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L'ombra sinistra della scuola: Memorie frustrate di un insegnante secondario, dal ’68 ai primi ‘90
L'ombra sinistra della scuola: Memorie frustrate di un insegnante secondario, dal ’68 ai primi ‘90
L'ombra sinistra della scuola: Memorie frustrate di un insegnante secondario, dal ’68 ai primi ‘90
E-book336 pagine4 ore

L'ombra sinistra della scuola: Memorie frustrate di un insegnante secondario, dal ’68 ai primi ‘90

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Info su questo ebook

Il Sessantotto, prima e dopo, rivissuto attraverso l'amarcord di un docente ex-contestatore entrato nelle aule a sei anni per non uscirne più.
Condito di considerazioni argute e siparietti umoristici, il diario oscilla fra la tormentata nostalgia dei bei tempi andati (si fa per dire) in cui il protagonista sedeva non dietro alla cattedra ma davanti e il disincanto di fronte a una scuola che aspira al cambiamento rimanendo sempre la stessa.
Interrogazioni, lezioni, compiti in classe, esami, promozioni e bocciature...sono i contorni sfocati di un mondo la cui "ombra sinistra" tutto copre e tutto uniforma.

Rino Cammilleri è scrittore e giornalista, laureato in scienze politiche. È autore di una vasta produzione pubblicistica e letteraria. Ha pubblicato oltre quaranta libri con Mondadori, Rizzoli, Piemme, Newton&Compton, Cantagalli, Ares eccetera, molti dei quali tradotti all’estero.
LinguaItaliano
EditoreChorabooks
Data di uscita5 mag 2021
ISBN9789887529637
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    Anteprima del libro

    L'ombra sinistra della scuola - Rino Cammilleri

    ...

    ANTEFATTO

    Correva l'anno 1968 d.C. e io frequentavo la Quinta A del liceo scientifico di una città del Sud. Il Corso A era il fiore all'occhiello del Preside. Forse per questo in Prima partimmo in ventotto e arrivammo in Quinta in undici ben distillati. La sezione era rigorosamente maschile, laddove alle altre si concedeva il «misto».

    In quel liceo i maschi dovevano venire in giacca e le femmine in grembiule nero con collettino bianco. Chi non era vestito secondo la regola non era ammesso in classe, e a casa prendeva le busse dai genitori per aver perso un giorno di scuola (altri tempi).

    La ricreazione era rigorosamente separata per i due sessi che ne fruivano - per maggior sicurezza - in piani diversi dell'edificio, con i Bidelli talvolta disposti a barriera in mezzo alle scale.

    A scuola era tutto vietato, e quel che non era vietato era obbligatorio. Si fumava nei cessi, pronti a gettar via la sigaretta se arrivava il Preside a controllare i tabagisti.

    C'era sempre qualche idiota che a un certo punto lanciava: «Il Preside! Il Preside!». E noi buttavamo la cicca (a volte ancora dolorosamente intera) nel buco alla turca.

    Ma non era vero, e finiva in insulti. Per sicurezza, allora, prima di rinunciare all'unica sigaretta di mezza mattina si tirava una buona boccata, si gettava un'occhiata di controllo e, se l'allarme era falso, si continuava a fumare.

    Una volta il falso allarme fu vero e io, dopo aver buttato l’unica Marlboro che possedevo nell’orina, nel voltarmi mi trovai col Preside a un palmo di naso.

    «Lei fumava».

    E io, d’istinto: «No, signor Preside, io non fumavo!».

    Mentre dicevo così, il fumo di quell’ultima boccata mi tradì, uscendomi dalle nari e dalla bocca (non avevo fatto in tempo a espirare). Mi presi un giorno di sospensione e mio padre mi riempì di mazzate,

    Ci davano del «lei». Esempio: «Lei è interrogato in latino, venga».

    Io: «Ma Professore, mi ha interrogato ieri!».

    Lui: «E chi mi vieta di interrogarla anche oggi? Non vuol venire? Due! Si accomodi».

    C'era la palestra (uno spiazzo all'aperto), ma non le docce. Eppure tutti ci iscrivemmo in massa nel Gruppo Sportivo (a quel tempo se non facevi sport le ragazze manco ti prendevano in considerazione). Il Gruppo Sportivo, però, era da frequentarsi fuori dall'orario delle lezioni. Cioè dalle sette e mezza di mattina fino al suono della campanella (otto e mezza). Naturalmente, se arrivavi in classe in ritardo erano guai, visto che l'attività sportiva era guardata dall'alto in basso da parte degli Insegnanti di materie «vere».

    Così, si cominciava la giornata già stanchi e sudati. E la giornata era invariabilmente del tipo descritto nell'esempio su riportato.

    I genitori anche quelli ricchi – ci davano una cifra settimanale (risibile) uguale per tutti, «sennò li si vizia». Qualcuno riusciva ad arrotondare coi nonni. Chi aveva i nonni poveri o morti, pazienza. L’uguaglianza di restrizioni era tuttavia benefica, perché impediva il sorgere di frustrazioni di classe (sociale) in classe (scolastica).

    Anche nelle gite vigeva lo stesso apartheid tra maschi e femmine (però c’era maggior possibilità di manovra). Questa volta erano i genitori a raccomandarsi al Preside perché le restrizioni fossero mantenute (si era pur sempre nel Sud). Ma eccezionalmente potevamo ballare (sotto sorveglianza stretta) se si trovava un juke-box.

    Malgrado ciò, la gita era l'unica occasione per farsi la ragazza. Oltre alla festicciola in casa il sabato pomeriggio, naturalmente. Solo che, in questa, c'erano i genitori di chi l’aveva organizzata. Stavano discretamente nell'altra stanza, ma c’erano. E dovevano telefonare ai genitori di tutte le invitate, all'arrivo e alla partenza, per conferma. Potevano passare in qualsiasi momento per la sala in cui si ballava, perciò non si poteva danzare stretti.

    Nelle gite c'era una maggior larghezza, grazie alla condiscendenza degli Insegnanti più giovani, generalmente quelli di Educazione Fisica. In ogni caso c'era poco da trasgredire perché erano le ragazze stesse a difendere ad ogni costo la loro virtù.

    Un episodio personale servirà a descrivere meglio la situazione.

    Un mese dopo l'avvio dell'anno scolastico (quello in cui, entrato in Quinta A, mi sentivo uno dei padroni del liceo) una mattina, prima del suono della campanella, giunse nel piazzale della scuola una berlina nera, lucida e lunga lunga. Noi bighellonavamo davanti al portone, intenti a fumare la prima sigaretta della giornata (goduria che a casa non si poteva, a quei tempi, lucrare).

    La macchina stazionò a motore acceso. Ne scese un autista - in divisa, stivali e copricapo rigido - che, dopo aver cavato l'ombrello (piovigginava lievemente), fece il giro della vettura e aprì la portiera di dietro. Spuntò una fanciulla acqua e sapone, carina come la primavera, i capelli neri trattenuti da un fermaglino, il grembiule di rito e i libri stretti al petto. Venne accompagnata fin dentro al portone dal sussiegoso autista che, dopo aver salutato deferentemente, ripartì. Ci volle il suono della campanella «dei maschi» per farci chiudere la bocca, rimasta spalancata e con la sigaretta penzoloni.

    Nei giorni successivi si scatenò la caccia alle informazioni. Si seppe che si trattava della figlia di un Importante Funzionario appena trasferitosi in città (sì, sembra il film Nuovo Cinema Paradiso, ma che ci posso fare? il Sud era davvero così).

    Però non c'era modo di vederla se non di sfuggita, e sempre con l'autista, all'entrata e all'uscita da scuola. Faceva la Terza, ma non andava a studiare a casa delle compagne, non usciva mai e non partecipava nemmeno alle festicciole di compleanno.

    Fino a marzo dovetti combattere (anche a cazzotti) per sgombrare il campo da tutti gli altri pretendenti. Quando fu chiaro che il primo tentativo doveva essere il mio (pena gli occhi neri), cominciai a tessere la mia ragnatela.

    Riuscii ad assicurarmi la complicità delle sue compagne di classe, che incaricai di conquistarsi la fiducia dei suoi genitori. Poi, forte della mia posizione nel liceo (ero il direttore del giornalino d'istituto), organizzai una gita.

    Oh, solo di un giorno, dal mattino alla sera, e in una località amena a dieci chilometri di distanza. Ma, essendoci dei ruderi greci, era pur sempre un «viaggio d'istruzione»; in più, la scarsa distanza e il rientro serale garantivano buone probabilità di far breccia nella resistenza dei genitori di lei.

    La gita si fece, e lei venne. Ma se ne stette tutto il giorno appiccicata alle compagne, nel punto più folto del mucchio. Io avevo, sì, avvisato tutti gli avvisabili delle mie intenzioni, epperò le ragazze mi sbirciavano di straforo allargando impotenti le braccia. Ero disperato, non avrei avuto mai più un occasione del genere.

    Quando mancava solo un'ora al rientro, dopo essermi rovinato a furia di mettere dischi «lenti» nel juke-box, presi il coraggio a due mani e la invitai a ballare. Aprì la bocca per rifiutare, ma ormai le amiche, in un lampo, le avevano fatto il vuoto attorno e io l'avevo già presa per la mano.

    Ballammo la Facciata B di un «quarantacinque» di Claudia Mori (sì, la moglie di Celentano) uno slow struggente. E io mi dichiarai. Lei diventò di tutti i colori e cominciò a balbettare. Poi il disco finì (a quei tempi duravano solo due minuti) e il Preside cominciò a chiamare tutti. Ritornammo, al solito, su autobus separati. E per me cominciò la febbrile attesa.

    Dieci giorni dopo, una domenica pomeriggio uscimmo in venti a fare una passeggiata in città. Le ragazze da tempo istruite, manovrarono in modo da farmela trovare accanto, poi lasciarono un paio di metri di spazio tra il resto della comitiva e noi due.

    Finalmente soli (si fa per dire).

    Io tornai subito alla carica e, finalmente, colsi il frutto di tante fatiche. Al colmo della confusione mi disse che, dal giorno della gita, la notte sentiva caldo, doveva alzarsi per saccheggiare il frigorifero ma non riusciva lo stesso a dormire, che non sapeva cosa le stesse accadendo (poverina, in fondo aveva solo sedici anni - io diciotto - ed era la prima volta che si sentiva oggetto di attenzioni da parte di uno spasimante).

    Insomma, ci mettemmo insieme e io divenni il re incontrastato del liceo; anzi, che dico? una leggenda vivente per l'intera città.

    E l'eros? Eccolo: dopo due mesi di fidanzamento mi concesse di tenerle la mano al cinema, ma solo quando si spegneva la luce. Al cinema c'eravamo andati di pomeriggio e in quindici, naturalmente.

    Ma io ero felice e tutti mi invidiavano.

    Eppure quella specie di Gulag, cioè il mio liceo, presentava qualche vantaggio.

    Innanzitutto la selezione e la pressione quotidiana ci avevano resi (quasi) tutti bravissimi in (quasi) tutte le materie. Lo stesso negli sport. Eravamo tra i migliori della città, e qualcuno di noi anche della regione.

    Temevamo i Professori ma li stimavamo. Il Preside esercitava la stessa occhiuta vigilanza anche su di loro e cercava di attirare come Insegnanti nella scuola i migliori neo-laureati. Era un’autorità culturale in città e in ogni circostanza ci proteggeva, specie contro i rivali dell’odiato liceo classico. Era, tra l’altro, Presidente del circolo più esclusivo della provincia, dove potevano entrare solo i VIP locali. E noi, purché debitamente incravattati.

    Ci incoraggiò a creare il giornaletto scolastico e me ne affidò la direzione.

    Grazie a lui, non fu il solito ciclostilato, ma un vero giornale patinato, stampato in tipografia e con tanto di foto e sponsor pubblicitari.

    La pressione congiunta delle famiglie e della scuola cementarono tra noi undici della Quinta A un’amicizia (che durerà nei secoli) costellata di avventure e incredibili goliardate.

    Poiché era tutto vietato, dovevi sempre fare i salti mortali per tutto. Ricordo quel periodo come il più allegro e selvaggiamente spensierato della mia vita.

    Bucare, falsificare la firma del padre sulla giustificazione, resistere ai Professori, intrufolarsi nella palestra delle ragazze, erano cose realmente rischiose (uno fu severamente punito per aver cercato di piazzare un faretto sotto la cattedra: quando la Supplente di Italiano accavallava le gambe, doveva venire acceso tramite un interruttore posto all'ultimo banco). Proprio per questo la trasgressione aveva un sapore unico, e tutte le mattine andavamo volentieri a scuola per vedere cosa sarebbe successo.

    Il più allegro era Nicola, che centrava le mosche con l'elastico. Con lui non si restava mai a corto di trasgressioni, qualche idea gli veniva sempre.

    Una mattina bucammo: era aprile, c'era il sole e le margherite erano grosse così. Bastò scambiarci un'occhiata perché in quattro decidessimo di far festa. Ci recammo in campagna, appena fuori città, percorrendo un tragitto a semicerchio che, secondo Nicola ci avrebbe riportati al liceo giusto in tempo per fingere di star uscendo all'ultima campanella.

    Ma i suoi calcoli si rivelarono errati perché, a un quarto d’ora dall'orario previsto, eravamo ancora tra il cielo e l'erba. Eppure la direzione continuava a sembrargli quella giusta.

    Giungemmo in vista di un lunghissimo muro di cinta. Ci convinse a scavalcarlo in base a questo semplice ragionamento: la direzione è giusta; se c'è un muro di cinta ci sarà anche una casa e dunque un'uscita dall'altra parte.

    Saltato il muro, scoprimmo che questo da un lato era alto tre metri. Ma dall'altro, a causa di un dislivello nel terreno, i metri erano sei. Tornare indietro era perciò impossibile.

    Quando anche l'ultimo ebbe saltato, ci ritrovammo circondati da una folla di facce patibolari, casacca grigia e testa rapata. Ci fissavano in silenzio mentre noi, sbigottiti, ci stringevamo al muro. Ci mettemmo qualche secondo a realizzare che eravamo finiti nel Penitenziario Psichiatrico (la legge Basaglia era ancora di là da venire) durante l'ora d'aria.

    Uno dei degenti ci chiese chi aveva vinto il campionato di serie C. Inutili furono le gomitate tra noi per chi dovesse rispondere, perché nessuno lo sapeva. Nicola, tremando, gli offrì il mazzo di margherite che aveva raccolto, e quello si mise a guardare i fiori con gli occhi sbarrati.

    Nello stesso istante si udirono delle grida e tutti i ricoverati si voltarono. Erano gli infermieri che sopraggiungevano correndo. Si aprì un provvidenziale varco nell'assedio e noi, lesti, ne approfittammo. Correvamo a perdifiato, con i pazienti dietro e gli infermieri dietro ai pazienti. Tutti urlavano: «Fermi! Fermi! Prendili! Prendili! Disgraziati! Studenti di merda!».

    Noi seguivamo Nicola, il maledetto che ci aveva cacciati in quella situazione.

    Ma riuscì anche a cavarcene. Giungemmo in vista del cancello principale (elettrico) proprio mentre questo si apriva per far uscire il macchinone blu del direttore. Ci infilammo anche noi, sempre correndo, e riuscimmo a far perdere le nostre tracce.

    Arrivammo al liceo giusto mentre suonava l’ultima campana e ci accasciammo sulle scale con la bava alla bocca. La Professoressa di Francese (che quel giorno non aveva lezione nella nostra classe) ci vide in quello stato e ci chiese, con spirito di patata, se non avessimo per caso avuto una mattinata dura.

    Riuscimmo a rispondere solo a gesti.

    Nicola aveva escogitato un complicatissimo sistema per fumare in classe, collegando i tubi di cartone nei quali tenevamo i grandi fogli da Disegno Ornato. Seminascosto dietro gli ultimi banchi, chi voleva poteva fumare durante la lezione di un Professore fortemente miope, e convogliare il fumo fuori dalla finestra.

    Finì in grandi rappresaglie il giorno in cui il Preside si trovò a passare sotto la finestra medesima.

    Quando la fantasia non aveva proprio possibilità di esprimersi, Nicola raccontava una barzelletta a quello seduto davanti a lui, sibilandogliela da dietro le spalle. Le inventava lì per lì. Dopo un po' il malcapitato diventava paonazzo, si gonfiava, gli venivano le lacrime agli occhi e, naturalmente, il Professore se ne accorgeva.

    Al prescelto toccava alzarsi in piedi e, non potendo render conto del perché stesse cercando di non ridere (le barzellette di Nicola erano generalmente troppo sconce), finiva buttato fuori.

    Perché vi ho raccontato tutto questo? Perché è qui che volevo arrivare, alle barzellette di Nicola. Anzi, a una in particolare, che mi è rimasta impressa per il significato paradigmatico che la Sorte mi ha costretto ad attribuirle.

    La riporto e poi la spiego, scusandomi per qualche volgarità in essa contenuta. Purtroppo l'uso di eufemismi castigati in certi casi scema di molto il pathos.

    Un distinto signore sale sul filobus, dimenticandosi, nella calca, di pagare il biglietto (l’azione si svolge ai tempi in cui non c'era l'obliteratrice automatica).

    A un certo punto il bigliettaio esclama ad alta voce: «Chi è quel cornuto che non ha pagato il biglietto?». Tutti si guardano in faccia imbarazzati. Dopo qualche istante di sconcerto, il signore che non ha pagato alza la mano e, rivolgendosi al bigliettaio, dice: «Sono io. Ma prima di pagare le voglio raccontare una storia. Quando partii per la guerra lasciai moglie e due figli. Al ritorno, di figli ne trovai tre. Non dissi niente e proseguii la mia vita come prima. Appena i bambini furono cresciutelli, il primo mi disse: Papà, io da grande voglio fare l'ingegnere. E io gli risposi: Bravo, figliolo, studia e diventerai ingegnere. Il secondo allora fece: lo voglio fare l'avvocato. E io: Bravo, figliolo, studia e diventerai avvocato. Si aggiunse il terzo: Papà, io voglio fare il medico. Ma io replicai: Eh, no! Tu che sei figlio di puttana da grande farai il bigliettaio! ».

    Dopo le grasse risate, riflettei: che colpa aveva il terzo bambino? Nessuna. Era stata la sorte a decretare il suo destino, fin dalla nascita.

    Più che «figlio di puttana» era, come si soleva dire in quella città, Figlio della Gallina Nera, cioè sfortunato. Come Calimero, il Pulcino Nero.

    Per questo il suo destino sarebbe stato di frustrazione.

    Anche a me la sorte rivelò da grande che ero nato Figlio della Gallina Nera, e tutti i sogni di gloria del liceo conclusero la mia barzelletta personale così: «Tu che sei Figlio della Gallina Nera da grande farai l'insegnante!».

    FATTO

    Presa la maturità, mi sentivo gasatissimo. Ero stato lo studente più brillante del liceo (di quel liceo) e tutti giuravano sulle faville della mia carriera futura. Con qualche sacrificio i miei mi mandarono a studiare in una prestigiosa università del Nord. Ma quando ci arrivai era già l'inverno del 1969-70. Facoltà occupate, scontri per le strade, cortei, eskimo e sesso a gogò. Studiare? Non c'era tempo: la Contestazione lo assorbiva completamente, e se non ci stavi eri tagliato fuori da tutto.

    A diciott'anni, in un ambiente totalmente nuovo (e in quella situazione) era facile perdere la testa. E io la persi, contento di perderla. Avevo tutto l'occorrente: libretto di Mao stampato in Albania, poster di Ernesto «Che» Guevara, capelli lunghi, radi peli incolti sulla faccia. Alle manifestazioni riconobbi diversi borghesissimi dell'odiato liceo classico della mia città, vestiti da proletari. Poi divennero giornalisti, politici, accademici, magistrati. Qualcuno addirittura questore (dopo aver passato il tempo universitario a fare a botte con la polizia).

    Commisi l'errore di chiamarmi fuori dal Sessantotto prima del tempo: solo da una certa data in poi l'essere un «ex» cominciò a costituire titolo di vanto e chiave per ascese di prestigio.

    Intanto avevo perso degli anni di studio; quando decisi di mettere la testa a partito (non più politico), era tardi: certi Baroni Universitari, adeguatisi al vento che cambiava, si erano trasformati in Tribuni della Plebe. E io, iscritto in Scienze Politiche, mi ritrovavo con una preparazione mai sufficientemente marxista o leninista o bordighiana. Ma riuscii lo stesso a laurearmi, anche se inizialmente nessuno mi voleva in carico. Alla fine trovai un docente (del quale conservo grato ricordo) - ex comunista diventato liberale per reazione - che, di fronte a una tesi di trecento pagine, originale e praticamente confezionata senza alcuna guida, non poté fare a meno di apprezzare e costringere il resto dei Commissari di Laurea a fare, pur a denti stretti, altrettanto.

    Cercai di entrare a far parte dei suoi assistenti; in fondo lo sapevo stufo di vedersi circondato da gente che sapeva tutto di Trotszkij e non molto d'altro.

    Non durò tanto. Il mio mentore andò in pensione, le leggi sul reclutamento universitario cambiarono e io mi ritrovai fuori, a guardare diversi tra quanti avevano attraversato l'università a colpi di Ventisette Politico salire in cattedra, chiudere la porta e, dopo aver ingoiato la chiave, trattare gli studenti molto più duramente di quanto avessero fatto gli antichi Baroni.

    Provai ben cinque volte a rompere l'impenetrabile scudo, ma senza successo.

    Il tempo passava, e in qualche modo dovevo sopravvivere.

    Cominciai a fare concorsi. il primo, per il Consiglio d'Europa. Cinque posti, duecentocinquanta concorrenti. La prova scritta era in inglese e/o francese, allora lingue ufficiali della Comunità Europea.

    Appena entrato nell'aula, a Roma, mi resi conto che non avevo alcuna possibilità: gli altri concorrenti erano in larga maggioranza figli di diplomatici o funzionari internazionali, giovanotti e signorine magari nati a Bangkok, vissuti ad Algeri e laureati alla Sorbona con master a New York. Erano in grado di infarcire citazioni in turco e qualcuno anche in swahili. Io ero bravino in francese e inglese, ma la mia preparazione, per quanto accurata, era al confronto, pur sempre scolastica. Quello fu il primo flop.

    Negli altri concorsi le cose stavano anche peggio. Appartenevo alla generazione del baby-boom postbellico e mi ritrovavo ogni volta insieme ad altri ventiquattromilanovecentonovantanove concorrenti per cinquanta posti. Sì, ero preparato, ma evidentemente non tra i primi cinquanta geni d'Italia, per cui finivo regolarmente tra i primi cento esclusi.

    E il tempo continuava a passare.

    Un amico ragioniere per pura carità mi prese come apprendista nel suo studio commerciale. Ci rimasi un anno. Lavoravo dieci ore al giorno alzandomi alle cinque della mattina perché l'ufficio stava in un'altra città (un treno e due autobus). Quando cominciai a impratichirmi davvero arrivò la cartolina di leva.

    Ero laureato ormai da anni e credevo che non mi chiamassero più, visto che a quel tempo moltissimi diciottenni ricevevano il congedo a casa «per esubero». Ma io ero Figlio della Gallina Nera, così mi ritrovai recluta a ventisette anni.

    «C’è qualcuno laureato?»

    «Io.»

    «Benissimo, questa è la ramazza.»

    La naja era anche così.

    Un anno in divisa. E, alla fine, punto e a capo. Concorsi. E risposte agli annunci sul giornale. Grossi enti nazionali mi selezionarono tra i primi, più volte. Ma all’ultimo colloquio, quello in cui praticamente doveva decidersi l’assunzione, era sempre presente lo psicologo (a quel tempo era di gran moda). E io avevo ormai un esaurimento nervoso da cavalli.

    Mi misi a fare il collaboratore scientifico farmaceutico (che il volgo continuava a chiamare «rappresentante di medicinali»). L’unico «rappresentante» a piedi d’Italia (non avevo l’auto). Mi sfiancavo di treni e bus, litigando regolarmente con i vecchietti che facevano la fila negli ambulatori (non sopportavano la norma che permetteva ai collaboratori di saltare la coda) e sorbendomi la sufficienza con cui talvolta venivo trattato dai medici: leggevano sul mio biglietto da visita «dott.» e mi guardavano con occhio strano.

    L'esaurimento si aggravò, anche perché non riuscivo mai a organizzarmi un efficace giro di propaganda giornaliero, e le scorte di campioni si accumulavano. Implacabile come il destino, tutte le settimane arrivava il corriere a portarmi altri scatoloni di farmaci.

    In breve non seppi più dove metterli. Li tenevo sotto il letto, nel bagno, nei pianerottoli condominiali.

    A un certo punto non ressi e mi licenziai. Forte del fatto che suonavo bene la chitarra mi misi a fare piano-bar, anzi chitarra-bar. Ma gli orari notturni e l'alcool gratis non giovavano certo allo stato avanzato del mio stress. Così, lasciai perdere, rimanendo irrimediabilmente disoccupato.

    Avevo un caro amico che, appena laureato, si era messo a insegnare. Supplenze prima. Corso Abilitante poi. In breve, Insegnante di Ruolo nelle Scuole Secondarie. Dopo un anno aveva trovato il modo di ottenere un Distacco Sindacale presso il Provveditorato. Continuamente mi diceva: «Fai la domanda! Fai la domanda!».

    Ma io non volevo insegnare. Sentivo che quella sarebbe stata la fine di tutte le mie speranze di un brillante avvenire. No, tutto tranne l'insegnamento.

    Fin da piccolo avevo sempre avuto una strana ripulsa per quel mestiere. Oh, non che gli Insegnanti dei miei tempi offrissero uno spettacolo scoraggiante. Al contrario. Erano personaggi stimati e ossequiati, provvisti di un soddisfacente potere d'acquisto e inseriti di diritto nell' intellighenzia locale. Solo che a me erano sempre parsi in fondo dei non realizzati, gente che insegnava perché non aveva trovato di meglio. Era, certo, nient'altro che una mia impressione adolescenziale; ma mi aveva segnato, che ci potevo fare?

    Insomma, no, l'Insegnante no. Non io.

    Così, me ne andai in Francia, da uno zio emigrato, a riparare antenne sui tetti (lo zio aveva un negozio di elettrodomestici e faceva anche da radio-tele-ménager). Ma nella provincia francese i tetti erano spioventi e i francesi amavano i grossi cani, soprattutto quelli da guardia. Ci trascorsi un’estate, a rischio continuo di cadere e di venire morsicato.

    Tornato in Italia, scoprii che il mio amico Insegnante aveva inviato al Provveditorato la Domanda e tutta la Documentazione Relativa a nome mio e a mia insaputa. Non mi arrabbiai perché non ne avevo più la forza. Ormai sentivo il peso del Destino sulle spalle e mi sognavo tutte le notti bigliettaio sul filobus.

    Della barzelletta-profezia, la variante che mi concerneva («Tu, che sei Figlio della Gallina Nera, farai l'insegnante!») puntualmente si avverò.

    Tre giorni dopo il mio rientro in patria squillò il telefono.

    «Qui è il Provveditorato. Accetterebbe una Supplenza Annuale su una Cattedra di diciannove ore in città?»

    Come si può lottare contro il Destino? Avevo resistito anni, avevo fatto tutti i mestieri, avevo perfino lavato latrine di caserma (regola di guerra per spiazzare il nemico: mai mettere l'uomo giusto al posto giusto), E adesso la voragine dell'insegnamento mi si spalancava davanti, larga, comoda e lubrificata per ingoiarmi meglio. C'era gente che si sarebbe svenata pur di avere qualche giorno di Supplenza, anche a millanta miglia giornaliere di distanza, anche chissaddove; per una Supplenza Annuale, poi, sarebbe giunta al delitto. E a me offrivano addirittura un’ora in più (quindi pagata extra) della Cattedra Ordinaria (che

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