Le orme di Tony: Come ho raggiunto il successo senza eccesso
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Info su questo ebook
TONY PAGLIUCA (Pescara 1946), già tastierista e leader delle Orme, uno dei gruppi italiani di rock progressivo che hanno avuto più successo non solo in Italia, dagli anni Novanta solista e compositore, vive a Mestre. Amico di artisti e poeti come Elio Pecora, dopo il suo album Rosa Mystica (2021) sta lavorando a una versione per orchestra di Felona e Sorona.
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Le orme di Tony - Tony Pagliuca
Tony Pagliuca
Le orme di Tony
Come ho raggiunto il successo senza eccesso
Le orme di Tony. Come ho raggiunto il successo senza eccesso Tony Pagliuca
© 2022 – Readaction ISBN 979-12-8084-400-2
Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.
I edizione marzo 2022 info@readaction.it
Musicae è distribuito da Readaction s.a.s. Sede legale: via Isonzo 34, 00198 Roma
UUID: 284d9adb-cb31-4ce7-9f24-3f02fb451802
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Indice dei contenuti
Ancora insieme
Bella Palinuro
Cara Venezia
Dora
Eufrasia, la sorella
Fuoriclasse
Gianno
Handicap fisarmonica
Il primo concorso
Jolly
Karine
Licenza
Marta
Notte
Orco
Papà e la guerra
Quiete
Rocchetto magico
Spiazzati sull'isola
Titani del rock
Ultimo sforzo
Volata
W il ritiro
Yes we can
Zampata finale
A Tatiana
Nel clamore della notte, il musico ripone pause smarrite tra i suoni.
TONY PAGLIUCA
Ancora insieme
Comando vigili urbani Piazzale Roma, Venezia
«Furgone promiscuo bianco in zona bagagli. Passo».
«Xe queo co la scrita Orme? Passo».
«Sì, xe el scaveon sull’alegro. Passo».
«Oro, ghe penso mi. Passo e chiudo».
Traducendo dal dialetto veneziano il dialogo fra gli agenti di Polizia urbana: È quello con la scritta Orme? Sì, è il capellone sull’allegro. Ok, ci penso io.
Al suono acuto del fischietto dell’uomo in divisa, rallento e par cheggio.
«Buongiorno, favorisca patente e libretto» chiede il vigile, ora in per fetto italiano, con molto brio.
«Ueh! Capitano, oggi sono così felice che, se lo vuoi, ti mostro e ti suono anche il triangolo; guarda però che non porto con me nessun di sco perché dove stiamo andando, 45 giri o LP che siano, lì proprio non servono».
«Non vedo tutta la vostra attrezzatura, dove siete diretti con questo furgone?».
«Prego? Questa Furgona, vorrai dire: si chiama così, ci porterà all’i sola di Wight, in Inghilterra, fi un viaggio un po’ fuori, ma ne vale la pena perché c’è un mega festival, una settimana intera di concerti di musica rock!».
«Urca, che meraviglia, c’è un posto anche per me?».
«Sì, sì, dai, molla tutto».
«Eh, magari, ma tu come mai sei qui a Venezia?».
«Sto aspettando Nino…, Nino Smeraldi il chitarrista, l’unico del
gruppo rimasto a Venezia; appena arriva andiamo a Mestre a prendere Aldo Tagliapietra. Probabilmente Aldo non si farà più vedere da queste parti perché si è sposato e ha lasciato Murano; poi passeremo a Marghera dove saliranno l’altro ex isolano di Burano, Michi Dei Rossi, il batteri sta, e infine il nostro amico Renzo Di Francesco».
«Siete davvero un gruppo speciale: un veneziano, un muranese, un buranello e un terrone come te» continua il vigile, sempre sorridendo.
«Ehi! Ti ricordo che sono nato a Pescara, centro Italia, nella città di Ennio Flaiano e Gabriele D’Annunzio, che i caga in acqua come te non sanno nemmeno chi sono» replico io con un ampio sorriso.
«Andiamo piano con i caga in acqua, dovresti vedere i turisti che vengono qui e mangiano panini lasciando sporco dappertutto» risponde il vigile, un po’ meno sorridente.
«Voi discendenti della ricca e potente Serenissima sempre pronti al lamento… se non la smettete Venezia sarà sommersa dalle vostre lacri me!» ribatto io un po’ sul serio.
«E sì, certo, siamo diversi. Noi italiani siamo un’accozzaglia di popoli ancora divisi, ma quando si tratta di non rispettare le regole…» insiste il vigile.
«Non tocchiamo questo tasto, lascia fuori i musicisti: essere sregolati è un falso mito, noi apparteniamo al mondo dove tutto è possibile: due o tre, pari o dispari, tutti i numeri possono essere contenuti in un solo bat tito. La musica è più della matematica, l’esempio concreto della libertà, libera come l’aria! Ed è solo in questa zona franca che gli artisti operano prodigi realizzando le utopie, capisci?». Ho colpito nel segno; il vigile sembra pensare: " questo qua parla profondo". E così insisto.
«Ti dirò di più: i musicisti del Nord guardano più alla perfezione tec nica, mentre quelli del Sud si preoccupano più dei contenuti. Due modi opposti di ragionare, però quando si uniscono… Questo viaggio l’ho voluto io, perché è ora di cambiare musica in Italia».
«Sarebbe bello che Smeraldi rientrasse nel gruppo, avete fatto quel capolavoro di Ad Gloriam! Eravate troppo avanti» esclama il vigile, scuotendo la testa.
«Eh sì, purtroppo, ma recupereremo. Ueh! Visto che sono in anticipo vado a bere un caffè, dai un occhio alla Furgona. Ciao capitano!».
«Ehi, vecio! Mandame na cartolina!».
Erano le 7:40 di mercoledì 26 agosto 1970. Erano trascorsi due anni dalle cose lasciate al passato e le note di Senti l’estate che torna, la canzone che aveva fatto conoscere il gruppo Le Orme al grande pubblico televisivo, erano ancora nell’aria.
Dietro il bancone del bar, a piazzale Roma, una radiolina vibrava tra le bottiglie trasmettendo una canzone dell’ultimo Festival di San Remo, L’amore è una colomba, proposta da una giovanissima Marisa Sannia e da Gianni Nazzaro. Bloccai il barista: «Ferma il caffè! Ho cambiato idea, meglio una grappa, queste canzoni mi guastano il carattere». Dissi guardandomi intorno, quasi per cercare una qualificata conferma da due giovani inglesi che stavano giusto sghignazzando per i fatti loro. Se avessero saputo che facevo parte di quel gruppo che aveva provato a cambiare le cose, a cercare nuove strade in campo musicale, forse avrebbero capito il perché del mio malumore. Un percorso in salita il nostro: trovammo un’Italia arroccata sulla difensiva e bloccata dalla paura del nuovo.
Una posizione strana, assurda per un paese che potrebbe dare un nome ad ogni ciottolo perché ognuno di questi ha una storia da raccontare. L’Italia è sempre stata ai massimi livelli nel campo della musica: dal Canto Gregoriano a Rossini, Verdi, Puccini. Questi componevano musica e la scrivevano per tutti gli strumenti dell’orchestra, per i cantanti solisti e per i cori. Come sia arrivato poi questo tempo crepuscolare non è solamente frutto di un malinteso. Aver perso la guerra, con tutte le conseguenze che questa tragedia ha recato con sé, tra le quali il disagio di dover ripartire, ha comportato scelte sicure, agganciate al passato, e il rinnovamento ha fatto fatica a manifestarsi. Non è stato così negli Stati Uniti, dove la nuova musica si è diffusa nelle diverse formule espressive del jazz, del blues e del rock, sviluppando industria e cultura. In Italia l’industria discografica ha pensato solo allo sfruttamento economico del fenomeno musicale preesistente senza favorire le nuove tendenze. Non ci si è preoccupati di accogliere e sperimentare con l’umiltà necessaria tutti i nuovi linguaggi, per poi confrontarli con quelli della nostra cultura. Il disinteresse generale ha favorito la crescita spontanea del muro della incomunicabilità tra jazz, classico, folk e rock, e in questo modo la nostra scuola è rimasta
isolata e refrattaria ad ogni novità.
All’inizio degli anni Sessanta la Rai trasmetteva soprattutto musica italiana tradizionale, senza curarsi troppo delle nuove sonorità che allora cominciavano ad essere espresse principalmente dai complessi che in Italia rispondevano al nome di Camaleonti, Dik Dik, Equipe 84 e altri ancora. Erano gruppi che incidevano bellissime canzoni che finalmente, a partire dalla metà di quello straordinario decennio, cominciavano a venire trasmesse con una certa frequenza alla radio e proposte anche dalla televisione, ottenendo in breve tempo dei successi sbalorditivi. Numerosi erano i loro concerti nelle piazze e nei teatri di tutta Italia.
Molte di queste canzoni, incise prevalentemente su dischi in vinile a 45 giri, lato A e lato B, piacevano anche a me, ma ci rimasi molto male quando venni a sapere che erano semplicemente delle cover. Fu insomma una grossa delusione scoprire che questi brani non erano stati composti dai componenti dei rispettivi gruppi ma da autori stranieri membri di complessi inglesi o americani: l’industria discografica italiana selezionava tra le classifiche dei dischi più venduti all’estero le canzoni che più si adattavano ai propri artisti. Scelto il pezzo, veniva riprodotta la base musicale in modo molto simile all’originale mentre alla traduzione del testo in italiano pensava un paroliere. Il vocabolo paroliere non rende onore alla fatica che comporta scrivere un pensiero poetico all’interno di una canzone: la metrica, gli accenti, la vocalità rappresentano una sorta di prigione all’interno della quale chi scrive il testo deve muoversi e combattere per riconquistare la libertà espressiva. Uno dei più validi artisti, in questo ambito, è Giulio Rapetti, che già allora cominciava ad affermarsi fra gli autori italiani con il nome d’arte di Mogol.
Penso che molti sappiano che Senza luce dei Dik Dik, L’ora dell’a more dei Camaleonti, Io ho in mente te dell’Equipe 84, sono versioni italiane di successi stranieri ma, per fare degli altri esempi, lo sono anche A chi di Fausto Leali, Città vuota di Mina e Pregherò di Celentano. Da parte mia trovavo ingiusto che la provenienza di quelle stupen de canzoni fosse in qualche modo taciuta, perché in questa maniera i meriti se li prendevano proprio questi gruppi o questi interpreti che avrebbero dovuto rappresentare il cambiamento, ma che invece non facevano che riproporre, senza il minimo sforzo creativo, brani di suc- cesso già ampiamente apprezzati nei paesi di origine.
Per questo noi cercammo fin dall’inizio di incidere solo canzoni inedite, scritte esclusivamente dai componenti del gruppo.
Per fortuna c’era Radio Luxembourg, la famosa radio pirata installata su una nave ancorata al largo sulla Manica, che trasmetteva con notevole anticipo rispetto all’immissione sul mercato italiano molte di queste memorabili canzoni.
Ricordo che me ne stavo a letto con l’orecchio appiccicato alla griglia della radio, perché bisognava sintonizzarsi nelle ore serali sulla frequenza 1440 Khz e spesso la ricezione era disturbata da parecchie interferenze che creavano l’immaginario paesaggio sonoro abitato dagli intrecci sconfinati dei suoni casuali: il richiamo di un muezzin, misto a voci lontane, oppure canti di paesi sconosciuti, alfabeti morse, melodie orientali, journal parlé; un insieme di suoni, rumori, espressioni che si dissolveva o si ricompattava al minimo spostamento della manopola della scatola magica, come un caleidoscopio .
L’attesa era un piacevole preliminare che trovava il suo apice nella voce dello speaker che annunciava Gimme Some Lovin di Spencer Davis Group: Tu,tu, tu,tu,tu. Tà! Tu,tu,tu,tu, tu. Tà! E l’attacco dell’Hammond con il suono distorto del travolgente accordo di settima: Vreen, vreen, vreen, vreen, vreen… Un potente raggio di sole che buca le nuvole!
Non c’erano dubbi, quella era la nostra musica, la musica di noi ragazzi, e l’Italia era fuori dal mondo.
Pensavo a questo dentro al bar, prima di buttare giù l’alcool come avevo visto fare nei film americani; poi sgonfiai il petto e andai verso la Furgona.
Finalmente ecco Nino, eccellente chitarrista, ottimo compositore e fondatore delle Orme, in completo jeans, capelli biondi, lunghi, appena lavati.
«Ciao Toni, ma cosa sono quelle bottiglie?» Mi chiese, sistemando le sue cose nel bagagliaio.
«Prosecco di Valdobbiadene!» Mi vantai.
«Noooo!».
«Sì! A chi non piace il vino, che Dio gli tolga anche l’acqua!» rispo si scherzando, e conclusi: «E nello scatolone ci sono spaghetti, salsa di