ELOGIO DELL'INUTILE, critica all'utilitarismo economico
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ELOGIO DELL'INUTILE, critica all'utilitarismo economico - Fabio Luffarelli
30)
INTRODUZIONE
Quanti elogi!
Per chi viveva nell’epoca del dogmatismo cattolico che veniva sistematicamente disatteso dalle azioni, Erasmo pensò a scrivere Elogio della follia; una follia che dice la verità perché la realtà è diventata folle.
Viviamo in un’epoca di velocità, e i medici scrivono L’elogio della lentezza (Lamberto Maffei, 2014).
Viviamo nell’epoca dell’apoteosi utilitarista, non possiamo che elogiare l’inutile come forma di rivolta a una certa visione, permanenza e persistenza di concetto di utile. Come nel caso di Erasmo per la follia: si tratta di una utilità, quella economica, tale da essere divenuta moralmente inutile e chissà se l’inutilità economica non possa farci riscoprire ciò che vale, aldilà di tutto. Concetto di utilità che si è impossessato dei mezzi facendoli diventare scopi. Questo slittamento è ciò che chiamo deriva.
In particolare, qui vorrei riflettere brevemente sulle forme di tale degenerazione:
La deriva utilitarista. Cioè quantitativa, addizionale, invece che anche qualitativa. Ciò comporta una distorsione antropologica e morale. Secondo il noto motto benthamiano: Il massimo della felicità per il massimo numero di persone
; è giusto ciò che serve.
La deriva economica. Cioè ideologica, che vede nel di più è meglio
, nella crescita, la risposta a ciò che è utile, quindi giusto (slittando dal descrittivo al normativo). Ciò comporta una distorsione delle credenze e del pensiero che ci trasporta in una nuova chiave di lettura onnicomprensiva: il crescismo
come ideologia della crescita.
La deriva manageriale. Cioè organizzativa, che genera una più ampia distorsione sociale. Ad esempio, il fatto che il privato è meglio del pubblico
, che gli incentivi determinano le nostre azioni e il funzionamento naturale delle cose.
La deriva meritocratica. Cioè motivazionale, che genera una distorsione psicologica su chi siamo (non cittadini bensì e anzitutto consumatori e impiegati) e cosa dobbiamo volere (consumare ed essere produttivamente "committed").
Tali derive possono essere viste come un cerchio che parte dalla moralità e ci riconduce a essa, dopo aver trasformato le mappe mentali e mutato il senso del rapporto mezzo/fine.
Tante diverse facce di una sola deriva, complessa e semplice. Complessa perché si è manifestata in molti, sottili, modi dalla natura sfaccettata. Semplice poiché i suoi presupposti sono semplicistici e in un certo senso ingenui. Una semplicità che ci è utile
(in fondo è utilitarista!), perché è in grado di racchiudere il mondo e i comportamenti umani in una bolla. Di astrarre la società a soli individui, i comportamenti a preferenze individuali rappresentate da curve di indifferenza
e in teorie di scelte razionali
. Assurdamente, è per questo che continuiamo a reiterare i presupposti utilitaristi: sono utili per descrivere il mondo, ma, così descrivendolo, ci convinciamo che questo sia qualcosa di diverso da quello che è; ovvero un luogo complesso. L’economia per modellizzare e attuare politiche economiche ha bisogno di regole semplici, di un ragionamento lineare e deduttivo (da "ducere", condurre dall’alto verso il basso). In fondo, ogni modello di governance non è, per utilizzare del gergo aziendale, top down
? Invece e curiosamente, anche in contesti aziendali si assiste sempre più all’incoraggiamento di sistemi di progettazione e modalità di lavoro bottom up
. Non è un caso se questa liquidità
e perdita di controllo che sperimentiamo si manifesta anche nella contrapposizione tra strutture gerarchiche e organizzazioni rizomatiche. Queste ultime caratterizzate dall’assenza di un centro, distribuite, come possono essere: internet e le sue applicazioni user-driven, le reti p2p, i software open source. Insomma, così come il modello gerarchico nei fatti viene smentito e messo talvolta in crisi, allo stesso modo lo è l’agenda illuminista con il suo semplicismo deduttivo. Non solo, proprio quando affermiamo di essere coscienti del semplicismo incarnato dai presupposti illuministi, siamo lì di nuovo a difenderlo per la necessità che la macchina funzioni
, così come a grandi linee ha funzionato fino a ieri. Ma, proprio in questa ammissione di colpa, e nella sua successiva legittimazione, risiede il peccato originale della maggior parte degli strumenti concettuali dell’attuale paradigma economico: crescita, PIL, equilibrio di mercato, razionalità utilitarista dell’agente economico etc.
Le rivoluzioni in senso lato, non sono forse uno strumento di rottura di un certo divenire a forma di gaussiana? Una forma di distribuzione di variabili casuali e rapporti di forza che chiede ai sistemi di reintrodurre un principio dialettico, capace di controbilanciare la forza che per sua natura ha il principio deduttivo su quello induttivo, il potere della struttura gerarchica sul depotenziamento di quella rizomatica, il semplicismo sulla complessità, il monopolio sulla resilienza. Ciò è tanto più vero nella misura in cui il mondo diventa, appunto, diverso
, complesso e sfaccettato nella pluralità delle sue crisi. Abbiamo quindi bisogno di ridare direzione a un certo semplicismo utilitarista, economico, sistemico, che per modellizzare e generalizzare ha sacrificato i fini in mezzi. Un’urgente direzione della quale è possibile riappropriarsi attraverso un orizzonte morale. Chiarificare la pesante eredità illuminista, ovvero l’impasse sussistente nel rapporto mezzi/fini. D’altra parte, si tratta della stessa impasse che si è venuta a creare in modo generalizzato con il postmodernismo. La decostruzione di ogni certezza (dalle tradizioni alla religione, sul piano collettivo e quello personale) ha lasciato ampio spazio allo smarrimento, al trovarsi di fronte all’inevitabile soluzione di sostituire una ideologia collettiva (sia essa politica o religiosa) in prassi individuale. Così, inevitabilmente a partire dalle sue premesse, l’Homo faber, un uomo capace di forgiare il suo destino e domare la natura a partire dai suoi mezzi, si è trasformato in Homo oeconomicus (uomo che sacralizza i mezzi in fini). Per quanto lodevole l’esercizio della decostruzione dogmatica, non deve configurarsi come una deriva tout court della moralità altrimenti la prassi, il mezzo, diventerà il fine. Filosoficamente, alla decostruzione occorre affiancare la problematizzazione, l’analisi, e in fondo il riconoscimento che abbiamo necessità di credere a degli ideali che ci indicano l’orizzonte morale e sociale. Altrimenti navigare a vista è un pericoloso navigare fine a sé stesso. Nella smania di decostruire i condizionamenti passati, i grandi sistemi, ci si è dimenticati con cosa sostituirli. Allora la natura, anche quella umana, si organizza per dare uno scopo a quello che fino a ieri era solo un mezzo. Si è così arrivati progressivamente a ignorare e a problematizzare qualsiasi orizzonte morale, e gli scopi delle azioni trovano ragione di essere nelle azioni stesse. Diventiamo tristemente fini a noi stessi
.
Ho quindi il sospetto che la confusione morale mezzi/fini che caratterizza la nostra epoca risieda nella nozione di utilità. In effetti, da principio di fondamentale riflessione etica (utilità = felicità) come è potuto succedere che il termine utilitarista
oggi ci appaia quasi negativamente, depotenziandone ogni velleità morale a vantaggio di quella strumentale?
Allo stesso modo, come è potuto succedere che nozioni altrettanto illuministe come liberalismo e individualismo, si siano oggi trasformate in un oscurantista dispotismo economico? Tutto ciò non ha nulla a che vedere