Chi ha Costruito il Muro di Berlino?: Dalla Guerra Fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente
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Oggi, a trent’anni dalla caduta del “Muro”, possiamo già intravvedere il baccanale delle celebrazioni di quella vittoria: tanta più enfasi sarà data all’evento, quanto più serio è oggi il pericolo di una revisione di quella narrazione. In questo libro l’autore rivela aspetti sconosciuti e chiarificatori della nostra storia più recente.
Con questo libro scoprirai:
- Perché doveva sorgere il Muro Storia e retroscena del Piano Morgenthau
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Anteprima del libro
Chi ha Costruito il Muro di Berlino? - Giulietto Chiesa
Giulietto Chiesa
ISBN 979-12-5528-215-0
©2023 One Books
Collana: Revoluzione
Prima edizione: Settembre 2019
Tutti i diritti sono riservati
Ogni riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, deve essere preventivamente autorizzata dall’Editore.
Copertina: Julieta Vieyra
Editing: Paolo Battistel
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Giulietto Chiesa
Chi ha costruito il Muro di Berlino?
Dalla Guerra Fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente
Prefazione
Annus horribilis: 1989 ed ermeneutica del Muro
Come sempre accade quando si sta per leggere un libro di Giulietto Chiesa, occorre che il lettore si armi di coraggio o, più precisamente, di quello che Hegel, in una sua celebre lezione a Berlino del 22 ottobre del 1818, definiva il «coraggio della verità» (Mut der Wahrheit).
È, in altri termini, richiesta quella coraggiosa disponibilità a mettere in discussione radicalmente l’ordine del discorso, le narrazioni egemoniche e, più in generale, la superstruttura su cui si fonda, a livello di immaginario condiviso, la struttura dominante.
Nel suo complesso, l’opera intellettuale di Giulietto Chiesa potrebbe anche intendersi come un radicale esercizio di critica dell’ideologia nell’accezione attribuita a questa espressione da Marx ed Engels: l’obiettivo, che fa da orizzonte permanente del lavoro di Chiesa, è la demistificazione del punto di vista dominante – che santifica, appunto, l’ordine reale dominante – e la convergente creazione di uno sguardo alternativo, che sappia mettere a nudo i reali meccanismi del potere e gli interessi su cui le sue narrazioni si reggono.
Il libro che il lettore stringe tra le mani rientra appieno in questa cornice di senso. Di più, è forse uno degli esercizi più convincenti di critica dell’ideologia che si siano registrati in tempi recenti, dominati dal désert de la critique, come impietosamente l’ha battezzato Renaud Garcia. L’attenzione di Chiesa si rivolge al Muro di Berlino, inteso sia nella sua materialità di barriera realmente esistita fino al 1989, sia nella sua pur concretissima materialità ideologica.
La domanda che egli solleva e che vale già, di per sé, a guastare la festa
a chi proprio quest’anno celebra il trentennale della caduta del Muro di Berlino, è la seguente, straniante e inquietante: chi ha davvero voluto e costruito il Muro di Berlino? Altrettanto straniante e inquietante è la risposta prospettata da Chiesa, con il supporto documentatissimo di testi e archivi. Così scrive nel suo testo, in un passaggio che merita davvero di essere meditato:
«Oggi, a trent’anni dalla caduta del Muro
, possiamo già intravvedere, pronosticare, il baccanale delle celebrazioni di quella vittoria. È già avvenuto nel decennale e nel ventennale, ma il terzo decennio dal crollo di quel cemento sarà – si può scommettere – di qualche ordine di grandezza superiore. C’è una ragione precisa per questo innalzamento del volume delle trombe che suoneranno a tutto spiano: tanta più enfasi sarà data all’evento, quanto più serio è oggi il pericolo di una qualche revisione di quella narrazione».
Non anticipo nulla al lettore, che potrà autonomamente seguire le lucide analisi e la precisa ricostruzione storica operata da Chiesa. Desidero, però, svolgere alcune considerazioni generali, di ordine filosofico-politico, intorno al Muro di Berlino.
Secondo quanto ho suggerito in Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo1, il 1989 segna una tappa decisiva della dialettica evolutiva del capitalismo nel suo transito dalla fase dialettica a quella assoluta.
Si tratta della data epocale dell’imposizione del capitalismus sive natura, ossia del fanatismo economico e del classismo planetario ipostatizzati ideologicamente in destino irredimibile o in natura già da sempre data, né criticabile, né trasformabile.
Si è prodotto quell’orizzonte di senso all’insegna della fatalizzazione della storia e della naturalizzazione del sociale di cui non abbiamo ancora oggi cessato di essere abitatori. Con la sintassi di Marx, l’economia oggi spoliticizzata non cessa di porre in essere sempre nuove robinsonate
.
È a partire dalla data-sineddoche del 1989 che tramonta «l’Età dell’oro», come la definì Hobsbawm. La pur contraddittoria presenza dell’Unione Sovietica era un limite per il capitale e, in quanto tale, doveva essere superata. L’Unione Sovietica costituiva, infatti, una frontiera reale e simbolica per l’economia di mercato: segnalava che essa non era il solo mondo possibile, né l’unico realmente esistente.
Non solo i Paesi del socialismo pur non perfettamente realizzato marcavano, per così dire, i confini reali e simbolici del mondo sussunto sotto il capitale, mostrandone il carattere di realtà storica dai contorni precisi, né unica, né eterna. Erano anche ciò che realiter garantiva, nell’Occidente a struttura capitalistica, la sopravvivenza del sistema sociale di quel welfare state a suo tempo avviato dal cancelliere Bismarck in Prussia, per prevenire e temperare le rivendicazioni dei partiti socialisti, e divenuto nel Novecento la risposta obbligata occidentale alle politiche sociali del socialismo reale.
Nel suo complesso, il welfare state fu un tentativo di soluzione sociale alla contraddizione sistemica: a quest’ultima, dopo il 1989, il trionfo del cosmopolitismo liberista impone, invece, la via delle soluzioni biografiche, in termini di successo imprenditoriale e di affermazione individualistica.
I famosi trent’anni gloriosi
del capitalismo, racchiusi nell’arco temporale compreso tra il 1945 e il 1975, con una pressoché piena occupazione e un relativo benessere di cui hanno in parte beneficiato anche le classi meno abbienti, non erano un dono di un capitalismo ancora munifico e dal volto umano. Erano, invece, l’effetto necessitato della pressione esercitata dalla realtà situata al di là del Muro di Berlino, un modello alternativo di giustizia sociale e di esistenza.
Con grammatiche liberamente mutuate da Hegel, il Servo, nell’Occidente capitalistico, era tutelato dalla presenza del mondo comunista. Quando il sindacato si sedeva al tavolo della contrattazione sociale, la sua forza contrattuale
e rivendicativa era data, oltre che dalla coscienza di classe del proletariato unito e consapevole, dalla minacciosa ombra del gigante sovietico, che si stagliava dietro di lui e che ne consolidava la potenza.
L’Unione Sovietica svolgeva il ruolo di baluardo difensore, anche per via indiretta, degli interessi del Servo su scala globale e, in particolare, nella confinante Europa. Per parte sua, il collasso del colosso sovietico dissolse ogni freno inibitorio all’aristocrazia euroatlantica, annichilendo l’argine reale e simbolico rispetto al duplice e sinergico processo:
1. di americanizzazione subculturale e militare del pianeta;
2. di liberazione del capitale e della sua voracità di pluslavoro.
Insomma, peggio del mondo diviso nei due blocchi poteva esserci solo ciò che è venuto dopo. In sintesi, ritengo che siano almeno cinque i motivi fondamentali per cui occorre valutare positivamente, in termini dialettici, l’esperienza della Rivoluzione russa e dell’Unione Sovietica:
1. La Rivoluzione di Lenin del 1917 è stata, dopo la Comune di Parigi, la prima rivolta delle classi subalterne organizzate contro il dominio classista del capitalismo egemonico.
2. L’Unione Sovietica ha reso possibile quel comunismo a cui dobbiamo – contro le falsificazioni della storiografia pigra e allineata – la liberazione dell’Europa dai nazifascismi.
3. Il socialismo reale ha contenuto, fino al 1989, a mo’ di potenza catecontica, la marcia della barbarie capitalistica; che infatti ha ripreso a furoreggiare incontrastata dopo il 1989.
4. La Rivoluzione bolscevica e il comunismo storico novecentesco hanno reso possibile le conquiste salariali, il sistema welfaristico e le vittorie delle classi subalterne in Occidente.
5. Il comunismo realizzato, pur con tutte le sue contraddizioni, ha reso possibile, a livello immaginativo, pensare un mondo diverso: rispetto alla barbarie del capitale, ma anche rispetto al comunismo realizzato.
Emerge, allora, nitidamente il paradosso della pur contraddittoria esistenza dell’Unione Sovietica lungo l’arco della sua durata. Per ironia della storia, la Rivoluzione russa aspirava a distruggere il capitalismo e, invece, salvò i propri nemici, sia in guerra (trionfando sulle armate naziste e ponendo de facto in essere le condizioni per la rioccupazione americana del vecchio continente), sia in pace (obbligando il capitalismo a mitigarsi e a riformarsi in risposta alle politiche del socialismo reale).
È tutto fuorché accidentale che la naturalizzazione del capitale, nella forma assoluta del capitalismus sive natura, ma poi anche il processo di erosione dei diritti e, insieme, la controffensiva del signore ai danni del Servo, si siano verificati in seguito al crollo del Muro di Berlino, quando il colosso sovietico è rimasto ingloriosamente sepolto sotto le sue macerie. E, in questa luce, dovrebbe già risultare più chiaro chi siano realmente coloro i quali, ai piani alti del finanz-capitalismo, debbono davvero festeggiare la caduta del Muro.
Per quanto criticabile sotto molteplici profili, l’Unione Sovietica, del resto, oltre a rappresentare un modello di produzione e di esistenza alternativa, era pur sempre una realtà nazionale autonoma, sovrana e con economia politicizzata: la dinamica di assolutizzazione del capitalismo non poteva, di conseguenza, non travolgere l’esperimento politico e sociale del comunismo novecentesco.
Il fatto che il 1989 sia, a oggi, celebrato come anno della liberazione costituisce una prova ulteriore – Chiesa, a ragion veduta, vi insiste ad abundantiam – circa l’invasività dell’ideologia dominante, nonché la sua capacità di essere egemonica anche presso le classi che tutto l’interesse avrebbero a contestarla.
Il 1989 è stato un anno di liberazione
esclusivamente per il capitale, per i suoi agenti e per la classe dominante dell’aristocrazia finanziaria, non certo per le moltitudini precarizzate europee (che, dopo la caduta del Muro di Berlino, sono state rapidamente liberate
dei diritti sociali e del lavoro superstiti), né per le popolazioni del socialismo reale, la cui liberazione
ha significato, di fatto, la loro annessione nel regime del lavoro salariato e precarizzato e il peggioramento tangibilissimo della loro prospettiva di vita.
Prova ne è, del resto, che a uscire rafforzato dal crollo del regime sovietico non è stato il mondo del lavoro, né quello della piccola imprenditoria, ma unicamente quello dell’élite cosmopolitica, competitivista e liquido-finanziaria: quest’ultima più agevolmente ha potuto procede dopo il 1989 in vista:
1. della decomposizione programmata dei diritti sociali e del lavoro;
2. della distruzione delle imprese non in grado di reggere con la competitività multinazionale, deregolamentata e deeticizzata.
Ne sono usciti ulteriormente indeboliti il proletariato e la borghesia – peraltro già sottoposti a una pressante offensiva dal 1968 in avanti –, nel trionfo della rivolta sradicante delle élites liberatesi della potenza geopolitica sovietica non ancora allineata con l’ordine del fanatismo globale del mercato.
Agguerrito come non mai, il capitalismo fin de siècle, vincente e non più limitato dalla presenza dell’Unione Sovietica, è passato all’offensiva. Ha abbandonato il compromesso storico con lo Stato, indicando quest’ultimo come suo nemico principale e aspirando a invaderne gli spazi.
Si è venuto sgretolando l’accordo fordista-keynesiano, centrato sull’equilibrio statalmente garantito tra un intenso sfruttamento della forza lavoro e robuste protezioni sociali.
In altri termini, nel transito alla società post-fordista (la post-industrial