rimangono pochi spezzoni², fu girato dagli ebrei e finanziato con i soldi loro depredati. Il regista incaricato fu Kurt Gerron, attore internato protagonista dei cabaret berlinesi durante la Repubblica di Weimar, che aveva recitato ne L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht e che aveva affiancato Marlene Dietrich ne L’angelo azzurro.

    Quando anche quest’ultimo inganno fu compiuto Terezín perse la sua funzione e le SS cominciarono a smantellare il ghetto modello. A partire da settembre fino al 28 ottobre 1944 trasporti continui portarono alle camere a gas di Auschwitz quanti più testimoni possibile. Degli oltre centoquarantamila deportati a Terezín se ne salvarono solo sedicimila³.

    Su uno dei treni diretti ad Auschwitz c’erano anche Viktor Ullmann e Petr Kien, insieme a grandissimi artisti quali Pavel Haas, Gideon Klein, Hans Krása, Rafäel Schächter, i Ghetto Swingers e molti altri. Un’intera generazione di artisti, rappresentanti della vivacissima cultura ebraica mitteleuropea, fu letteralmente spazzata via.

    Era stata proprio l’attività di questi artisti che permise di creare l’illusione del ghetto modello, le loro creazioni furono sfruttate dai nazisti come il più potente dispositivo di propaganda. Così, quello che all’inizio era stato uno strumento di resistenza allo sterminio e alla perdita di dignità di un popolo, dapprima osteggiata e poi tollerata dalle SS, divenne un mezzo nelle mani dei nazisti per coprire i loro crimini.

    Ciò che era sorto spontaneamente come

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