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Upside down: Edizione italiana
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E-book268 pagine3 ore

Upside down: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Dall’abile penna di N.R. Walker Upside Down un dolcissimo romance sull’importanza di accettare se stessi e le cose che ci rendono felici.

Jordan O’Neill non è un fan delle etichette: ne ha già fin troppe. Gay, geek, bibliotecario, inetto sociale, cianciatore nervoso, introverso, outsider. L’ultima cosa che gli serve è aggiungerne delle altre, ma quando si accorge che l’etichetta “asessuale” potrebbe spiegare molte cose, il suo mondo viene capovolto.
Hennessy Lang si è trasferito a Surry Hills dopo aver rotto con il suo ragazzo. La sua asessualità ha determinato la fine di molte sue relazioni sentimentali, ma è determinato a restare fedele a se stesso. Sentendo la mancanza del gruppo di supporto che aveva a North Shore, ne fonda uno nuovo a Surry Hills, e lì conosce Jordan che ha appena trovato il coraggio di parteciparvi.
Conquistato dalla sua aria un po’ smarrita e spaventata, ma adorabile, Hennessy si sente in dovere di aiutarlo a trovare il suo posto nel mondo. Forse riuscirà a convincere Jordan che la sua vita non è stata messa sottosopra, ma che – per la prima volta – potrebbe essersi finalmente girata nel verso giusto.
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2023
ISBN9791220705998
Upside down: Edizione italiana

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    Anteprima del libro

    Upside down - N.R. Walker

    1

    JORDAN O’NEILL

    L’asessualità è definita dall’assenza di qualcosa.

    Rilessi la frase una seconda volta, poi una terza, quindi la ripetei tra me e me. «L’asessualità è definita dall’assenza di qualcosa.»

    Scrutai lo schermo con occhi socchiusi. «Oh, ma vaffanculo,» borbottai alzando lo sguardo per ritrovarmi di fronte una cliente inorridita. Aveva il labbro superiore segnato di grinzette, come se avesse passato buona parte dei suoi sessant’anni a storcerlo, e la sua bocca ricordava il culo di un gatto, un’impressione confermata dal rossetto corallo un po’ sbavato. Dovetti fare uno sforzo per non fissarla. E per non pensare ai gatti e ai loro buchetti rossi e raggrinziti. Bleah. «Oh, non parlavo con lei, sia chiaro, non la stavo mandando affanculo. I gatti mi piacciono. Cioè, forse non proprio il loro sedere, stavo solo…»

    «È solo venuto a prendere questi. Salve, signora Peterson, come sta?» disse Merry piazzandomi una pila di libri tra le braccia. Dopodiché mi spinse via e sorrise alla signora che mi stava fulminando con lo sguardo. Avrei voluto consigliarle di smetterla di accigliarsi, o quantomeno di comprare un volumizzante decente per le labbra, ma evitai e, dopo aver riorganizzato i libri che Merry non aveva ancora messo in ordine alfabetico, mi addentrai tra gli scaffali. Questo mi diede il tempo di sbattere la testa contro i primi volumi della pila e morire di imbarazzo frustrato.

    Lavorare nella biblioteca di Surry Hills aveva di certo i suoi vantaggi, e la possibilità di nascondersi tra gli scaffali per sfuggire agli utenti affetti da sederite felina sulla bocca era il mio preferito in assoluto. Il secondo erano i libri, e Merry come collega occupava un dignitoso terzo posto. Okay, forse lavorare con Merry era persino meglio dei libri… soprattutto nei momenti in cui comprendeva la mia goffaggine e inettitudine sociale e mi salvava dalle grinfie di utenti come la signora Peterson. Non guastava che somigliasse all’hobbit da cui prendeva il soprannome: bassa, divertente, leale, ma per fortuna priva dei piedoni pelosi. Ufficialmente si chiamava Meredith, ma Merry le stava d’incanto.

    In tutta serietà, amavo il mio lavoro. Tantissimo. C’erano ordine e routine, ogni cosa era catalogata, numerata e riposta sullo scaffale appropriato. La biblioteca era organizzata, pulita e solitamente silenziosa. A parte il martedì, quando c’era l’ora di lettura per i bambini in età prescolare e a volte qualche spettacolo di burattini. O il mercoledì, quando si tenevano i corsi informatici comunitari per gli studenti della terza età. Non che facessero tanto chiasso quanto trenta bimbetti che scorrazzavano tra gli scaffali, ma quindici persone anziane che parlavano a voce abbastanza alta da sentirsi risultavano comunque piuttosto rumorose. Il giovedì, però, di solito era tranquillo. Quel giorno si riuniva solo il gruppo dei mimi, che in quanto tali non facevano nessunissimo rumore. A parte il primo incontro, quando lavoravo in biblioteca da poco ed ero passato davanti alla porta mentre stavano finendo l’incontro e si erano messi ad applaudire di colpo, facendomi quasi lanciare in aria una bracciata di libri. Mi ero preso un tale spavento che avevo fatto un’imitazione da Oscar di Samuel L. Jackson elettrificato con il taser, gridando un Figlio di puttana! da far tremare gli scaffali. L’aspetto più sacrilego dell’intera performance era che avevo lasciato cadere a terra un’edizione del 1952 con sovraccoperta di Donne senza uomini di Hemingway. Per fortuna non aveva riportato danni. Il mio ego, purtroppo, non ne era uscito altrettanto indenne.

    Il venerdì di solito era una giornata piena. Laboratori di inglese durante il giorno, poi il club del libro la sera. Dato che ci trovavamo a Surry Hills, la capitale degli hipster, quella era l’occasione in cui tutti i nerd e i geek potevano trovarsi ed essere goffi e introversi in compagnia. Di solito trascorrevo la serata in una stanza piena di miei simili, a evitare il loro sguardo e morire dentro ogni volta che qualcuno cercava di fare quattro chiacchiere.

    C’è da sapere questo, di me.

    Sono un bibliotecario ventiseienne goffo e introverso, amo i libri e la fantascienza e ho i capelli castano-rossiccio. Ah, e sono gay. Oltre che un esperto di Percy Shelley, Lord Byron e Wordsworth… o di tutti i poeti rivoluzionari francesi in generale, in effetti. Devo anche indossare sempre un capo d’abbigliamento perfettamente intonato al colore delle mie scarpe, e ho la tendenza a dire figlio di puttana di continuo. Oh, ed è molto probabile che sia asessuale.

    La giuria doveva ancora decidere. Anzi, in effetti non era neanche così: la giuria aveva deciso da tempo, solo che mi opponevo al verdetto. Non volevo un’altra etichetta, ne avevo già fin troppe. Ero pieno di complessi, bizzarrie, tratti caratteriali e compartimenti sociali in cui infilarmi.

    Non avevo bisogno di aggiungerne altri.

    Ma non riuscivo a capire se a farmi schizzare l’ansia alle stelle fosse il pensiero dell’ennesima etichetta, o il fatto che non fosse stata ancora confermata. Forse avevo bisogno di riconoscerla. O forse potevano andare tutti affanculo e lasciarmi vivere nella mia bolla d’ansia non-asessuale. Forse avrebbe potuto andare affanculo anche chiunque avesse scritto l’articolo online secondo cui l’asessualità è definita dall’assenza di qualcosa.

    Fu a quel punto delle mie considerazioni che Merry mi trovò a borbottare da solo nella sezione Ironia con la fronte premuta contro La sottile arte di fare quel che ca**o ti pare. «Tutto a posto, Jordan?» chiese.

    «Definire l’asessualità come l’assenza di qualcosa suggerisce che qualcosa manchi e sia pertanto incompleta o insufficiente.» La guardai. «Io non sono affatto così, e non tollero l’insinuazione…»

    Lei alzò una mano e mi parlò sopra. In tono gentile, ma fermo, come se sapesse benissimo come calmarmi o roba simile. «L’articolo prosegue spiegando che, per definizione, l’assenza di attrazione sessuale rende difficile riconoscere tale orientamento, e si sofferma sulla difficoltà a identificarsi con qualcosa che è, per definizione, un’assenza.»

    Feci un sospiro petulante. «Non ho letto fino a lì.»

    «L’avevo intuito.»

    «La signora Peterson sembrava tranquilla?»

    Merry sorrise. «Certo, è tutto a posto.»

    «Non volevo fare quel casino, e ti sono molto grato per essere accorsa in mio aiuto. Di nuovo. Quindi, grazie.»

    «Non c’è problema. Per sdebitarti, ti ho lasciato un’enorme pila di libri restituiti da risistemare.»

    Sbirciai l’orologio. Erano quasi le cinque…

    «Hai tutto il tempo,» disse con un sorriso malizioso. «Non ti farei mai perdere l’autobus. Lungi da me privarti dell’occasione di vederlo.»

    «Mi pento di avertene parlato,» borbottai. Lei sorrise e le feci una linguaccia, ma poi mi diedi da fare con i libri restituiti per poter essere alla fermata dell’autobus davanti alla biblioteca alle 17:06. Non potevo arrivare in ritardo.

    Alle cinque in punto avevo finito, così agguantai la mia borsa e mi avvolsi una sciarpa intorno al collo. Non faceva ancora troppo freddo, ma il blu della sciarpa si intonava a quello delle scarpe. La mia uniforme standard consisteva in pantaloni antracite e camicia bianca a maniche lunghe, perciò ogni giorno aggiungevo un tocco di colore dove potevo. E doveva essere intonato. Non avevo trascorso i miei primi diciott’anni di vita nascosto nell’armadio per emergerne senza un briciolo di stile.

    Raggiunsi Merry sulla soglia della biblioteca e uscimmo insieme. Io dovevo fare solo una decina di metri fino alla fermata, mentre lei avrebbe imboccato Crown Street per tornare al suo appartamento. «Siamo sempre d’accordo per domani sera?» chiese mentre stavo in fila.

    «Uff.» Feci una smorfia.

    «Jordan, tu domani sera uscirai.» Merry sostenne il mio sguardo. «Insieme a me. Non provare a darti malato, so dove abiti.»

    «Sembra una minaccia.»

    «Perché lo è,» disse con un sogghigno.

    «Prima dovrò passare da casa a cambiarmi,» sottolineai in un ultimo tentativo di sfangarla.

    «Non c’è problema. Prendo l’autobus con te, così,» sussurrò sporgendosi in avanti, «potrò finalmente vedere il tuo uomo misterioso.»

    Il terrore mi strinse lo stomaco. «Non avrei mai dovuto parlartene.»

    Lei guardò alle mie spalle e annuì. «A proposito…»

    Il mio autobus. Il 353 che portava dalla città a Newton. Perfettamente in orario alle 17:06.

    «Salutamelo,» disse Merry in tono compiaciuto, facendomi ciao con la mano mentre si voltava per incamminarsi verso casa.

    Sapeva benissimo che non gli avevo mai rivolto la parola, figurarsi se l’avrei salutato da parte di altri. Insomma, per la miseria, l’unica volta che avevo incrociato il suo sguardo ci ero quasi rimasto secco. Letteralmente. Lui aveva alzato la testa e mi aveva sorpreso a fissare il suo viso bellissimo, così avevo messo male un piede, rischiato di cadere nel corridoio tra i sedili, accecato un ragazzino sfortunato con la borsa per infine atterrare in braccio a una suora che, per la cronaca, immagino avrebbe fatto volentieri a meno del mio porca puttana strillato nell’orecchio. Guardando il lato positivo, il Tizio delle Cuffie indossava un paio di cuffie insonorizzanti e non si era accorto di niente, così avevo potuto strisciare a sedere in fondo all’autobus con soltanto l’ego un po’ ammaccato e uno sguardo assassino della suora. L’intera esperienza era stata orribile.

    Quindi no, Merry, non avrei salutato il Tizio delle Cuffie in tempi brevi, grazie tante. Continuai a fissare torvo la sua nuca che si allontanava finché l’autobus non si fermò e aprì le porte. Salii, convalidai il mio abbonamento Opal sul lettore e mi diressi verso il fondo. E, come ogni giorno, scrutai i volti dei passeggeri fino a trovare il suo, badando bene di non incrociarne lo sguardo.

    Fui fortunato perché trovai un posto libero sul lato opposto del corridoio, due file dietro di lui, il che significava che avrei potuto fissare il suo profilo finché non fosse sceso alla fermata di Cleveland Street. Era piuttosto pallido, con capelli castano scuro e barbetta dello stesso colore. Non folta, giusto un accenno. Indossava sempre jeans o pantaloni, una maglia e una giacca, e di solito scarponi. Mi chiedevo dove lavorasse per vestirsi così. I suoi abiti erano tutti di marche che non potevo permettermi, perciò doveva avere uno stipendio niente male. Arrivava ogni giorno dalla città, eppure non indossava mai giacca e cravatta come gli altri uomini che lavoravano lì. Aveva dita lunghe che afferravano la sbarra dell’autobus quando scendeva, occhi azzurri e labbra rosa, e mi domandavo come fosse la sua voce. Non era l’unica domanda che mi facessi sul suo conto…

    Mi chiedevo che genere di musica ascoltasse con quelle cuffie. Le sue playlist contenevano gli ultimi successi, o jazz e blues? Mi dava l’idea del tipo che ascoltava jazz-fusion o qualche oscura band che nessuno aveva mai sentito nominare, e forse i commessi del negozio di musica indipendente gli tenevano da parte i singoli di vinile dietro il bancone.

    Mi chiedevo perché prendesse l’autobus. Se guadagnava bene come i suoi vestiti lasciavano supporre, perché non guidava? Aveva un’auto? A Surry Hill non ce l’avevano molti, in effetti, quindi forse non era troppo strano. Io di certo non guidavo né possedevo una macchina. Non potevo permettermela, ma forse lui sì? Prendeva l’autobus da soli sei mesi, e mi chiedevo dove fosse stato prima. Cosa l’aveva portato qui?

    Mi chiedevo dove vivesse. In un monolocale? In un appartamento condiviso? Conviveva con qualcuno? Mi chiedevo se fosse single, impegnato, sposato. Mi chiedevo se avesse dei tatuaggi, e anche se avesse un buon profumo. Scommettevo di sì…

    E mi chiedevo perché perdessi tempo con quelle fantasticherie quando sapevo che, anche nella remota ipotesi in cui avesse guardato di nuovo nella mia direzione, una volta saputo che il sesso non mi interessava con tutta probabilità sarebbe scoppiato a ridere augurandomi buona fortuna. Lui avrebbe schivato un proiettile e io me ne sarei preso uno dritto al cuore. Di nuovo.

    Era inutile.

    Sospirai e tornai a sprofondare nel sedile, ma non riuscii a distogliere lo sguardo dal suo profilo. Era così intrigante, bello in modo poco convenzionale, anche da quell’angolazione. La linea del collo, la mascella, la tempia, la guancia.

    E fu allora che me ne accorsi. Non era un effetto della luce che dall’esterno dell’autobus si rifletteva sul suo viso, ma una lacrima. Una lacrima, cazzo.

    Stava piangendo.

    Il mio Tizio delle Cuffie stava piangendo. Lacrime vere. Silenziose, strazianti.

    Non se le asciugò neppure. Rimase lì seduto a lasciarle cadere e, com’è vero Dio, questo rese tutto ancora più terribile.

    Il rumore si spense come se avessi indossato anch’io delle cuffie insonorizzanti. Il chiacchiericcio, il traffico, tutto divenne silenzio, e mi chiesi cosa diavolo fosse successo per farlo soffrire tanto.

    Avrei voluto chiedergli se stava bene. Toccargli il braccio e dirgli che si sarebbe risolto tutto.

    Ma era impossibile, certo. Non potevo chiamare uno sconosciuto sul lato opposto di un autobus affollato e chiedergli se stava bene, giusto? O meglio, avrei potuto, ma non senza attirare l’attenzione di tutti gli altri passeggeri, e lui non mi avrebbe sentito in ogni caso perché indossava le cuffie. Poi, prima che potessi dire o fare alcunché, l’autobus imboccò Cleveland Street e lui scosse la testa, si asciugò le guance e si guardò intorno per controllare se qualcuno avesse notato qualcosa.

    Io ovviamente l’avevo fatto.

    Si alzò e andò in fretta verso l’uscita. Non alzò lo sguardo, non lo faceva mai. A testa bassa, scese senza togliersi le cuffie, e poi l’autobus ripartì.

    «Hai una pessima cera.» Merry mi squadrò accigliata. «Non sei stressato per stasera, vero? Andrà tutto bene, Jordan,» disse stringendomi la mano. «Potresti persino stupirti di quanto ti divertirai.»

    «No, non è quello,» risposi, slacciandomi la sciarpa da intorno al collo e aprendo il mio armadietto. A dirla tutta, non avevo più pensato ai nostri progetti per la serata.

    «E cosa, allora?» Adesso era più preoccupata.

    «Il mio tizio,» cominciai, ma mi sentii subito uno scemo per averlo definito mio. «Sai, il Tizio delle Cuffie. Ieri stava piangendo sull’autobus.»

    «Piangendo?»

    Annuii. «Non singhiozzava, ma fissava fuori dal finestrino mentre le lacrime gli scorrevano in silenzio lungo le guance.»

    «Sempre con le cuffie?»

    «Sempre.»

    «Wow.»

    «Vero? E così, chiaramente, ho passato la notte a chiedermi cosa fosse successo. Non ho quasi chiuso occhio.»

    «Se può consolarti, il rosso delle tue scarpe e della tua sciarpa si intona benissimo ai tuoi occhi iniettati di sangue.»

    Sospirai. «Non aspettarti un grazie. Quello non era un complimento e mi rifiuto di ricompensare le provocazioni.»

    «Ma voleva esserlo.»

    Mi guardai intorno con aria teatrale. «Alexa? Alexa, che cos’è un complimento? Merry deve rinfrescarsi la memoria.»

    «Alexa non è connessa,» rispose Merry. Poi sorrise, si accostò il telefono alla bocca e finse di studiare il mio viso. «Siri, hai qualche consiglio di bellezza per eliminare dei mega borsoni dagli occhi arrossati?»

    Arricciai le labbra. «Siri, che cos’è una stronza?»

    Lei rise e si rimise il telefono in tasca. «Stavo scherzando, Jordan.»

    «Allora devi lavorare sull’intonazione.»

    Sorrise. «Prima prendiamo un caffè?»

    «Sì, grazie.» Con un lamento, infilai la borsa nell’armadietto e lo chiusi a chiave. Le mostrai un piede. «Ma sul serio, hai visto queste cazzo di scarpe? Non sono il massimo?» Erano scarponi di scamosciato rosso.

    «Sono stupende.»

    Le diedi un colpetto con il fianco mentre andavamo verso il cucinino. «Certo.»

    «Magari gli è morto il nonno.»

    «Eh?»

    «Al Tizio delle Cuffie. Forse piangeva per quello.»

    Sospirai e presi la mia tazza dalla credenza. Controllai che fosse pulita e che non l’avesse usata nessuno, poi procedetti a prepararmi il terzo caffè della mattina. «Forse. O forse ha perso un’opera d’arte dal valore inestimabile e l’assicuratore voleva fregarlo ma c’è stato un doppio tradimento e…»

    «Ieri sera hai guardato anche Il caso Thomas Crown

    Annuii e aggiunsi una goccia di latte scremato al caffè. «Pierce Brosnan è uno schianto.»

    «Oggi pomeriggio torno a casa con te, giusto?»

    «Sì, perché?»

    «Così gli dico qualcosa quando saliamo sull’autobus.»

    «A chi? A Pierce Brosnan?»

    «No, scemo. Al Tizio delle Cuffie.»

    Rimasi allibito. «Ma non pensarci nemmeno!»

    «Ci penso eccome,» rispose mescolando il caffè con un sorrisetto cattivo. «Mi farò dare il suo nome, così almeno potremo smetterla di chiamarlo Tizio delle Cuffie. E scoprirò che cosa fa, così non dovremo continuare a inventarci i mestieri più assurdi.»

    «Se lo fai, sarò così imbarazzato che dovrò dare le dimissioni, cambiare casa ed entrare nel programma di protezione testimoni.»

    Merry mi fisso. «Siri, cos’è una reazione esagerata?»

    «Siri, cazzo, giuro su Dio, non azzardarti a rispondere.»

    «Jordan,» mi rimproverò la signora Mullhearn dal lato opposto dell’area riservata al personale, senza neanche alzare lo sguardo dall’iPad. Aveva duecento anni ed era il tipo di bibliotecaria spaventosa che popolava gli incubi degli studenti. «Cosa ho detto riguardo alle imprecazioni?»

    Mi afflosciai. «Che bisogna usarle solo in situazioni di emergenza.»

    «Questa era una situazione di emergenza?»

    Corrugai la fronte. «No.»

    Merry trattenne a stento le risate mentre uscivamo, e io le rifilai una gomitata. «Oggi pomeriggio non parlerai al Tizio delle Cuffie se ci tieni a non farmi morire, cazzo.»

    Questa volta la signora Mullhearn mi lanciò un’occhiata torva e le rivolsi la mia migliore espressione pentita, ma sapevamo tutti che non lo ero affatto. Pentito, intendo.

    Merry rise e mi prese in giro tutto il giorno. Quando andammo ad aspettare l’autobus alla fine del turno, ero così in ansia che rischiavo di andare in iperventilazione. Ma peggio di lei che rivolgeva la parola al mio Tizio delle Cuffie c’era solo la possibilità che il Tizio delle Cuffie non fosse proprio sull’autobus.

    «Non è qui,» sussurrai mentre avanzavamo nel corridoio. Riuscimmo a trovare posto vicini, e lei poté confermare con i suoi occhi che non c’era nessuno con un paio di cuffie rosse.

    «È colpa tua,» le dissi. «Mi hai portato sfortuna. Adesso passerò il weekend a chiedermi cosa gli è successo e se sta bene dopo le lacrime di ieri, perché… e se suo nonno fosse morto davvero, o gli fosse successo qualcosa di terribile e fosse finito in ospedale? Magari è come in Un amore tutto suo, solo che lui si innamorerà di un altro perché mi hai portato sfiga.»

    Merry mi guardò negli occhi. «Jordan, respira. Sono sicura che stia bene. È tutto a posto.»

    «E questa sera vuoi costringermi ad andare a questo incontro dove tanto varrebbe appendermi al collo un cartello con su scritto STRANO in lettere fosforescenti.»

    «Non è vero. I partecipanti saranno tutti come te, vedrai.»

    «Come fai a saperlo? Non puoi. È un’equazione impossibile, stai tirando a indovinare e questo ti rende una bugiarda capace solo di mentire, il che è ancora peggio.»

    Merry inspirò a fondo. «Alexa, per favore aggiungi il Valium alla mia lista della spesa.»

    Un’ora più tardi, dopo che mi ero cambiato tre volte e avevo dovuto mettere la testa tra le ginocchia e svolgere alcuni esercizi di respirazione per evitare una crisi di nervi completa, Merry riuscì a portarmi all’incontro. Si teneva in una piccola sala riunioni nel retro di un hotel su Elizabeth Street. Era pieno di gente che beveva e faceva festa, e avrei potuto pensare di annegare l’ansia nella vodka se non fossi stato già sul punto di impazzire. C’erano sette o otto persone, ma ero troppo nervoso per incrociare il loro sguardo o anche solo sbirciarle, in effetti. Finché Merry non mi costrinse a fermarmi e fare un

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