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Total Creative Control: Amore, fanfiction e altri disastri
Total Creative Control: Amore, fanfiction e altri disastri
Total Creative Control: Amore, fanfiction e altri disastri
E-book368 pagine5 ore

Total Creative Control: Amore, fanfiction e altri disastri

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Info su questo ebook

Cosa succede quando un assistente personale dal carattere solare incontra un capo musone?

L’autore di fanfiction Aaron Page viene assunto per un lavoro temporaneo con il creatore dello show di successo Sanguisughe. Un lavoro che dovrebbe durare solo una settimana, ma dopo tre anni Aaron è ancora lì…
Forse perché adora la sfida creativa. O forse perché è un fan sfegatato di Sanguisughe. Decisamente non a causa di Lewis Hunter, il suo capo, così pretenzioso, maleducato… e clamorosamente sexy.
Lewis Hunter ha lottato per tutta la vita per ottenere ciò che ha. La sua priorità è lo show, e le relazioni personali sono ben distanti dalla vetta della classifica. Inoltre a cosa serve il romanticismo quando hai una sfilza di uomini attraenti che entrano ed escono dal tuo letto?
La sua unica relazione significativa è quella con Aaron, il suo principale confidente e assistente insostituibile. E non importa quanto trovi affascinante il suo aspetto da ragazzo della porta accanto, Lewis non rischierebbe mai il loro rapporto professionale per togliersi uno sfizio.
Ma quando si trova incastrato a un evento aziendale tanto orribile quanto demenziale, Aaron è il suo unico amico e alleato. Le linee della professionalità tra loro iniziano a sfumarsi, e l’attrazione reciproca si infiamma…
… ed entrambi finiranno per restarne scottati.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2022
ISBN9791220703345
Total Creative Control: Amore, fanfiction e altri disastri

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    Anteprima del libro

    Total Creative Control - Joanna Chambers

    1

    AARON

    Tre anni dopo


    «Aspetta,» disse Aaron chinandosi in avanti eccitato. «Aspetta, ci sono. Skye si volta verso Faolán e gli dice: La differenza è che, se ci fossi stato lì tu, gli avrei strappato la testa dal collo. E poi la chiudiamo così. Le altre due battute non servono.»

    Sedeva a gambe incrociate sul pavimento dell’ufficio di Lewis, circondato da fogli; la parete dietro di lui era coperta di post-it. Un caos organizzato e comprensibile solo a lui e Lewis. All’altro capo della stanza, Lewis camminava avanti e indietro davanti alla finestra. Si era fermato quando Aaron aveva iniziato a parlare, e ora era immobile, con un sorriso che gli incurvava un angolo della bocca.

    «Sì,» disse Lewis. Poi tornò alla scrivania e si lasciò cadere sulla sedia. Prese il computer portatile e si mise a fare le modifiche. «Sì, mi piace. Perfetto. Cazzo, avremmo dovuto pensarci un’ora fa.»

    Aaron guardò l’orologio sulla parete. Erano quasi le nove. Si tese per prendere un’altra fetta di pizza. «Avremmo risparmiato tempo,» concordò dando un morso. «Ma ce l’abbiamo fatta. Dovevamo solo ragionarci su.»

    Lewis incrociò le mani dietro la testa e scrutò soddisfatto lo schermo. Come sempre lo sguardo di Aaron si posò sul punto in cui la sua camicia si tendeva sull’ampio petto e i bottoni stiracchiavano le asole rivelando uno spiraglio di pelle abbronzata.

    Distolse gli occhi in preda al senso di colpa.

    Nonostante le sue migliori intenzioni non riusciva a ignorare l’ossessione quasi adolescenziale per il corpo del suo capo, nemmeno dopo tre anni che lavoravano assieme. Non era una cotta, non proprio. Con Lewis non avrebbe mai potuto avere la relazione che sognava. Non aveva la stoffa del fidanzato. Era pura e semplice lussuria, una risposta fisica che non aveva niente a che vedere con il cuore di Aaron e tutto con il suo uccello ostinato.

    Era davvero imbarazzante, ma per fortuna Lewis sembrava del tutto ignaro del problema.

    «Già, direi che ci siamo,» dichiarò annuendo tra sé. «Mi piace. Per stasera direi che possiamo chiudere.»

    «Davvero?» Aaron lo guardò stupito: di solito quelle loro sessioni duravano molto più a lungo. Un po’ aveva confidato che anche quella serata andasse al solito modo.

    «Sì,» disse Lewis. «Puoi andare a casa. Finiremo di lavorare all’ultima scena domani.»

    «Per me non è un problema fermarmi.» Spinse il cartone della pizza verso di lui. «Ce n’è ancora un po’.»

    Ma Lewis appoggiò le mani alla scrivania e si alzò. «Apprezzo l’offerta, ma devo andare. Vado a bere qualcosa con mio fratello tra…» Controllò l’orologio e fece una smorfia. «Merda, tra dieci minuti.»

    Aaron ignorò la scintilla di delusione e prese il telefono. «Allora ti chiamo un Uber.»

    «Grazie.» Lewis chiuse di scatto il portatile e si tese verso la borsa. «Abbiamo appuntamento al Bat and Belfry.» Esitò, poi aggiunse: «Vuoi venire con noi?»

    «No, dovrei rientrare,» disse Aaron, perché era ciò che diceva sempre. Perché era ciò che Lewis si aspettava che lui dicesse. Dal primo giorno avevano tenuto fede al tacito accordo di non socializzare fuori dal posto di lavoro. Non ne avevano mai discusso apertamente, ma quel limite invisibile ma invalicabile era chiaro a entrambi. Aaron si sforzò di sorridere. «Salutami Owen.»

    Il fratello di Lewis gli piaceva. Ogni tanto passava dall’ufficio. Era una versione meno intensa e più socialmente capace del fratello.

    «Lo farò.» Lewis fece scorrere lo sguardo sul caos di post-it e cartacce in ufficio. «Merda, quelli del servizio di pulizie…»

    «Do una sistemata io,» disse Aaron. «Tu vai. L’auto sarà qui tra…» Controllò il telefono. «Tre minuti.»

    «Sei un tesoro.» Lewis scivolò via dalla scrivania.

    Aaron sollevò un sopracciglio, gli aprì la porta dell’ufficio e disse con tono piatto: «Una vera perla.»

    Lewis sbuffò divertito ma si fermò sulla soglia, così vicino da fargli pulsare l’uccello di acuta, dolorosa consapevolezza. Una reazione inevitabile e familiare al metro e novanta di muscoli snelli, capelli neri, ora arruffati dopo che ci aveva tenuto le mani per tutta sera, e occhi azzurri che era Lewis.

    «Dico sul serio,» ripeté Lewis. «Sei davvero un tesoro, Aaron. Mi sei stato di grande aiuto. Hai orecchio per le voci dei personaggi.»

    «Ah sì?» Detto da lui era un gran complimento. Si sentì le guance in fiamme. «Grazie.»

    Lewis, sempre un po’ troppo vicino, lo scrutò. «Sai, il fatto è che la tua scrittura è onesta. Non scrivi per sembrare brillante. Le tue battute fanno suonare autentici i personaggi.»

    «Non è forse questo il punto?»

    «Certo, ma molti autori non ci arrivano.» Indicò le pile di fogli su cui avevano lavorato quella sera e fece una smorfia. «Ryan infila sempre le sue parole in bocca ai personaggi, e si vede.»

    Ryan era un freelancer che aveva proposto diverse idee a Lewis nel corso degli anni; un paio erano state selezionate per l’ultima stagione, che era di cinque episodi più lunga del solito e, per quanto Lewis lavorasse duro, troppo gravosa perché lui se ne occupasse da solo. Certo, con tutto il tempo che avevano passato a smontare e rimontare le bozze di Ryan probabilmente avrebbero fatto prima a lavorarci di persona.

    «In effetti ha una voce autoriale piuttosto… distinta,» disse ad alta voce.

    «Be’, ecco,» rispose Lewis cupo, «io non voglio sentire la sua cazzo di voce autoriale. Voglio sentire quella di Skye e Faolán.» Guardò Aaron negli occhi. «E tu sei eccellente in questo.»

    E quell’apprezzamento era ciò che manteneva Aaron nell’orbita di Lewis. Anche quando gli altri gli dicevano che doveva cercare di fare carriera, lui si trovava sempre a tornare da Lewis.

    «Ora dovresti davvero andare,» affermò all’improvviso, sconcertato da quel pensiero. «Ci vediamo domattina.»

    Lewis si accigliò leggermente, ma annuì, gli augurò la buonanotte e uscì.

    Quando il sibilo dell’ascensore si fu spento Aaron si accorse del profondo silenzio dell’ufficio. Il ronzio delle luci e delle stampanti, il lieve fremito di un edificio deserto. Fuori era già buio. Di giorno l’estate indugiava ancora, ma le serate di inizio settembre portavano con sé le prime avvisaglie di autunno in quella stagione di confine fatta di matite nuove e nuovi inizi.

    Non che Aaron stesse iniziando niente di nuovo, anzi.

    Si scrollò di dosso l’improvvisa irrequietezza e raccolse i fogli su cui avevano lavorato. Scattò qualche foto alla parete di post-it da usare durante la riunione del giorno successivo, poi li staccò e li impilò sulla sua scrivania. Considerò brevemente di iniziare già a lavorarci, ma no. Sarebbe stato da vigliacco.

    Per quanto la cosa fosse imbarazzante doveva tornare a casa e affrontare la possibilità che Colin potesse essere ancora lì a recuperare le sue cose. Prevedibile, dopo una relazione durata due anni.

    Così spense le luci, prese la giacca e scese le scale. Superò il banco della reception e uscì in strada.

    C’erano solo poche fermate di metropolitana tra Shepherd’s Bush e il suo appartamento a North Acton, e il tempo passò troppo in fretta. Nonostante le sue buone intenzioni si trovò a percorrere con lentezza deliberata il tragitto fino a casa. La sua parte più codarda sperava segretamente che Colin avesse già finito di fare i bagagli e se ne fosse andato.

    La sorte non gli sorrise. La sua Seat Ibiza rossa era parcheggiata davanti alla villetta, con il baule aperto e mezzo pieno. La portiera anteriore era spalancata. Aaron esitò; era tentato di chiamare Janvi e chiederle di andare a prendere una birra, ma poi Colin scese le scale trascinando una pesante valigia.

    Quando vide Aaron si fermò sulla soglia e il suo bel viso si tese. Strinse le labbra. «Pensavo che dovessi lavorare fino a tardi.»

    Aaron scrollò le spalle. «Sono uscito prima del previsto.» Guardò il bagagliaio. «Ti serve una mano per…»

    «No, ce la faccio.» Colin marciò sul breve tratto di marciapiede, la valigia che gli sbatacchiava contro la gamba, i muscoli tonici che si tendevano sotto la maglietta.

    Aaron fece un passo indietro per lasciarlo passare.

    Colin era davvero un uomo attraente. Alto e scolpito, con un viso affascinante e capelli biondi che si stavano diradando sulla fronte e che teneva rasati. Ma purtroppo Aaron non era più attratto da lui da molto tempo. E da altrettanto, invece, era attratto solo da Lewis.

    La cosa peggiore era che ultimamente, quando era a letto con Colin, la sua mente gli proponeva immagini di Lewis. Quando Colin lo toccava lui sentiva su di sé le grandi mani di Lewis. E quando Colin lo scopava, era Lewis che lo portava all’orgasmo.

    Anzi, a volte era solo il pensiero di Lewis che gli permetteva di venire.

    Era… sconcertante. E uno dei motivi principali che lo avevano spinto a rompere con Colin. Cos’altro avrebbe potuto fare? Colin si meritava un fidanzato che non sbavasse per il suo capo come un ragazzino in preda agli ormoni. Si meritava un fidanzato che lo volesse con l’anima e il corpo. E Aaron non era quella persona.

    Con un sospiro lasciò che Colin caricasse in auto la valigia e salì in casa. La piccola, semplice stanza che ospitava cucina e salotto sembrava spoglia, a parte i due scatoloni sul bancone pieni degli averi di Colin (e in buona parte di Aaron): la lampada da comodino di Colin, tre delle tazze di Emma Bridgewater che la madre di Aaron aveva regalato loro l’ultimo Natale, le scarpe da calcio infangate di Colin, un pacchetto mezzo vuoto di biscotti al cioccolato.

    Cose ordinarie, banali. La loro vita assieme in tutta la sua plateale noia.

    Aaron sapeva di dover provare qualcosa di più intenso. Di doversi sentire più turbato. In preda ai rimorsi. Qualsiasi cosa. Se Skye avesse lasciato Faolán gli avrebbe spezzato il cuore, avrebbe sofferto come se glielo avessero stritolato in un pugno d’acciaio.

    Ma il cuore di Aaron stava fin troppo bene.

    Cosa diavolo gli prendeva?

    «Intendi startene lì in mezzo ai piedi?» borbottò Colin alle sue spalle.

    «Scusa, stavo solo…»

    «Pensando?» disse Colin acido. «Che sorpresa.»

    «Cristo, non posso neanche pensare adesso?» Si sentì subito in colpa per quella rispostaccia. Era lui quello che aveva mollato Colin, non viceversa. Era lui quello apparentemente incapace di gestire una relazione sana. Il minimo che poteva fare era essere delicato. Con una smorfia si passò una mano tra i capelli. «Scusa, non volevo…» Cristo se era stanco. «Ho avuto una giornata intensa.»

    «Tutte le tue giornate sono intense, Aaron.»

    Un’altra delle frecciatine di Colin. Ne avevano discusso fino alla nausea. Si spostò verso il soggiorno e si appoggiò allo schienale del divano, guardando Colin che sbatacchiava pentole in cucina.

    «Mi porto via l’estrattore,» annunciò Colin dopo un po’. «So che lo abbiamo comprato assieme, ma tu non lo usi mai, e io…»

    «Sì, certo, fai pure.»

    Per evitare di assistere al sistematico smantellamento della loro vita di coppia, Aaron voltò lo sguardo verso la collezione di Blue-Ray di Sanguisughe che occupavano il posto d’onore sul mobile della TV. E ovviamente quello lo riportò a pensare alla serata trascorsa con Lewis. La settima stagione dello show sarebbe stata grandiosa, con il modo in cui Lewis stava sviluppando la bromance tra Skye e Faolán. Cioè, Lewis la definiva bromance, ma per Aaron era romance fatto e finito. E gli shipper della coppia Skylán l’avrebbero inteso proprio così. Non vedeva l’ora che l’episodio andasse in onda. Il potenziale fanfictionesco di quell’ultima battuta era…

    «Lo stai facendo di nuovo,» disse Colin, spalancando l’anta dello stipetto che ospitava l’estrattore, in cima alla mensola troppo in alto perché Aaron ci arrivasse, ma a portata di mano di Colin.

    Aaron sospettava che tenesse lì l’estrattore proprio per quel motivo.

    «Cosa?» chiese stanco, pur sapendo benissimo di cosa stesse parlando.

    «Stai fantasticando,» sbottò Colin afferrando l’estrattore. «Non riesci a smettere di pensare a quel cazzo di Skye Jäger per cinque minuti.»

    Aaron fece per rispondere che in realtà stava pensando a Lewis, ma sarebbe stato come rigirare il coltello nella piaga. Non se la sentiva. Fece un profondo sospiro. «Non essere stupido.»

    Colin si voltò e sbatté l’estrattore sul bancone. «Oh, e così sarei io lo stupido?» Tese il dito e indicò il salotto, dove un cartonato a grandezza naturale di Skye Jäger campeggiava in tutto il suo tetro splendore in un angolo. «L’unica cosa stupida che abbia mai fatto è stata mettermi con un tizio così ossessionato da uno stupido show televisivo da non avere tempo per una vera relazione.»

    «Non è vero…»

    Colin rise. Non era un suono piacevole. «Lavori per l’autore della serie, e quando dico ‘lavori’ intendo che sei a sua disposizione dodici ore al giorno, anche nei fine settimana…»

    «E mi paga profumatamente per questo.»

    Colin lo ignorò e proseguì imperterrito: «E quando sei a casa passi tutto il tempo a scrivere stupide storielle porno su…»

    «Non è porno!» protestò Aaron. Era sempre la solita, vecchia storia. «Sono fanfiction, Colin. Le scrivono un sacco di persone.»

    «No, Aaron,» sbuffò Colin. «Non la gente normale.»

    Gente normale? Cristo.

    Aprì bocca per spiegargli perché si sbagliasse, perché le fanfiction non solo erano incredibilmente popolari ma anche molto importanti da un punto di vista creativo, ma non sarebbe servito a niente. Ne avevano discusso un milione di volte e non avrebbero mai trovato un punto di incontro. Fece spallucce e disse: «Mi diverto così. Non ho mai capito perché per te sia un tale problema.»

    Infilando l’estrattore nella scatola meno zeppa Colin rispose: «Il mio problema non è il fatto che tu scriva, Aaron. È Skye Jäger. Il fatto che tu sia innamorato di un cazzo di personaggio immaginario. Che tu scriva storie romantiche su Skye e Faolán perché, nella tua testa, Faolán sei tu.» Emise uno sbuffo carico di derisione. «Per forza mi hai scaricato. Non posso competere con lui. Nessuno può.»

    «Cazzate,» sbottò Aaron improvvisamente arrabbiato. Okay, forse era un po’ innamorato della relazione tra Skye e Faolán, ma non era quello il punto. Si trattava solo di fandom e divertimento. Non era niente di reale. «Sanguisughe non c’entra niente con il motivo per cui… per cui le cose tra noi non hanno funzionato.»

    «Ah no?»

    «No.»

    Colin sbuffò dal naso. «Devi guardare in faccia la realtà, Aaron, altrimenti ti ritroverai da solo, prigioniero del tuo squallido ruolo da segretario…»

    «Sono un assistente personale!»

    «Hai studiato per fare l’insegnante.»

    «Sì, e quella era stata un’idea dei miei genitori. Io non ho mai voluto davvero insegnare,» rispose Aaron per la cinquantesima volta almeno. «Accettare questo lavoro me l’ha fatto capire.»

    Colin non era impressionato. Si infilò sottobraccio una delle scatole. «Come dici tu, Aaron. Il mio consiglio? Fatti una vita. Altrimenti tra cinque anni sarai ancora qui con il tuo lavoro di merda e il tuo porno strambo a chiederti che fine abbia fatto l’ultimo decennio.»

    E detto ciò, Colin spalancò la porta e uscì.

    Se si fosse trattato di una scena scritta da Aaron sarebbe finita così: dissolvenza al nero, prossimo capitolo. Ma purtroppo la realtà era meno ordinata, e Colin sarebbe tornato dopo cinque minuti per prendere la seconda scatola.

    A quel punto Aaron aveva già aperto il portatile per rifugiarsi nella sua ultima storia. Finse di non sentire il tintinnio delle chiavi di Colin sul bancone, o la porta che si chiudeva portandosi via il suo amaro: «Buona vita, Aaron.»

    2

    LEWIS

    Quando Lewis entrò al Bat and Belfry, trovò Owen seduto al bancone davanti a una pinta già mezza bevuta. Si fermò sulla soglia e osservò il fratello sorseggiare soddisfatto la sua birra. Come al solito Owen non stava guardando il telefono, e non c’era traccia di impazienza o irritazione sul suo viso nonostante Lewis fosse in ritardo. Era il suo tipico atteggiamento zen. L’opposto di Lewis.

    Erano simili sotto altri aspetti. Tanto per cominciare erano entrambi alti e robusti. Lewis era leggermente più alto di Owen, che di contro era più muscoloso. Quel tipo di muscoli che sono il risultato di un paio di decenni di lavoro fisico, al contrario di quello di Lewis, frutto di ore di corsa e palestra. Condividevano gli stessi capelli scuri: neri quelli di Lewis, castani quelli di Owen, e gli occhi azzurri, sebbene quelli di Owen fossero più chiari e di una sfumatura meno intensa rispetto a quelli di Lewis, come denim sbiadito. Quando sorrideva erano caldi. Gentili.

    Ogni volta che Owen presentava il fratello diceva sempre che Lewis era quello in famiglia che si era beccato la bellezza e l’intelligenza, cosa che irritava molto Lewis, in primo luogo perché non era vero. Sospettava che Owen lo pensasse sul serio, e quello lo intristiva molto. E lo infastidiva.

    Se anche fosse stato vero, Owen aveva il monopolio su cose ben più importanti di bellezza e intelligenza. Aveva fegato. Era determinato. Era stato Owen a tenere insieme la famiglia alla morte della loro madre, quando aveva solo diciassette anni e Lewis quattordici. E sempre lui era riuscito a convincere tutti che zia Veronica vivesse con loro fino al raggiungimento della maggiore età, quando in realtà vivevano da soli. Owen aveva lasciato la scuola e si era messo a lavorare come muratore per portare a casa la pagnotta.

    Lo aveva fatto per sei anni, con l’aggiunta di qualche altra attività meno legale, per tenere un tetto sulle loro teste e pagare le bollette. E nel frattempo Lewis si era diplomato a pieni voti e aveva iniziato a scrivere ossessivamente per trovarsi un lavoro in una compagnia televisiva. Grazie a un curriculum zeppo di esagerazioni, alla fine ci era riuscito.

    Ripensando a quei tempi, Lewis sentì una fitta al petto. Aveva dato suo fratello per scontato.

    In quel momento, Owen lo notò. Sorrise e lo salutò con la mano, poi indicò la propria birra e sollevò le sopracciglia. Lewis annuì e si inoltrò tra la folla di bevitori chiassosi. Quando lo raggiunse, il barista stava già riempiendo i loro boccali.

    «Scusa per il ritardo,» disse Lewis lasciandosi abbracciare dal fratello.

    «Non c’è problema,» rispose Owen affabile dandogli una pacca sulla spalla per poi tornare a sedersi. «Sei stato trattenuto al lavoro?»

    «Sì, sono rimasto per finire alcune revisioni e ho perso la cognizione del tempo.»

    Il barista piazzò davanti a loro due pinte e Lewis fece per prendere il portafogli.

    «Ci penso io,» lo prevenne Owen abbassandogli il braccio. Lewis represse una protesta automatica. Owen ci teneva molto a offrire. Lewis pensava fosse una questione di orgoglio: per lui era strano che il fratello minore fosse tanto più ricco. In passato la cosa aveva turbato Lewis. Aveva portato a casa il primo stipendio decente quando aveva iniziato a lavorare in una soap opera da quattro soldi; a quei tempi Owen faticava a pagare le bollette, ma si era ostinatamente rifiutato di accettare l’aiuto di Lewis. Avevano litigato parecchio sulla questione. Ora le cose erano migliorate e Owen se la cavava bene. La sua ditta di giardinaggio era decollata anni prima, e aveva una squadra di ragazzi che lavorava per lui. Era persino riuscito ad acquistare un appartamento luminoso a Beckenham con tanto di giardinetto privato. Era incredibile cosa fosse riuscito a fare con uno spazio così minuscolo. Il giardino sfoggiava un’impressionante varietà di piante di ogni forma, dimensione e colore; uno stretto sentierino percorreva il perimetro, e c’erano persino una piccola serra e uno stagno che, in primavera, ospitava delle ranocchie. C’erano anche tonnellate di fiori dalla primavera fino all’autunno inoltrato, un’aiuola di rabarbaro e un angolino dedicato alle fragoline di bosco.

    Lewis non era in grado di tenere in vita neanche una pianta grassa per più di cinque mesi; le capacità di Owen di portare la vita anche in quello scampolo un tempo infestato dalle erbacce era costante fonte di meraviglia per lui.

    Owen ripose il portafogli, sollevò il boccale e sorrise a Lewis. «Salute.»

    «Salute,» gli fece eco Lewis. Entrambi bevvero.

    «Allora, hai finito con le revisioni?» chiese Owen quando ebbero riappoggiato i boccali.

    «Non ancora, ma concluderemo domani.»

    «Tu e chi?»

    «Io e Aaron,» spiegò Lewis. «Ah, ti saluta.»

    Owen sorrise. «Spero che gli paghi tutti questi straordinari.»

    «Lo pago più che a sufficienza,» disse Lewis sulla difensiva. Si sentiva un po’ in colpa: la settimana precedente il direttore delle risorse umane si era lamentato di tutti gli straordinari che richiedeva ad Aaron.

    «Temiamo che tu gli stia mettendo pressioni senza rendertene conto…»

    Lewis si accigliò al ricordo, ma poi ripensò ad Aaron e alla loro serata, gli occhi accesi per l’entusiasmo mentre delineava un’altra idea brillante. Lo zelo con cui aveva continuato a lavorare anche dopo che gli aveva detto che poteva tornare a casa.

    «Pensi che mi stia approfittando di lui?» chiese fissando il fratello.

    Owen lo scrutò a lungo in silenzio. E com’era suo solito non rispose direttamente. «Non ricordo che nessuno dei tuoi assistenti sia mai rimasto a lavorare fino a tardi così spesso. E quando accadeva tu non facevi che lamentarti della loro inutilità. Cosa c’è di diverso in Aaron?»

    Non gli piaceva la curiosità negli occhi di suo fratello, ma cercò di rispondere con onestà. «Non fa proprio lo stesso lavoro dei miei vecchi assistenti. Cioè, svolge tutte le loro mansioni, ma lavora con me alle sceneggiature, quindi è diverso.»

    «Davvero?» Owen sembrava stupito.

    «Be’, sì.» Lewis si corrucciò. Owen lo sapeva già, glielo aveva detto mille volte. «Sai che era un fan sfegatato dello show già prima di venire a lavorare per la Piccione Riverso?»

    Owen annuì e sorseggiò la sua birra.

    «E per questo motivo ha una conoscenza approfondita della storia. Ti dirò, si ricorda più dettagli di me, e questo torna molto utile quando si tratta di pianificare e modificare la trama. Inoltre sa ascoltare e ha un gran talento con la scrittura.» Lewis si accorse di avere in faccia un sorriso da idiota e sbuffò. Scoccò un’occhiata in tralice al fratello e borbottò: «Ma di sicuro te l’ho già detto.»

    Owen gli lanciò uno sguardo strano. «Non proprio. Cioè, sapevo che era un fan e che voi due parlate molto dello show. E sì, hai anche menzionato che fate gli straordinari assieme, ma non pensavo che lavorasse con te alla sceneggiatura. Credevo che si occupasse solo di… non so, batterla al computer, cose così.»

    «Oh. No, gli assistenti personali non scrivono sotto dettatura. Almeno non in questo secolo.»

    «E io che ne so?» chiese Owen sollevando le mani in un gesto difensivo. «Io sono uno che si sporca le mani al lavoro, non un fragile impiegato come te.»

    «Ma vaffanculo,» disse con tono amichevole Lewis. «No, Aaron non fa il dattilografo. Lavora fianco a fianco con me e si assicura che io faccia il mio dovere, che sappia dove stiamo andando a parare e che io abbia tutto ciò di cui ho bisogno.»

    «E per la parte della sceneggiatura invece?»

    Lewis ci pensò su. «Diciamo che la cosa si è evoluta con il tempo.»

    «Ah sì? E come?»

    Lewis rimuginò sull’argomento. «Credo sia iniziato tutto con i suoi commenti sullo show. Erano dettagli rilevanti. Davvero intelligenti, sai? E dopo un po’ mi sono trovato a chiedere la sua opinione su alcuni passaggi, quindi a condividere le bozze con lui e a chiedergli consiglio.» Fece spallucce. «Da lì le cose si sono evolute.»

    «Tecnicamente però è ancora il tuo assistente personale.»

    Di nuovo quella fitta di senso di colpa. «Be’, sì, la definizione è quella,» rispose Lewis, «ma tutti sanno cosa fa, e ho adeguato il suo stipendio di conseguenza. Voglio che venga pagato in maniera congrua.»

    «Mmm.» L’espressione di Owen era neutra, quella che usava quando disapprovava un comportamento di Lewis ma non intendeva dirlo apertamente.

    «Che c’è?» chiese Lewis irritato.

    Owen lo fissò impassibile. «Come sarebbe a dire che c’è

    «Perché mi guardi così?»

    «Non ti guardo in nessun modo.»

    «Invece sì.» Lewis assottigliò lo sguardo. «Se devi dirmi qualcosa fallo e basta.»

    «Non devo dirti niente. Mi stavo solo chiedendo…»

    «Cosa?»

    «Diciamo che passi un sacco di tempo con Aaron, e avete molto in comune.»

    «E quindi?»

    «Quindi… è successo qualcosa tra voi?» L’espressione di Owen si fece vagamente interessata. «È un bel ragazzo.»

    Stranamente, la cosa che irritò di più Lewis fu quell’ultimo commento: anche suo fratello si era accorto di quanto fosse attraente Aaron. Ed era stupido, perché era palese che lo fosse, e Owen era bisessuale, e Aaron, con il suo fisico snello e aggraziato, era proprio il suo tipo.

    «Assolutamente no,» ringhiò. «E non succederà mai. Aaron è un collega. Il sesso è fuori discussione.»

    «Davvero?» Owen sollevò scettico un sopracciglio. «Perché un sacco di gente incontra l’amore della vita sul posto di lavoro.»

    «Sono il suo capo,» disse deciso Lewis. «E poi non ho difficoltà a trovarmi un partner fuori dal lavoro, grazie tante.»

    Owen si fece pensieroso. «A tal proposito, cosa ne pensa Mason di tutte le serate che trascorri con Aaron?»

    «Mason?» ripeté scioccamente Lewis. Per un attimo la domanda lo colse alla sprovvista.

    «Sì, Mason,» disse Owen. «Il tuo ragazzo, hai presente?»

    Lewis sbatté le palpebre. «Ragazzo,» gli fece eco accigliato. «Ecco, no. Siamo usciti insieme per un po’, ma diciamo che è finita. E non siamo mai stati una coppia, comunque.»

    «Diciamo che è finita?» Le sopracciglia di Owen si inarcarono per lo sconcerto.

    Lewis scrollò le spalle. Non cercava una relazione, preferiva i flirt da concludere in maniera vaga. Perlopiù gli uomini che frequentava coglievano il segnale quando lui smetteva di rispondere alle loro chiamate.

    «Okay, è letteralmente finita,» si corresse. «Da un paio di settimane.»

    Owen lo scrutò a lungo e lui si ritrovò un po’ a disagio, sentendosi come quando aveva dodici anni. Come faceva suo fratello ad avere quell’effetto su di lui?

    Dopo un po’ Owen riprese. «Strano, perché l’ho visto lunedì e pensa che stiate ancora assieme.»

    Lewis lo fissò sconvolto. «Davvero?» Merda. A quanto pareva Mason

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