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Il coraggio porta il tuo nome
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E-book308 pagine4 ore

Il coraggio porta il tuo nome

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Info su questo ebook

Levi ha diciotto anni e non nutre alcun sogno per il futuro. Un oscuro episodio del suo passato lo ha portato a chiudersi in se stesso. La vita trascorre monotona nel paesino di montagna in cui vive, finché un giorno arriva a scuola un nuovo studente dai tratti orientali di nome Sifeng.
Levi si sente subito attratto dal ragazzo e prova a fare amicizia con lui. Le cose però non sono così facili: Sifeng è vittima di un paio di bulli e viene discriminato perché è cinese. Levi inoltre ha notato dei lividi sul suo corpo.
Tra problemi familiari e primi batticuori, la delicata storia di due adolescenti che trovano l’uno nell’altro il coraggio di vivere, crescere e amare.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2023
ISBN9791220704854
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    Anteprima del libro

    Il coraggio porta il tuo nome - Elisabetta Vona

    1

    STRAVOLGIMENTO

    16 settembre 2016

    In una meravigliosa giornata di sole, con gli uccellini che cinguettavano felici e il vento fresco di settembre che accarezzava gli alberi pieni di foglie di un verde luminoso, ero chiuso nella stanza del vicepreside in attesa di vederlo. Era solo il secondo giorno del quinto anno di liceo e lui mi aveva già convocato, nonostante io non avessi ancora fatto nulla; insomma, cosa avrei potuto fare in due giorni? Non che io provocassi chissà quali problemi. Ero un adolescente abbastanza calmo e introverso. Ciò che i miei genitori e il vicepreside non sopportavano era il fatto che non studiassi per niente.

    La scrivania era in ordine, come sempre: alcuni fogli erano posizionati sopra il portatile spento, due portafoto con degli scatti della famiglia in stile Mulino Bianco del vicepreside erano disposti ai lati del computer e il solito portadocumenti nero era appoggiato vicino a una delle cornici. Ripetitiva, monotona e metodica, proprio come lo era la sua vita.

    Le pareti bianche e le finestre alla destra della scrivania facevano sembrare la stanza più grande di quanto in realtà non fosse, ma io mi sentivo soffocare comunque, mi sentivo chiuso all’interno di una scatola. In quel preciso istante avrei dovuto essere in piscina, ma invece stavo seduto nella stanza del signor Severo, un uomo sulla cinquantina, nonostante le lezioni fossero già finite da venti minuti e dieci secondi.

    Diedi uno sguardo veloce al cellulare, per abitudine, senza però cercare qualcosa in particolare; subito dopo, la porta alle mie spalle si spalancò e si richiuse immediatamente. Il signor Severo raggiunse la scrivania, senza degnarmi di uno sguardo.

    «Buon pomeriggio, Levi. Come stai?» chiese, accomodandosi sulla sedia in pelle.

    Alzai le spalle. «Potrebbe andare meglio.»

    «Sai perché sei qui?» Spostò i fogli dal portatile, in modo tale da poterlo aprire.

    «No, signore, ma vorrei saperlo,» replicai.

    Il vicepreside digitò velocemente qualcosa sul computer e poi alzò lo sguardo su di me, come se nulla fosse. «In realtà dovresti saperlo: l’anno scorso hai avuto dei voti pessimi in quasi tutte le materie, sei stato salvato per miracolo.» Abbassò di nuovo lo sguardo sullo schermo.

    Incrociai le braccia al petto e alzai gli occhi al cielo. Non avevamo neanche cominciato ad aprire i libri e lui mi faceva già la predica. In ogni caso, il mio sogno non era certo quello di andare all’università: odiavo studiare, volevo solo nuotare e vincere una medaglia d’oro durante una gara importante. Almeno, questo era ciò che dicevo a tutti, compresa la mia famiglia. Volevo vincere quella medaglia a tutti i costi, ma non era il mio sogno. Io non avevo sogni.

    Volevo solo nuotare, perché quello era l’unico momento in cui non sentivo il mio corpo pesante.

    Il signor Severo sospirò toccandosi la nuca con la mano destra e, contemporaneamente, alzò lo sguardo su di me. Aveva le sopracciglia corrucciate e le labbra serrate.

    «Dovrai fare il corso di cinese che si terrà a scuola da domani, alla fine del corso farai un esame che ti permetterà di recuperare i crediti di quest’anno. Non solo farai il corso, ma stavolta dovrai avere almeno la sufficienza in tutte le materie, in modo tale da poter fare l’esame di stato senza problemi. Non possiamo salvarti anche questa volta, Levi.» Si era alzato dalla sua poltrona durante la prima metà del discorso e si era fermato vicino a me.

    La sua figura mi sovrastava e io fui costretto ad alzare la testa per guardargli il viso. Avrei preferito morire piuttosto che rinunciare al nuoto. Non potevo studiare, frequentare il corso di cinese e nuotare allo stesso tempo: era praticamente impossibile. Inoltre, perché mai avrei dovuto studiare cinese? Non mi piacevano neanche le lingue.

    «Non ho temp…» Stavo per rifiutare l’offerta, ma il signor Severo mi interruppe subito.

    «Ho già parlato con i tuoi genitori e loro mi hanno chiesto di iscriverti al corso.»

    Io quasi mi strozzai con la mia stessa saliva.

    «Inizia domani alle tre in punto,» continuò il vicepreside. «Se non sarai presente, convocherò i tuoi genitori e vedremo come procedere.» Detto questo, mi fece segno di andare via.

    Afferrai il mio zaino nero che avevo lasciato sul pavimento e, ancora un po’ incredulo e stordito a causa della notizia, uscii dalla stanza. Appoggiai la schiena alla porta in legno chiusa dietro di me e feci un respiro profondo. Non potevo crederci. Mi chiesi se, in realtà, i miei genitori sapessero già la vera ragione per la quale non riuscivo a studiare o a svolgere qualsiasi attività all’infuori del nuoto.

    Dei brividi mi percorsero tutto il corpo. Mi veniva da vomitare.

    Decisi di non pensarci e andai in piscina per il solito allenamento pomeridiano. Nel momento in cui varcai la soglia dell’edificio, un forte odore di cloro mi invase le narici e finalmente mi sentii a casa. L’allenatore, Emanuele, era in piedi accanto alla pedana numero quattro e fissava l’acqua limpida della piscina olimpionica senza dire nulla: non sembrava neanche essersi accorto della mia presenza.

    «Ehi!» esclamai dall’estremità della grande stanza e l’eco della mia voce raggiunse l’allenatore.

    Emanuele alzò lo sguardo verso di me e mi fece un cenno con la testa: c’era qualcosa che non andava.

    «È successo qualcosa?» chiesi, sempre dalla stessa distanza.

    Eravamo in due, però mi sembrava di essere solo, dato che Emanuele era completamente assente. Si sistemò il costume azzurro, proprio come le pareti e il fondo della piscina, mentre io attendevo ancora una risposta da parte sua.

    «Cambiati, è tardi,» rispose soltanto, voltandosi di nuovo verso l’acqua.

    Spostai lo sguardo sullo schermo del cellulare, dopo averlo acceso. Ero in ritardo di soli dieci minuti, nulla di grave, e Riccardo non era ancora arrivato.

    Preoccupato, mi diressi verso gli spogliatoi e, dopo essere entrato, notai la presenza di Riccardo, ovvero il mio migliore amico. Non era in ritardo.

    «Ehi, Riccardo, hai notato qualcosa di strano in Emanuele?» domandai, posando lo zaino sulla panchina dello spogliatoio.

    «No, è successo qualcosa?» Riccardo indossò il suo costume rosso e attillato.

    «Non ne ho idea,» confessai, e raggiunsi uno degli armadietti presenti nello spogliatoio, così da poter prendere tutto il necessario per nuotare.

    Tolsi velocemente i vestiti per cambiarmi. Nel mentre Riccardo, dallo stipite della porta, teneva gli occhi puntati su di me.

    «Puoi andare se vuoi,» dissi io, dato che mi sentivo un po’ a disagio.

    Eravamo amici dal giorno in cui ero arrivato a Blumonti, quattro anni prima. Il nostro era un rapporto particolare. Eravamo molto legati, ma anche riservati a proposito della nostra vita privata. Insomma, non eravamo il tipo di amici che parlavano di tutto.

    «No, ti aspetto,» rispose Riccardo, accennando un sorriso.

    Afferrai la cuffia e gli occhialini, ed entrambi uscimmo dallo spogliatoio per raggiungere l’allenatore. Quando ci fermammo di fronte a lui, non potei fare a meno di lanciargli uno sguardo interrogativo.

    «Riccardo, comincia con lo stile libero per riscaldarti. Quattro vasche,» affermò Emanuele, dando una pacca sulla spalla al mio amico.

    Riccardo mi lanciò un’occhiata e poi entrò in acqua.

    Emanuele mi fece segno di seguirlo ed entrambi raggiungemmo gli spalti a sinistra della grande vasca. Si accomodò su una delle panchine, si coprì il volto con le mani e dopo una manciata di secondi, che a me sembrarono ore, alzò il viso verso di me.

    «I tuoi genitori sono venuti oggi…» disse infine. «Mi hanno chiesto di non allenarti durante il primo quadrimestre. Credono che il nuoto sia una distrazione dallo studio e, dato che sei al quinto, non vogliono che tu vada male come l’anno scorso,» continuò con voce ferma ma sofferente.

    Non riuscivo a credere al fatto che loro avessero parlato anche con lui senza dirmi nulla. Sul momento, non capii il motivo per il quale i miei genitori avessero agito in quel modo. Ero certo che volessero solo il mio bene, ma era la scelta giusta strapparmi via l’unica cosa che mi dava un po’ di tranquillità?

    «Ovviamente tu non lo farai,» dissi tra una risata nervosa e l’altra.

    Emanuele mi guardò afflitto, come se quella decisione stesse tormentando più lui che me, come se fosse lui a dover smettere di allenarsi. Lui era l’unico che riusciva a capire quanto il nuoto fosse importante per me in quel momento, quindi sapeva quanto tutta quella situazione mi stesse distruggendo mentalmente.

    «Mi dispiace, Levi…» sussurrò, abbassando lo sguardo.

    Mi passai una mano tra i capelli ricci. «Stai scherzando, vero? Come posso superare le selezioni se non mi alleno?»

    Tutte le emozioni che avevo cercato di reprimere esplosero e non potei fare a meno di urlare e sfogare la mia rabbia su di lui. Volevo piangere, ma non ci riuscivo.

    «Non potete farmi questo!» sbraitai.

    Subito dopo, sentii una mano posarsi sulla mia spalla e mi scostai bruscamente. Riccardo mi guardò con gli occhi spalancati, mentre i capelli bagnati gli gocciolavano sulle spalle altrettanto bagnate. Spostai lo sguardo su Emanuele che non smetteva di fissare il pavimento.

    «Smettetela di fingere che questo vi faccia soffrire più di quanto faccia soffrire me, sono io quello che non potrà nuotare! Smettetela, cazzo!» Indietreggiai per allontanarmi il più possibile da loro. «Vaffanculo.» Camminai velocemente verso lo spogliatoio.

    Rimisi i pantaloni della tuta che avevo tolto poco prima, senza levarmi il costume, indossai la maglietta bianca e, infine, le scarpe da ginnastica. Inserii gli occhialini e la cuffietta all’interno dello zaino e, senza dire una parola a nessuno, uscii dall’edificio.

    La prima volta che avevo messo piede a Blumonti, quel paese in provincia di Como, non conoscevo nessuno, solo mia nonna, che era uno dei motivi per cui avevamo deciso di trasferirci da Londra. Ricordavo che Emanuele era stato il primo a sorridermi ed era stato lui che mi aveva presentato Riccardo.

    Quando ero arrivato in Italia avevo paura dell’acqua, tremendamente paura; tremavo ogni volta che intravedevo qualcuno in acqua. Temevo più per la vita degli altri che per la mia. Pensavo a lui, vedevo sempre lui. E in quel momento, lo vedevo ancora, ovunque io andassi lui era lì.

    Scossi la testa per scacciare quei pensieri. Le mie gambe si muovevano senza una meta: non volevo tornare a casa e non volevo vedere nessun componente della mia famiglia. Mi chiesi se dovessi comunque continuare con il nuoto, nonostante i miei genitori me lo avessero vietato. Ma se l’avessi fatto, non avrei comunque avuto i soldi per pagare le lezioni, quindi non avrebbe avuto senso.

    Senza il nuoto, mi sentivo vuoto e solo, così solo da stare male fisicamente. Era l’unica cosa che ci teneva legati. Non avevo altro.

    Camminando, mi accorsi di essere arrivato a un prato sconfinato poco fuori dal paese. Ci capitavo spesso con la mia famiglia quando ero piccolo e venivamo a trovare i miei nonni materni; facevamo dei lunghi picnic e io e mia sorella giocavamo fino allo sfinimento. Quando avevo sei anni, quel luogo mi sembrava più grande di quanto in realtà non fosse, ma aveva la stessa pace di allora e gli odori estivi erano ancora inebrianti nonostante fossimo a fine stagione. Guardando quella distesa infinita, riuscivo a vedere me e mia sorella giocare ad acchiapparella o a nascondino, nonostante non ci fosse nessun luogo per nascondersi; vedevo i miei genitori ridere mentre cercavano di scattarci delle foto e immaginavo i mille fiori che io e Clare raccoglievamo per la mamma.

    Mi sedetti sull’erba e sospirai guardando il vuoto. Il vento era piacevolmente fresco e il sole era velato. Socchiusi gli occhi godendomi quel momento di pace. Quando li riaprii, una figura a qualche metro di distanza entrò nel mio campo visivo, attirando la mia attenzione: un ragazzo esile era disteso a pancia in giù sull’erba morbida alla mia destra. Aveva gli occhi, coperti dai capelli lisci e neri, puntati su quello che sembrava un album da disegno e, ogni tanto, alzava lo sguardo sul paesaggio. Ogni volta che sollevava la testa, il venticello gli scopriva gli occhi a mandorla. Non potevo fare a meno di guardarlo, ero come ipnotizzato dal suo profilo e mi chiedevo cosa stesse disegnando con tanta attenzione e trasporto.

    Le pareti della classe d’arte erano di un beige chiarissimo e le grandi finestre illuminavano la stanza così tanto da farla sembrare surreale. Il calendario sulla cattedra segnava la data odierna, 11th January 2012.

    Quella classe era il mio ambiente preferito della scuola; non per la sua luminosità, non perché odorava di tempere, non perché era quasi sempre vuota, ma perché sapevo che avrei trovato lui lì. I suoi grandi occhi verdi erano coperti dai capelli neri, mentre dipingeva sulla tela più grande che avessi mai visto. Non era mai riuscito a finirla, quell’opera d’arte.

    «Jakie! Ancora su quella tela?» chiesi, avvolgendolo in un caldo abbraccio.

    «Mi hai chiesto tu di dipingerla,» rispose, accennando una risata.

    «Se avessi saputo che ti avrebbe tenuto lontano da me, non l’avrei mai fatto.» Gli diedi un bacio sulla guancia.

    «Okay, okay, faccio una pausa.»

    Il ragazzo misterioso alzò lo sguardo verso il tramonto che illuminava dolcemente quella distesa di fiori e io tornai alla realtà. Si voltò nella mia direzione, i nostri occhi si incrociarono per qualche istante; nessuno di noi accennò a distogliere lo sguardo. Qualche secondo dopo, abbassò il viso candido sul foglio e riprese a disegnare. Proprio come prima, delle volte alzava lo sguardo, ma ora non osservava il paesaggio… guardava me con quei suoi occhi attenti e curiosi che mi ricordavano tanto quelli verdi di lui.

    Restammo così per qualche secondo, poi, quando il sole cominciò a scomparire dal cielo, il ragazzo dagli occhi a mandorla mi lanciò un ultimo sguardo e si mise in piedi.

    Lo seguii con gli occhi mentre andava via, ma non dissi nulla. Rimasi fermo immobile e il dolore di prima ritornò con più intensità.

    Sarei mai riuscito ad andare avanti?

    2

    DUE OCCHI A MANDORLA

    Quella sera, tornai a casa a mezzanotte circa e tutte le luci erano già spente, tranne la piccola lampada che stava sul mobile in legno del salotto. Emanava una flebile luce che riusciva a illuminare solo una parte della stanza. Intravidi mia madre dormire sul divano in pelle: aveva le ginocchia strette al petto e riposava con la fronte corrucciata. Sapevo perché era sdraiata lì invece di stare a letto, accanto a papà. Mi aveva aspettato tantissime volte durante l’ultimo anno a Londra, sempre preoccupata e attenta a ogni mio minimo cambio d’umore.

    Era come essere tornati in quella grande città inglese, con un’unica differenza: non avevo più quattordici anni.

    Mi avvicinai al divano e mi misi in ginocchio accanto a lei. Mia madre era la donna più bella e dolce del mondo: come avrei potuto mai odiarla? La donna che mi aveva sempre amato nonostante tutto; la donna che metteva sempre al primo posto i suoi figli; la donna che amava suo marito con tutta se stessa, anche dopo venticinque anni di matrimonio.

    «Mamma, sono tornato, puoi andare a letto,» sussurrai, accarezzandole i capelli lisci e morbidi.

    Aprì lentamente prima un occhio e poi l’altro. Solo qualche secondo dopo sembrò accorgersi della mia presenza e mi lanciò uno sguardo preoccupato e triste allo stesso tempo.

    «Piccolo mio, stai bene?» chiese, portando una delle sue mani calde sul mio viso freddo.

    Io le sorrisi. «Sì, mamma, adesso vai a letto.» E mi alzai per raggiungere l’uscita del salotto, ma la voce di mia madre mi fermò.

    «Levi…» mi chiamò.

    Mi voltai nella sua direzione, trovandola seduta sul divano. Aveva la testa bassa e le mani incrociate sul grembo.

    «So quanto sia difficile per te, ma cerca di capirci… va bene?» disse con un filo di voce. «Noi… ti amiamo tanto.»

    «Lo so, mamma. Buonanotte.»

    Andai in camera mia e mi chiusi la porta alle spalle, insieme a tutti gli eventi di quella giornata. Avevo bisogno di rilassarmi, avevo bisogno di dimenticare per un po’.

    Jake, pensai, non so se riuscirò a mantenere la promessa.

    17 settembre 2016

    Il giorno dopo, a colazione, c’era una strana atmosfera: mio padre non osava guardarmi in faccia, mia madre sorseggiava un caffè e mia sorella aveva gli occhi puntati sul suo cellulare. L’unica persona che si comportava come al solito era mia nonna Diana, impegnata a lavare tazze e posate. Nessuno si azzardò a farmi domande o a parlarmi in generale e io feci lo stesso.

    Avevo riflettuto a fondo su quella situazione, ed ero arrivato a una conclusione: mi sarei impegnato a scuola, così da poter tornare a nuotare.

    Dovevo farlo, avrei dato qualsiasi cosa pur di ritornare in piscina e da lui.

    «Io vado,» dissi, alzandomi dalla sedia. «Clare, vieni con me?»

    Mia sorella sollevò finalmente lo sguardo dal cellulare e si soffermò a guardarmi. Nel mentre, i miei genitori continuavano a fare colazione in silenzio.

    «Sì, andiamo,» disse, alzandosi dalla sedia.

    Afferrammo i nostri zaini all’entrata e, dopo aver indossato una giacca leggera, uscimmo di casa e ci incamminammo verso la scuola. Era ancora presto, ma stare dentro quelle quattro mura mi stava soffocando e sapevo che lo stesso valeva per Clare.

    «Dammi il tuo zaino, lo porto io,» proposi, e lo avevo già afferrato per una delle bretelle.

    Clare si ritrasse. «Non sono mica una bambina.»

    Scoppiai a ridere e le accarezzai i capelli con dolcezza. Era splendida, proprio come mia madre, in pratica era la sua copia in miniatura: bassina, capelli color cenere e occhi di un bellissimo blu acceso. Sembravano gemelle.

    «Perdonami, piccola.»

    «Non sono piccola! Ho quattordici anni,» si arrabbiò lei, e mi diede un colpetto sul braccio.

    Entrambi scoppiammo a ridere.

    Clare riusciva sempre ad alleggerirmi le giornate: bastava la sua presenza e mi sentivo tranquillo.

    «Dove sei stato ieri? La mamma era preoccupata per te,» domandò, guardandosi le Converse nere.

    «In giro, e lo so, l’ho trovata ad aspettarmi sul divano.»

    «Non tornare più così tardi e se dovessi farlo, avvisaci prima.»

    In quel momento mi resi conto che Clare era più matura di me, più responsabile. Aveva ragione: non era una bambina.

    Ero io il bambino.

    Ero io quello che non riusciva ad andare avanti.

    Quando arrivammo a scuola, le nostre strade si separarono e io andai nella mia classe, al secondo piano. Nella stanza erano ancora in pochi, dato che era presto. Così, dopo aver salutato, mi sedetti in fondo, vicino alla finestra, e poggiai la testa sulle braccia incrociate sul banco, oramai troppo basso per me.

    Avevo sonno, ma non riuscivo a chiudere occhio. Pensavo di aver superato quella prima e dolorosa fase che era iniziata quattro anni prima, ma il giorno precedente ero stato investito dal treno del passato che non avevo fatto altro che osservare da lontano per tutto quel tempo.

    Temevo che non sarei mai stato felice veramente.

    «Buongiorno, come stai oggi?» mi chiese Riccardo, dopo essersi seduto vicino a me.

    «Bene,» mi limitai a rispondere, sebbene non fosse vero.

    Era il mio migliore amico, gli volevo bene, ma non capivo il motivo per il quale non riuscivo a essere sincero con lui sui miei sentimenti e, soprattutto, sul mio passato. Non sapeva nulla di me e la colpa era mia.

    Volevo disperatamente parlarne con qualcuno, ma quelle parole che avrei voluto urlare non accennavano a uscire dalla mia bocca.

    «Ti stiamo aspettando tutti in piscina, ti basta avere dei voti decenti al primo quadrimestre, puoi farcela,» disse con un sorriso rassicurante in volto.

    «Certo, andrà bene.»

    Poi, iniziò la lezione di matematica e io e Riccardo cademmo nel silenzio, non perché lui non volesse rivolgermi la parola, ero io il problema: non avevo voglia di parlare con nessuno.

    Durante l’ora di lezione, presi appunti e feci tutti gli esercizi assegnati dalla prof in classe, ma non mi venne giusto neanche uno dei dieci risultati: mi mancavano le basi. Non sarei mai riuscito ad avere la sufficienza.

    Stanco della situazione, chiesi all’insegnante il permesso per andare in bagno e uscii dalla classe. Infilai entrambe le mani nella tasca centrale della felpa grigia e passeggiai per i corridoi della scuola.

    Poco prima di girare l’angolo dell’ennesimo corridoio, sentii delle voci provenienti dal bagno dei maschi, vicino all’unico distributore automatico di merendine dell’intero edificio.

    «I cinesi puzzano proprio di merda,» disse un ragazzo, scoppiando a ridere subito dopo.

    «Dai, si è appena trasferito, lascialo stare per oggi, Davide,» disse una seconda voce maschile ridendo.

    Appoggiai la spalla destra allo stipite della porta e incrociai le braccia al petto per osservare la scena: i due ragazzi erano in piedi davanti a un ragazzino dai capelli corvini. Riuscivo a vederli benissimo in viso, mentre quello più piccolo era di spalle e in ginocchio davanti a loro.

    Quando i due più grandi si accorsero di me, mi fecero segno di non dire nulla, appoggiandosi l’indice sulle labbra. Il ragazzo sul pavimento si lasciò sfuggire un singhiozzo; allora, il tizio alla mia destra lo afferrò per i capelli lisci e gli trascinò la testa vicino alla cerniera dei pantaloni dell’amico.

    «Succhiagli il cazzo, cinese di merda,» disse con disprezzo, come se stesse sputando le parole.

    «Lascialo andare,» gli intimai, con voce gelida.

    Feci un sorriso

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