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Anatomia di una mente immorale
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E-book160 pagine2 ore

Anatomia di una mente immorale

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Info su questo ebook

François, seguendo la sua più grande passione, la recitazione, si iscrive a una scuola di teatro. Qui conosce Gérard, un attore che è anche il suo insegnante, e del quale subisce subito il fascino. Gérard è sposato con Valérie, una psicoterapeuta molto conosciuta in città e, ben presto, i loro destini si intrecceranno in un legame torbido e passionale, che costringerà François a confrontarsi senza ipocrisie con le sue personali, scomode verità.
Durante il percorso di scoperta della sua identità sessuale, il ragazzo entrerà in contatto con quattro donne simbolo: Colette, direttrice della scuola e donna volitiva, a volte dura; l’anziana vicina Margot, comprensiva e tollerante; Dominique, sua compagna di corso che lo ama in segreto e la coetanea Sophie che, dopo essere stata rifiutata, si vendicherà in modo subdolo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2021
ISBN9788833171142
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    Anteprima del libro

    Anatomia di una mente immorale - Luigi Stefanazzi

    Anatomia

    di una

    mente immorale

    Luigi Stefanazzi

    Storie di vita

    I Edizione maggio 2021

    ©2021 Astro edizioni Srls, Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN: 978-88-3317-114-2

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Idra Editing Srl

    Editing e redazione:

    Giulia Manzi

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione,

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    Prima parte

    Questa notte ti ho sognato. È già successo da quando ci siamo lasciati, ma per la prima volta abbiamo fatto l’amore. Neppure nei sogni avevo mai osato tanto, come se un pudore impavido non mi avesse mai permesso di andare oltre casti rituali. La paura che qualcuno ci scoprisse ha reso ancora più febbrile questo gesto così atteso.

    Sono cinque mesi che non ho più tue notizie eppure, come vedi, sembra impossibile cancellarti per sempre dai ricordi. C’è qualcosa che sfugge al controllo della ragione e si insinua nel mondo ovattato dei sogni, consapevole che qui ogni difesa è più debole e può imporre la sua legge senza fatica.

    *

    La prima volta che ti vidi stavi accovacciato sopra uno scoglio. Impegnato com’ero a cercare gli amici, con cui ero venuto in quella minuscola baia, ti donai soltanto uno sguardo distratto.

    Non ho mai resistito alla tentazione di isolarmi dagli altri. Mi è sempre sembrato l’unico modo per assaporare pienamente le emozioni che un luogo sconosciuto potesse rivelarmi. Evidentemente anche tu la pensavi allo stesso modo. Eri l’unico a non esserti liberato dai vestiti, non fidandoti del cielo imbronciato di quei primi giorni di settembre.

    Grosse nubi biancastre lasciavano filtrare pochi raggi di un pallido sole che, a intervalli regolari, cedeva il posto a una pioggia sottile come rugiada.

    L’acqua di quella piccola insenatura era di un incredibile turchese, limpida e invitante. Mi ritrovai in mare. Poche bracciate e poi decisi di lasciarmi trasportare dalla corrente.

    Il ricordo di quei primi giorni di vacanza mi soffocava, così come l’immagine di quell’isola in cui tutto si amalgamava nel colore della sabbia. Non mi accorgevo ancora che quel verde, la cui mancanza mi colpiva allo stomaco provocandomi nausea, era stato fatto proprio, in tutte le sue sfumature, dall’acqua che lo aveva arricchito della propria trasparenza. E come potevo, se nella mente risuonavano ancora le ultime battute di una storia vissuta ben oltre la sua fine?

    Tu, sempre accovacciato nello stesso punto e con la sacca a tracolla, forse guardasti con un sorriso quell’unico bagnante che, le palpebre abbassate, cercava di rubare al mare la linfa vitale per continuare a resistere.

    In balìa del ritmico movimento delle onde, riuscii a quietare ansie e paure, ma quell’incantesimo durò pochi minuti. Una lama di luce, approfittando di un impercettibile battito di ciglia, si insinuò nella penombra dei pensieri, dando vita al ricordo più temuto.

    Le pareti intorno a me erano tappezzate da manifesti di famosi spettacoli teatrali del passato. Ebbi la sensazione di essere arrivato a un punto cruciale della mia esistenza. Dovevo solo trovare il coraggio per giocarmi quell’ultima illusione. Un colpo secco, mai avrei sospettato che la vita mi ripagasse con il più scandaloso dei regali.

    Avevo temuto di non riuscire ad arrivare in tempo per la prova, ma ora che questa si delineava al di là di una porta sbarrata contro la mia curiosità, ebbi la certezza che non sarei mai riuscito a superarla. Non ricordavo neppure il brano che mi ero preparato.

    Cominciai a sospettare di avere sbagliato tutto ancora una volta, ma non era difficile scorgere in quel dubbio l’insicurezza con cui affrontavo ogni mia scelta. Avevo deciso di sostenere l’esame di ammissione in quella scuola di recitazione e questa volta era troppo tardi per tirarsi indietro.

    «Allora François, che cos’hai preparato?».

    Persino il mio nome aveva un’eco misteriosa in quella sala ricoperta di specchi dove le immagini venivano replicate all’infinito. La donna che lo aveva pronunciato, avrebbe messo in difficoltà personalità ben più temprate della mia.

    Avevo cercato su Internet più informazioni possibili su di lei: nei primi anni sessanta, giovanissima, si iscrisse a un corso di teatro all’insaputa dei genitori. Sposò un attore squattrinato che lasciò dopo un paio di anni, poco prima di fare il suo ingresso alla Comédie française. Da allora la storia del teatro francese fu contrassegnata per sempre dal suo nome: Colette Dubois. Dopo il ritiro dalle scene, fondò una scuola di recitazione nella città del Sud della Francia in cui mi ero trasferito da alcuni anni.

    Accanto a lei, dietro un semplice tavolo, c’era un giovane uomo dal viso abbronzato e attraente. Non potei fare a meno di pensare che il suo fascino altro non fosse che un riverbero di quello di Colette.

    Avevo scelto un brano da Gli spettri di Ibsen, ma la mia interpretazione non fu certo delle più entusiasmanti e non avrebbe potuto essere altrimenti. Una parte di me tentava disperatamente di ricordare le battute di un breve monologo, l’altra, con cipiglio da critico spietato, non mi concedeva alcuna speranza.

    Avevo letto da qualche parte che un attore può essere tale solo se riesce a dimenticare la sua condizione mortale. È l’unico modo per superare i propri limiti e annullarsi in altre realtà. Io non solo ero rimasto estraneo al dramma del protagonista, ma ero ancora il François che aveva fatto capolino in quella stanza pochi istanti prima con i suoi timori.

    Scoprii la mia sconfitta nell’immagine che gli specchi mi restituirono, impietosi.

    «Cosa ti ha spinto ad avvicinarti al teatro, François?», la voce di Colette mi arrivò più dolce di quanto mi aspettassi.

    Non avevo indagato sulle origini di quella scelta. C’era un po’ di ambizione, il desiderio di realizzare un sogno e decisamente una buona dose di pazzia; ma in fondo il vero motivo era un altro.

    «Decidere di presentarmi davanti a lei è stata una sfida con me stesso. È l’ultima possibilità per vincere la mia timidezza. E la timidezza ha braccia lunghe e una presa asfissiante».

    Colette mi regalò un sorriso poco convinto.

    «Tu cosa ne pensi, Gérard?».

    L’uomo al suo fianco mi fissò intensamente. Nello sforzo i suoi occhi si assottigliarono come quelli di un gatto. Avrei imparato ben presto che possedeva il potere di decifrare le pieghe più recondite della mia anima.

    «Diamogli un’altra possibilità», e mi porse un foglio che conteneva una poesia.

    Prévert. Quante ore trascorse a leggere e rileggere i suoi versi, cercando di familiarizzare con la parola amore, quasi fosse l’unico antidoto a una vita in cui non ne era mai esistita traccia.

    L’evento incredibile fu che questa volta riuscii, non dico a conquistarli, ma almeno a convincerli che fossi in grado di iniziare un percorso in quella scuola.

    Mi ritrovai in strada ostaggio di una nuova euforia. Nella testa mi ronzavano ancora le parole di Colette.

    «Non credere che essere ammesso alle mie lezioni significhi un punto di arrivo per le tue aspirazioni. Non è che l’inizio e forse ancora meno», aveva cercato qualcosa tra i fogli dinanzi a sé, «Leggo dalla tua scheda che lavori. Considerando che il corso si svolgerà nelle ore serali, non avrai tempo per nient’altro. Pensi di essere disposto ad accettare queste condizioni?».

    Disposto? Ancora non riuscivo a credere che mi avesse aperto le porte del suo santuario!

    Fuori era già buio, ma mi incamminai senza fretta seguendo il percorso pedonale di Boulevard Georges Clemenceau. Volevo assaporare fino in fondo i primi segnali di un cambiamento che avrebbe dato un senso alle mie giornate.

    La scuola si trovava nel quartiere del Musée des Beaux-Arts, una zona centrale stranamente poco trafficata a quell’ora della sera. Le strade erano bagnate e nell’aria era rimasta quella piacevole sensazione che segue un acquazzone inseguito inutilmente per tutta l’estate.

    «A quanto pare facciamo la stessa strada».

    Non mi ero accorto della presenza di Gérard e mi scoprii a disagio di fronte al suo sguardo inquisitore. Avrei finito per arrossire come un’educanda o balbettare sciocchezze e non potevo permettermelo. Fu così che, per togliermi d’impaccio, lo fissai nel tentativo di stabilire la sua età. Colette lo aveva scelto come collaboratore e questo ruolo richiedeva esperienza. Non poteva averla maturata nei trentacinque anni che a malapena dimostrava.

    «Ero convinto che voi attori vi spostaste solo a bordo di lussuose fuoriserie».

    «Forse quando sarò famoso. Non insegnerei in questa scuola, se già lo fossi», i suoi occhi si fecero ancora più sottili, «Posso chiederti quanti anni hai?».

    «Fra poco ne compio ventitré».

    «Sembri più giovane», assunse un’espressione ironica. «Per quanto mi riguarda vanno bene gli anni che hai deciso di darmi».

    «Come...?» non mi lasciò terminare la frase.

    «Mi scrutavi in un modo che non lasciava dubbi. Volevi appormi un marchio anagrafico. Comunque sono solo trentaquattro e non lo dico per vanità».

    Virai verso lidi più tranquilli.

    «Grazie per avermi dato la possibilità di leggere quella poesia. Adoro Prévert».

    «Non ne avevo il minimo dubbio. Hai le sembianze dell’inguaribile romantico e onestamente è un esemplare ormai raro. Soprattutto nel nostro ambiente».

    A quanto pareva mi ero imbattuto in un uomo che aveva solo certezze.

    «Finirò per credere che la tua vera professione sia quella di indovino».

    Le luci dell’autobus apparvero in lontananza. Gérard si ricordò all’improvviso di avere dimenticato dei libri e si accomiatò.

    Una nota stonata accompagnò la sua repentina uscita di scena, ma allora non potevo sospettare che quella sarebbe stata la prima di una lunga serie di bugie, così come non potevo immaginare ciò che Gérard avrebbe rappresentato nella mia vita. Quell’uomo aveva scordato il confine esistente fra verità e menzogna, o forse lo aveva semplicemente spostato, costringendo le proprie verità a sopravvivere in uno spazio angusto e ormai immemore.

    Solo molto tempo dopo avrei scoperto che la sua fuoriserie, quella sera, era parcheggiata nel cortile della scuola.

    *

    Menzogna e verità. A volte il dubbio che non esista alcuna differenza fra queste due entità, all’apparenza contrastanti, diventa certezza. Spesso la verità non è altro che una bugia raccontata in modo perfetto, e quante volte la felicità di un uomo è dipesa dal credere vera una realtà che altro non era se non un’abile finzione.

    Dal passato emerge l’immagine di un bambino che amava estraniarsi dai compagni. Mi avvicino lentamente, nel timore che questa visione sparisca, come sempre, prima che io scopra la sua vera identità. Fra le mani ha una bambola con la quale trascorre le ore interminabili della sua solitudine.

    Ora scopro che quella è stata la sua prima verità.

    *

    «Chiudete gli occhi e liberate la mente da ogni pensiero. Ora c’è il vuoto intorno a voi, il vuoto e il buio più assoluti. Avvertite ogni muscolo diventare pesante. Il vostro corpo non vi appartiene più, è qualcosa che giace accanto a voi privo di vita».

    La voce di Colette era calda, suadente. Intorno a lei i corpi di una ventina di allievi erano adagiati inermi sul pavimento.

    «Se dovessi alzare un vostro braccio, questo cadrebbe senza reazioni. Non siete più in grado di governarlo», immaginai il suo

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