Pubblicità .jPig: La percezione, il formato e l’estensione della pubblicità, ovvero come spiegare, trattare (e forse ri-trattare….) il fenomeno pubblicitario nella nostra società
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Il miracolo virtuale della gratuità, il pegno ripetuto e reiterato di una infinita ridistribuzione o magari il concetto subliminale, ma forse ingannevole, della condivisione sociale di Sherwood in chiave glamour. Miracolo che se anche non riesce, (o non riuscisse) a far vendere più del dovuto, o comunque dell’auspicato, produce coesione, restituisce consenso, supporta la complicità, la collusione e induce, progressivamente, alla definitiva fidelizzazione verso quella quell’ammiccante giostra dei balocchi attraverso cui si offrono e si mostrano le potenzialità del sogno, capace di scandire il processo sociale di un valore.
Spesso però, per ignoranza ma anche per offuscamento e depistaggio, non riusciamo a distinguere quanto la pubblicità possa rivelarsi una consistente leva mediatica rivolta alla ‘ribellione’, ‘all’incitamento’, alla perversione e quanto invece possa addirittura rappresentarne la cura stessa.
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Anteprima del libro
Pubblicità .jPig - LUCIANO CAGGIANELLO
James
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La percezione, il formato e l’estensione della pubblicità, ovvero come spiegare, trattare (e forse ri-trattare….) il fenomeno pubblicitario nella nostra società
Premessa
L’essere umano è un prodotto dell’evoluzione antropologica che detiene un passato e manterrà un futuro (si spera...) entro il quale la sua morfologia, la sua società e le sue condizioni, comunque muteranno. Nel percorrere questo iter esistenziale e progressivo l’umanità si è concessa, ma soltanto in tempi molto recenti, la necessità di riflettere riguardo il senso umano del proprio percorso, anche in ragione del fatto che analizzando il passato si evince quanto la preoccupazione maggiore fosse assorbita dall’unica e predominante necessità di sopravvivenza. Il senso intrinseco della vita stessa era soddisfatto dalla condizione sociale attraverso uno sviluppo che potremmo definire predeterminato. In tempi più prossimi alla nostra modernità si è invece attuata una tendenza capace di utilizzare principi idonei nello spiegare e nell’intervenire su questioni di attività umana, soprattutto attraverso l’adozione di analisi formulate a posteriori, (proprio perché è risaputo per l’esperienza di qualunque periodo storico), che i contemporanei
che lo vivono non risultano esserne i migliori conoscitori, tantomeno possono definirsi arguti analisti del loro stesso presente. Analizzare, attraverso l’ausilio di un raziocinante pensiero pubblicitario, questa tipologia di presente
, che diventa automaticamente passato nel suo stesso scorrere e nel suo temporale assecondarsi comunque ci supporta riguardo la riflessione su alcuni modelli sociali di emancipazione, anche perché non tutti gli archetipi sono progressivi (o perlomeno non sempre un paradigma si sviluppa con tale metrica) e pertanto l’affermazione di un domani migliore
non fornisce adeguate certezze, tantomeno rigorose stabilità statistiche, riguardo l’avverarsi di un dopodomani ancora più performante.
Seppur questo testo, nella sua intrinseca struttura ideativa, sia stato pensato prima che si abbattesse sull’intera umanità la grave emergenza del Covid19, l’analisi concettuale, che ne identifica i perimetri e ne sviluppa i presupposti, sostanzialmente non cambia (almeno per quello che concerne il passato e il presente). Riguardo invece lo svolgersi del futuro prossimo, soltanto successivamente capiremo se l’incursione di questa tragedia globale condurrà ad un mutamento profondo della società (e della relativa pubblicità), auspicabilmente più etico, oppure se viceversa non lascerà nessun segno consistente che valga la pena di analizzare. Non potendolo appurare aprioristicamente, possiamo soltanto sperarlo concedendoci al desiderio di veder realizzata una nuova modalità espressiva e una differente presenza comunicativa.
Presentazione
Potremmo definire la pubblicità come il menù leggero delle pubbliche relazioni, come il fenomeno ideologico sociale che sostituisce alla logica del mercato la magia di un presunto regalo. L’astuzia di questo atteggiamento consiste nel far apparire tutto un omaggio, un servizio, uno sconto, o forse la felice alternativa per guadagnare punti, per raddoppiare la merce, insomma una gigantesca estrapolazione dell’opulenza, dispensata verso tutti, quasi fosse un perenne e incondizionato regalo. O magari anche il miracolo virtuale della gratuità, il pegno ripetuto e reiterato di un’infinita ridistribuzione oppure il concetto subliminale, ma ingannevole, della condivisione sociale di Sherwood però in chiave glamour. In ogni caso anche se la pubblicità non riesce (o non riuscisse) a far vendere più del dovuto o dell’auspicato diventa però capace, nella sua consistente e discutibile lista di proponimenti, di aumentare la produzione di coesione, di evidenziare la restituzione del consenso attraverso il supporto della complicità e della collusione inducendo, con mirata progressione, alla definitiva fidelizzazione. Dalla pubblicità alla vetrina il passo è brevissimo, quasi istantaneo. Essa rappresenta lo spazio della relazione sociale, a metà strada tra pubblico e privato, tra esterno e interno, è la sostanziale esposizione che induce al consenso. È quell’ammiccante giostra dei balocchi attraverso cui si offrono e si mostrano le potenzialità del sogno, capace di scandire il processo sociale di un valore.
La società dei consumi è una società a base ‘terapeutica’, ovvero ognuno determina condizioni personali al fine di produrre la propria ricetta che considera risolutrice e salvifica. Così come un medico prescrive una serie di analisi al fine di ottenere maggiori dettagli e offrire una precisa diagnosi, anche un pubblicitario indirizza una serie di sondaggi al fine di ottenere informazioni compiute affinché si realizzino meno squilibri possibili nell’ideare la sua campagna promozionale. Pure gli architetti, riguardo la concezione e la progettazione degli spazi, cercano di addomesticare i potenziali fruitori alla pazienza affinché vivano in case e in ambienti che non li rappresentano. Gli stilisti cercano invece di guarire i consumatori dal cattivo gusto e anche i sociologi pretendono di comunicare biologicamente. Insomma, ogni categoria professionale ipotizza, detiene e dispensa i suoi infallibili rimedi verso qualcuno o verso qualcosa. Dall’amalgama di tutta questa ‘ coltura del rimedio’ spunta una società della cultura pacificata (almeno apparentemente) ma sicuramente repressa, e lo dimostra la costante proliferazione di un percorso sociale che alimenta un’allusiva violenza (cronaca nera, films, docu-reality, accadimenti reali seguiti con psicologica morbosità….) che poi sfocia inesorabilmente nella brutalità e nell’oltraggio quotidiano. Si riscontra una tangibile ed evidente ossessione nei confronti della sicurezza, che in fondo desidera soltanto bilanciare un Dna umanoide di certificata e documentata prevaricazione genetica, adoperando quel rodato metodo che fornisce una spropositata quantità di buoni consigli soltanto perché, come diceva il ‘poeta’, non si possono o non si riescono a realizzarne i cattivi esempi. Ovviamente questa violenza
, seppur vissuta in dosi opportunamente omeopatiche, cerca di contrastare la fragilità della vita, di quella vita superficialmente serena. È una sorta di vaccino contro lo spettro della violenza, intesa come massima espressione della tragedia. Comunque la violenza appaltata diventa l’escamotage preferito per scongiurare (o forse solo per posticipare) una possibile degenerazione. Spesso però, per ignoranza ma anche per offuscamento o depistaggio, non riusciamo a distinguere quanto la pubblicità possa essere una consistente leva mediatica rivolta alla ribellione, alla violenza, all’incitamento o alla perversione
e quanto invece possa addirittura rappresentarne la cura stessa.
Oramai la nostra società avendo tutto, o quasi tutto, fatica, almeno in linea di principio, a volere di più, però non esistendo un limite prestabilito all’illimitato si tende ad invadere quella soglia di astratto piacere desiderando il desiderio stesso o magari semplicemente immaginandolo, al fine di integrarlo gradualmente nella nostra esistenza. Quest’eccitante quanto apparente parametro, che coincide anche con un preciso e articolato obiettivo sociale, diventa la superficiale soluzione nei confronti dell’inappetenza da consumismo. La pubblicità emerge quindi come lo strumento ideale attraverso cui proporre, orientare, veicolare e mantenere alti standard di consumi nonché crescenti quantità di emozioni
su cui operare scelte e indirizzarne acquisti.
All’interno di questo complesso meccanismo e nell’ambito della percezione della marca e delle strategie comunicative (identificate come logo e brand identity), il ruolo mediatico adottato dalla pubblicità è profondo e da un certo punto di vista, seppur efficace, anche tenacemente fazioso. Quelli che un tempo erano soltanto dei semplici contrassegni grafici aziendali, dei depotenziati aggregati visuali, adesso sono invece diventati suadenti e surrogati strumenti di aggregazione, precise e mirate strategie relazionali nonché fenomeni di appartenenza sociale e adesione culturale di status. Uno status che viene spesso esplicitamente esibito, virtuosamente ricercato e reso apparentemente esclusivo ma che in termini culturali tende comunque a diventare anche emarginante.
La socializzazione si realizza e si concretizza, prevalentemente, attraverso queste pratiche di consumo. Alcuni slogan, opportunamente creati e instillati nella quotidianità di codesta cittadinanza consumistica, consentono d’instaurare sintonia e benessere interiore seppur in maniera superficiale. Probabilmente tale mistificazione è dovuta soltanto all’ignoranza, intesa proprio come ignorare
(o non percepire) la vera motivazione che vorrebbe generare quest’induzione all’acquisto, ma comunque attuandone quella volontà che s’identifichi con questo modello propagandistico tanto che la maggioranza delle persone, aderendovi, consolidano la piena e personale realizzazione dopo aver esercitato tale gratificante esperienza di consumo, soprattutto se generata come fenomeno collettivo. Infatti non dimentichiamoci quanto l’individuo, per sua natura, apprezzi molto la condivisione