Maledetto sia il destino
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Anteprima del libro
Maledetto sia il destino - Andrea Monteforte
I
In tutta la mia vita ho sempre avuto l’impressione di essermi trovato nel posto giusto al momento sbagliato, di essere finito, per scelta o per caso, in un luogo in cui sarebbe stato meglio non capitare mai.
La verità è che io, quel giorno, mi sono deliberatamente spinto oltre ai confini della mia esistenza, convinto com’ero che proprio da lì potesse iniziare il viaggio alla scoperta del mio paradiso.
Maledizione! Ma perchè la vita deve essere così spudoratamente ingiusta? Avrei voluto almeno dirle quanto l’amavo. E pensare che ci ho creduto fino in fondo.
Se mi avessero chiesto che cosa avessi voluto bere, io glielo avrei detto subito cosa!
E invece eccomi qui, con un centimetro di ruga in più ad aver voglia di bere.
Maledetto sia il destino, se è di questo che si tratta. Questa è una di quelle notti in cui il dolore mi spacca il cervello, ed è ormai da troppe lune che aspetto l’alba della mia dipartita.
Agnese mi manca, mi manca da non poterne sopportare la mancanza.
Se fossi tempo, potrei tornare indietro. Ma troppo a lungo ho camminato per avere voglia di intavolare negoziati con quest’altra aspra menzogna. Per giungere fin qui ho valicato paure che non sapevo nemmeno di poter sfiorare e, adesso che ci sono, non ho di che saziarmi.
Quanto rammarico, quanta struggente agonia.
Tutto quello che mi resta sono queste mie mani stanche, che un tempo hanno saputo scrivere d’amore, ed ora piango sull’odore di queste pagine che non riesco a strappare.
Ero convinto di avere già dato più del dovuto a questa vita cornuta ma, per quanto sangue in essa versiamo, evidentemente non ne sputiamo mai abbastanza per poterci accaparrare uno squarcio di serenità.
Ho chiesto a Marzio dove fosse finita Agnese!
Se ne è andata via
, mi ha risposto!
E mi sono accasciato in questo letto da non so più quante settimane.
Vorrei potermi addormentare e magari, questa volta, non svegliarmi più.
Da quanti altri inferni dovrò ancora tornare prima di potere avere il diritto di crepare?
Se fossi da solo saprei come fare, afferrerei quel tagliacarte che è lì sulla mia scrivania e vaffanculo al mondo, ma mia mamma non si schioda un attimo.
Mi sorveglia e mi accarezza dolcemente la fronte, nella speranza di riuscire a correggere queste fiamme che mi stanno bruciando l’anima.
Ella però non sa che non esiste peggior galera di quella da cui non si vuole uscire.
Io so cosa vuol dire, l’ho già provato.
Ancora adesso respiro la miseria di quei giorni appestati di vergogna. Avevo perso ogni decenza, non vi era più orgoglio, nè speranza.
Lava! Lava!
mi dicevano, ed io non potevo fare altro che abbassare lo sguardo ed ubbidire.
Altro che lavare! Altro che ubbidire! Se fossi stato un vero delinquente gliel’avrei fatta vedere io a quei figli di puttana, avvezzi al peccato e portatori di sciagura.
Alla sera, quando mi serravano nella mia cella, la solitudine mi devastava. Saverio, dalla stanchezza, si addormentava senza riuscire a togliersi nemmeno le scarpe, ed io, divenuto ormai insonne, cominciavo a contare le crepe sul soffitto pur di avere qualcosa di diverso dalla mia perenne tristezza a cui badare. Mi sentivo un fallito, uno che non aveva più nemmeno il diritto di pensare e, forse, è proprio così che sarei finito se non fosse sopraggiunto l’impeto dell’amore a sussurrarmi la vita.
Agnese, Agnese! Quale insopprimibile sentimento provavo per lei... non ho mai trovato il coraggio di dirglielo.
Maledetto sia il destino, se è di questo che si tratta. Volevo diventare un avvocato, e ce l’ho fatta, malgrado le difficoltà che quel verme d’un direttore mi creava.
Il Ministero di Grazia e Giustizia aveva inviato una delegazione a prendere conoscenza dei fatti, e i fatti erano che io volevo studiare e così, alla fine di un lungo colloquio, per mia fortuna, me ne fu data la possibilità.
Per cinque ore al giorno, nella biblioteca del penitenziario, divoravo paragrafidi diritto privato come se fossero stati grappoli d’uva imbruniti al sole. Studiavo senza tregua ed ero felice, molto felice. Che bel momento, sentivo il mondo rinascermi dentro. Altro che fai questo e fai quello! Sottostare alla prepotenza di quegli omuncoli abbietti mi aveva ucciso.
Vaffanculo! E mille volte ancora vaffanculo! Non ero più il loro sguattero. Adesso anch’io avevo un ruolo, il mio ruolo, quello per cui più nessun essere immondo poteva farsi beffa di me.
Quante umiliazioni ho dovuto patire prima che le mie labbra potessero schiudersi e dire ce l’ho fatta!
Porco d’un mondo infame: ce l’ho fatta!
A questo punto avrei potuto vestirmi di sole e ogni mattina salutare la vita con un gesto d’amore, poichè la vita era Agnese e l’amore la vita. Giuro che se avessi bevuto non sarei mai caduto; e pensare che persino l’avanzo di un sorso sarebbe bastato ad imprimermi pace. Avrei saputo bagnare l’addio con la tempra dell’uomo che dinanzi al fato con coraggio s’inchina, dopo di che sentirmi libero di restare e soffrire, dato che ho sempre saputo che con la vita si nasce e nella vita si perisce.
Vivere, nonostante tutto io vorrei avere il coraggio di vivere. Ma, per quanto ci provi, non riesco a trovare una sola ragione che mi dia la forza di agire, di fare un balzo dall’altra parte di questo male e ricominciare a danzare, ridere, fino a farmi scoppiare i polmoni.
Vorrei mettermi a saltare e sudare, se non altro per potere almeno avere addosso qualcosa di mio, piuttosto che questa maleodorante ignavia che non mi appartiene.
Se ci fosse Agnese, certamente non me ne starei qui a vaneggiare e a farmi fregare il mordente dall’indole ladra di quest’altra galera. Balzerei giù da questo letto e via di corsa