In Bilico (e non trattasi di autotrasportatore)
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Anteprima del libro
In Bilico (e non trattasi di autotrasportatore) - Massimiliano Levrangi
Indice
Prefazione
In Bilico (e non trattasi di autotrasportatore)
Massimiliano Levrangi
In Bilico
(e non trattasi di autotrasportatore)
Romanzo
Questo libro è un'opera di fantasia.
Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'inventiva dell'autore.
Qualsiasi somiglianza con persone reali,
vive o defunte, fatti o luoghi, è assolutamente casuale.
Massimiliano Levrangi
In bilico (e non trattasi di autotrasportatore)
Romanzo (opera prima)
Prima edizione: novembre 2008
Nuova edizione: settembre 2017
Brescia, settembre 2017
ISBN 9788892687851
Editing Viviana Tavoni
Grafica Editoriale Manuela Zaminato
Copertina Claudia Ferraro
www.massimilianolevrangi.it
© Tutti i diritti riservati all'Autore
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.
Youcanprint Self-Publishing
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IN BILICO
(e non trattasi di autotrasportatore)
A Massimo, a noi,
alle nostre giovani vite
intrecciate per un soffio di tempo.
Il destino è stato beffardo.
Io sono rimasto qui,
abbarbicato a una scrivania,
a pormi infinite domande.
E tu sei altrove,
oltre me,
oltre plausibili orizzonti.
Mi vedi che piango?
Ti arrivano le mie lacrime di piombo?
Il nostro è sempre stato
un arrivederci,
e lo è anche oggi,
nel giorno del ricordo.
Riposa quieto
sulla battigia
di quel remoto lago,
poiché, prima o poi,
ti sarò accanto.
Prefazione
Mi fanno sorridere quelli che parlano d'inferno e non l'hanno mai visto, neanche in cartolina.
Parlano di fiamme, ma la loro pelle è perfettamente intatta.
Io so cos'è l'inferno.
Ci sono passato che avevo sei o sette anni.
Mi ha trascinato, fagocitato come i lombrichi fanno con la terra. Non avevo fatto nulla di male per meritarlo. I bambini possono essere crudeli, ma sono sempre innocenti. Io lo ero perlomeno.
Dopo alcuni anni mi ha restituito al mondo. Ma il problema non è il quando, è il come.
L'inferno non è fiamma. L'inferno è buio, solitudine. È silenzio. E il come è proprio quel silenzio cui ti abitui e non sai più farne a meno.
Ci sono cuori che dormono e cuori insonni. Il mio era catatonico. Sostenevo che un ostinato controllo delle emozioni fosse l'unica via di scampo, la sola scappatoia a questo mondo.
Non so se lo penso ancora, ma questo è un dettaglio che non merita alcuna digressione.
Ho ventuno anni. Ventuno anni e sei mesi per l'esattezza. 22 novembre 1991. Sono le 23:30 e una brezza gelida m'incide lo sguardo.
Faccio un passo indietro, un passo lungo tre anni.
Settembre 1988.
Avevo diciotto anni quando conobbi Marco tra i banchi di scuola. Frequentavamo entrambi la quinta classe del liceo scientifico, istituto scelto per la preparazione matematica che mi sarebbe servita l'anno successivo; Ingegneria, questa la Facoltà che mi aspettava, ma senza crederci troppo. Marco, pur provenendo da un altro istituto, si era ben integrato con la classe. Aveva un carattere affabile e una grande dote: sapeva ascoltare.
Era da poco iniziato l'anno scolastico.
Ricordo che fu in un'accesa discussione sul senso dei sentimenti, e dell'amore in particolare, che cominciai a interessarmi a lui.
Marco era l'idealista del nostro gruppo, o meglio del nostro duo, perché tra noi s'instaurò subito un fi!in molto intenso, una sorta di affinità elettiva.
Eravamo assolutamente diversi, lui un fervido idealista, io un pragmaticone.
L'ora di ricreazione fu teatro di quella discussione. Marco sosteneva che non si può vivere senza amore perché è l'unico propulsore della vita.
Io sostenevo il contrario; una sana anaffettività come giusto approccio a quest'universo che ti divora impietoso appena dimostri di appartenergli un poco.
Per Marco l'amore era un momento di crescita, di arricchimento, per me solo una grande rottura di palle, un grosso bastone tra le ruote.
Lui era un poeta, io un chiavatore.
Marco credeva fortemente a una vita futura sublimata, senza dolore, colma di pace. Io mi limitavo a detestare quella presente. Era sempre avanti nei pensieri e in questo un po' lo invidiavo.
Io amavo tirare a sera, vivevo in una perfetta apatia, sostenevo che il mondo corre troppo e prima o poi ti lascia solo.
Non che fossi uno scansafatiche, a scuola andavo bene, ero tra i migliori della classe. Non rompevo le palle e seguivo con attenzione le lezioni.
Alcuni compagni mi davano del leccaculo ma si sbagliavano, volevo solo ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. E non leccavo il sedere.
Marco era un grande nelle materie umanistiche, io in quelle scientifiche.
Eravamo facce della stessa medaglia con due grandi passioni comuni, la filosofia e la figa, soprattutto la seconda. Eravamo solo noi due, ma avevamo lo spirito del branco. Ci bastavamo.
Ricordo nitidamente il nostro primo incontro fuori dalle mura scolastiche. C'eravamo dati appuntamento in un bar del centro di Salò, la nostra ridente cittadina sul lago di Garda. Era pieno inverno e faceva un freddo cane.
Entrai nel locale con il mio consueto anticipo, convinto di doverlo aspettare.
Mi sbagliavo. Lo scorsi immediatamente appena oltrepassata la porta d'ingresso. Era seduto al bancone del bar su uno di quegli altissimi sgabelli che