Storia di Cosa Nostra in Sicilia: Dalle sue origini alla fine della Prima Repubblica
Di Nicola Zarbo
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Un testo esplicativo, scritto in modo semplice e accessibile, ma completo e storicamente esaustivo sul fenomeno mafioso in Sicilia e i suoi sviluppi che si sono ramificati negli anni in tutta Italia e nel mondo.
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Anteprima del libro
Storia di Cosa Nostra in Sicilia - Nicola Zarbo
Storia di Cosa Nostra in Sicilia
Dalle sue origini alla fine della Prima Repubblica
di Nicola Zarbo
Panda Edizioni
ISBN 9788893782852
© 2022 Panda Edizioni
www.pandaedizioni.it
info@pandaedizioni.it
Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell'editore. Nomi e marchi citati nel testo sono generalmente depositati o registrati dalle rispettive ditte produttrici o detentrici.
Scrivendo questo libro ho dovuto purtroppo elencare i nomi di moltissimi innocenti che hanno lottato per la giustizia di tutti e sono stati uccisi dalla mafia.
Questo libro è dedicato a loro.
Onore a tutte le vittime di mafia!
"Credo a tutte le forme di studio,
di approfondimento e di protesta contro la mafia.
La mafiosità si nutre di una cultura e la diffonde:
la cultura dell’illegalità"
Pino Puglisi
La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine
Giovanni Falcone
Indice
Storia di Cosa Nostra in Sicilia 3
Prefazione 11
Premessa 13
Capitolo I – I caratteri originari 15
Etimologia del termine mafia
17
La cultura mafiosa come reazione alle dominazioni straniere 17
Il sicilianismo 18
L’ordinamento giuridico
della mafia 20
Il mito della mafia che amministra la giustizia 20
La violenza 21
L’omertà 23
I riti d’iniziazione 23
Mafia e consenso 25
Capitolo II – La mafia nel periodo successivo all’Unità d’Italia 27
Il fenomeno mafioso nell’Italia unita 29
Capitolo III – La mafia durante il fascismo 33
Il difficile insediamento del fascismo in Sicilia e l’appoggio della mafia 35
Mori il prefetto di ferro 39
La mafia non è sconfitta 45
Capitolo IV – La mafia e lo sbarco alleato 49
Arrivano gli americani! 51
L’AMGOT e le sue relazioni con i picciotti
in Sicilia 62
Capitolo V – Il separatismo, il banditismo e la folgorante ripresa della mafia 71
Il Separatismo 73
Il Banditismo 90
La folgorante ripresa della mafia 104
Capitolo VI – Il 1946 in Sicilia tra Autonomia e Referendum 119
La nascita della Sicilia Autonoma 121
2 Giugno 1946: Monarchia o Repubblica? 129
Capitolo VII – Le elezioni regionali, le stragi e le elezioni nazionali 135
20 aprile 1947, le elezioni regionali 137
La banda Giuliano, Portella della Ginestra, la guerra
ai comunisti e la fine del bandito 146
Le elezioni nazionali del 1948: la mafia si schiera 171
Capitolo VIII – Il movimento contadino, la riforma agraria e la trasformazione della mafia 189
Il movimento contadino e la riforma agraria 191
La mafia si trasforma 202
Capitolo IX – Il sacco di Palermo, l’affare Milazzo e la prima guerra di mafia 209
Il sacco di Palermo e l’affare Milazzo 211
La prima guerra di mafia 225
Capitolo X – Lo Stato reagisce 229
La mafia negli anni Settanta 231
La seconda guerra di mafia (1978 – 1983) 236
Carlo Alberto Dalla Chiesa in Sicilia 242
Dall’alto commissariato all’articolo 416 bis del Codice Penale 250
Il pool antimafia 253
Il pentitismo 256
Il maxi processo e la fine del pool 262
Capitolo XI – Gli anni delle stragi e il terrorismo mafioso: fu solo mafia? 265
L’attentato all’Addaura 267
Gli anni ’90: le stragi 269
L’attacco terrorista mafioso 275
Capitolo XII – Mafia e politica da Andreotti a Dell’Utri 281
I processi agli uomini dello Stato 283
Conclusioni 287
Ringraziamenti 292
Bibliografia 293
Fonti documentarie primarie 294
Articoli da riviste 294
Testi 295
Sitografia 299
Prefazione
Di libri sulla mafia sicuramente ne sono stati scritti tanti. E allora perché proporne ai lettori un altro e quali motivazioni addurre per poterli invogliare alla lettura?
Leggendo il testo appena finito, Storia di Cosa Nostra in Sicilia, per esprimere una mia opinione, di motivi ne ho trovati e anche validi.
Innanzitutto l’Autore con semplicità, ma con una precisa esposizione storica dei fatti, affronta un problema, ahimè! ancora presente nella nostra società… la mafia. Di tale subdolo e multiforme fenomeno organizzativo l’Autore ne traccia un quadro che va dalle origini alla fine della Prima Repubblica, mettendo in evidenza i caratteri originari di tale organizzazione e gli adattamenti che essa ha attuato in seguito al mutare della società e della politica. Un quadro supportato da fonti, da dati, da testimonianze che riescono, seppur nella specificità storica del saggio, a rendere un quadro chiaro ed esaustivo, ma soprattutto fruibile a tutti: a chi voglia approcciarsi al problema mafia
per la prima volta, come potrebbe essere lo studente o a chi, esperto conoscitore del problema, voglia riprendere o rivedere speditamente alcuni aspetti all’interno di un certo periodo storico (grazie all’agevole ordine cronologico dei capitoli).
A mio avviso, è rilevante anche il punto di vista dell’Autore: storico per formazione, uomo di giustizia
per professione. E soprattutto in questa ultima veste ha contezza quotidianamente delle scelleratezze che Cosa Nostra continua a perpetrare.
È un saggio che parla di mafia, ma anche di giustizia
, un valore per cui molti uomini, illustri e non, hanno combattuto e spesso perduto la vita. Ed è proprio attraverso il ricordo di questi uomini (proprio quest’anno ricorre il trentennale della morte dei giudici G. Falcone e P. Borsellino) che si deve formare nei giovani, futuri adulti, la cultura della giustizia e della legalità e insegnare che, sia da grandi sia da piccoli, nella vita di tutti i giorni bisogna combattere questo cancro
della società.
C.L.
Premessa
Il 23 maggio 2022 inizieranno le commemorazioni per il trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, un’occasione per riflettere sul fatto che da più parti e da qualche tempo è maturata la coscienza che le mafie non possono essere considerate soltanto un problema di ordine pubblico e di carattere criminale: le mafie costituiscono un problema nazionale e internazionale che riguarda tutta la società. La penetrazione delle organizzazioni mafiose in taluni gangli vitali dell’economia, i loro rapporti con settori inquinati della politica e della pubblica amministrazione, costituiscono non solo un ostacolo allo sviluppo economico, ma anche un attentato alla libertà e alla dignità di ogni individuo, con una sospensione di fatto delle regole democratiche. Le mafie rappresentano un pericolo perché minano le basi della democrazia, del mercato e della convivenza civile. È l’intero Paese economico, sociale e politico a essere interessato dal fenomeno mafioso e ciò deve rendere i giovani consapevoli dei rischi legati alla presenza del crimine organizzato e mafioso, al fine di riconoscerne e contrastarne gli effetti che minacciano il loro futuro.
Per questo ho inteso fornire soprattutto ai giovani, ma anche al lettore interessato che vuole introdursi nella questione in modo facile e diretto, ma con rigore storiografico cioè con il puntuale richiamo ai fatti e ai documenti, un volume agile e, spero, esaustivo.
La prima parte del saggio fornisce al lettore gli strumenti per comprendere i caratteri originari della mafia, i modelli di relazione con la politica che essa attiva nel tempo e i suoi processi di adattamento al mutare della realtà interna e internazionale. Non entra nel dettaglio dei singoli eventi, se non taluni, scelti come emblematici del fenomeno mafioso, ma disegna la natura profonda e complessa di Cosa nostra analizzata in chiave evolutiva.
Il racconto poi si snoda in modo prettamente storico. Partendo dalle prime indagini e percezioni della criminalità come si manifesta nella realtà siciliana subito dopo la proclamazione dell’Unità, giunge fino alla cosiddetta fine della Prima Repubblica
.
È speranza dell’autore che questo volume, che racconta di eroi, di mediocri e di miserabili, come accade a ogni storia, contribuisca a formare nei giovani la cultura della legalità che è un bene prezioso e condizione irrinunciabile della civile convivenza e della crescita democratica del Paese.
Al di là di tutto, la riflessione storica serena e attenta su questi temi è, a mio avviso, il miglior omaggio che potessi fare all’Italia e ai giovani. Nelle future generazioni si esprime la voce della società contro condizionamenti illeciti, intrighi, prepotenze, violenza sopraffattrice; la voce dell’Italia che chiede che tutti e ovunque possano sentirsi realmente e pienamente liberi nelle proprie scelte e nelle proprie iniziative. In definitiva, la voce della civiltà e della storia.
Capitolo I
I caratteri originari
Etimologia del termine mafia
Le origini della mafia sono di difficile collocazione nel tempo. Altrettanto incerta è l’etimologia del termine mafia
. Per quanto riguarda l’etimo è probabile che si tratti di un termine di derivazione araba. Tuttavia, non è certo che sia l’adattamento dialettale di "mahias", che indica in arabo spavalderia e prepotenza; ovvero di màha
che erano le cave usate come rifugi dai saraceni; ma abbiamo anche la parola Ma afir
che era la stirpe saracena dominante a Palermo e infine il vocabolo maha^fat^
che indica immunità o impunità. Ma al di là dell’aspetto terminologico, sarebbe arduo ricondurre l’origine della mafia al dominio arabo che si conclude fra il 1072, data della conquista normanna di Palermo e il 1091, caduta di Noto.
La cultura mafiosa come reazione alle dominazioni straniere
Eppure esiste un carattere della cultura mafiosa, intesa come atteggiamento mentale e condotta, non come organizzazione, che è riconducibile non direttamente alla cultura saracena, quanto piuttosto alla cultura e alla popolazione siciliana nel corso di secoli di dominazioni straniere. Si tratta di un dominio molto più lungo degli otto secoli che trascorrono dalla fine dell’emirato in Sicilia fino all’Unità d’Italia. L’emirato, anzi, per due secoli e mezzo assicurò una relativa autonomia all’isola nonché un periodo di splendore culturale e artistico.
Prima degli Arabi, infatti, la Sicilia era stata governata per tre secoli direttamente da Costantinopoli come demanio imperiale. Dopo la fine della storia dell’emirato, prima i Normanni, poi gli Angioini (che avevano il torto di aver trasferito la capitale del regno a Napoli considerando la Sicilia una mera provincia!); quindi gli Aragonesi e infine, in epoca moderna, i Borboni imposero all’isola il proprio dominio. Ferdinando III, nel 1816, in piena Restaurazione, tolse alla Sicilia il carattere di regno autonomo, riunificandola al Regno delle due Sicilie, abolendo contestualmente libertà, franchigie e le autonomie di cui godeva da secoli l’isola.
Al dominio diretto da Napoli si ricollegò la diffusione di un ribellismo locale che, soprattutto nel territorio del palermitano, si manifestò con caratteri indipendentistici. La stessa rivoluzione del 1848 che infiammò l’Europa, mosse proprio da Palermo, il 12 gennaio, prima dei moti parigini.
La cultura dell’identità autoctona da preservare contro le imposizioni di un ordine politico comunque estraneo e percepito come prevaricatore ha concorso a dare alla mafia delle origini un profilo che ne ha favorito l’insediamento sociale e l’acquisizione del consenso.
Il sicilianismo
Due passaggi storici concorrono a porre le basi della storia della Sicilia nell’età contemporanea e quindi anche di questo aspetto di scadimento morale della sua storia che è costituito dalla mafia. Del primo, la perdita dell’autonomia siciliana nel 1816, ho fatto cenno sopra. Il secondo riguarda la fine della feudalità, nel 1812, che rappresentò in tutta Europa un passaggio chiave dell’epoca moderna, ossia la costruzione dello Stato moderno, che in Sicilia, però, fu fittizio.
Infatti la trasformazione del feudo in proprietà privata degli ex feudatari da un lato rafforzò il latifondo e le tradizionali élite dominanti siciliane, d’altro lato contribuì a fare di questo il luogo privilegiato di difesa dell’identità siciliana. Quindi, se il sicilianismo come identità culturale costruita in opposizione alle imposizioni politiche e culturali estranee ha una lunga storia, esso si è consolidato nell’ultima fase del periodo borbonico, quella nella quale la mafia si è manifestata come realtà contemporanea.
Questo non deve farci pensare che fra sicilianismo e mafia esista corrispondenza ovvero fusione. Significa piuttosto che nei secoli si è consolidata in Sicilia una sub cultura dell’identità siciliana, fatta di modelli culturali e comportamentali e di comunicazione verbale e non verbale, che concorre a spiegare alcuni modelli dell’essere mafioso il cui simbolismo è condiviso dalla cultura siciliana¹ .
Nel libro intervista in riferimento, pubblicato dal magistrato poco prima del suo assassinio, abbiamo un dialogo con il pentito Tommaso Buscetta, forse il pentito più famoso, che contribuì a dare all’organizzazione mafiosa un colpo durissimo durante quello che fu definito il maxiprocesso
.
Nel dialogo con Buscetta, Falcone rovesciava in positivo i valori della sicilianità, opponendoli a quelli della mafia che erano disvalori. Buscetta accoglieva in parte le tesi del magistrato, seguendo il filo del confronto fra vecchia e nuova mafia.
Quest’ultima secondo la tesi non condivisibile del mafioso, era la responsabile del narcotraffico con le sue conseguenze perverse nella distruzione delle vite, soprattutto dei giovani, e quindi anche della corruzione di se stessa. Infatti, Buscetta non si dichiarava pentito, ma sosteneva invece che la nuova mafia aveva perso il senso dell’onore posseduto invece dalla vecchia, cui egli dichiarava di appartenere. Al contrario Falcone riuscì con semplicità a dimostrare che l’onore, come espressione positiva della sicilianità, era stato distorto e deviato dalla mafia di ogni epoca, senza distinzione fra vecchia e nuova.
L’ordinamento giuridico
della mafia
La lunga storia di dominazioni straniere ha anche concorso a rafforzare nei secoli una cultura giuridica che si avvale di regole informali, non scritte, ma che si considerano autonome e contrapposte a quelle dello Stato considerato dominatore.
Sotto questo aspetto, parlare di mafia come ordinamento giuridico
autonomo, nei tempi nei quali la mafia agraria, quella legata al latifondo, era ancora la forma dominante della mafia in quanto espressione della realtà economica siciliana. La definizione delle norme di comportamento e delle sanzioni di comportamenti difformi da queste sono propri di un ordinamento giuridico. In quest’ottica interpretativa, che ha un fondamento storico ma che rischia di dare della mafia un’immagine romantica, l’ordinamento giuridico mafioso si sarebbe sviluppato in contrapposizione a quello statuale, o perché rigettato dai siciliani in quanto imposizione dello straniero o perché esso non garantiva la giustizia ovvero per ambedue i motivi.
Vale la regola che quello Stato parallelo
che sente di essere l’organizzazione mafiosa è di norma tanto più aggressivo e invasivo verso lo Stato quanto più questo è debole.
Il mito della mafia che amministra la giustizia
Rientra sempre nell’immagine romantica, ma traviante della mafia, il mito del debole che subisce il sopruso e che, non ottenendo giustizia dalle forze di polizia o dai tribunali, vale a dire dallo Stato, la chiede e la ottiene dal padrino
, che si presenta come garante dell’ordine mafioso, che, facendo giustizia e proteggendo i deboli, lo ripristina.
Ma si tratta, come dicevo, di un’immagine romantica e forviante della giustizia
, perché la mafia è essa stessa un sistema di potere e in quanto tale esprime regole e sanzioni funzionali alla propria conservazione, ai propri interessi e affari illegali e quindi nella realtà un sistema volto alla sopraffazione.
Ha quindi un fondamento storico percepire nelle regole della mafia ottocentesca un inserimento nel tessuto sociale siciliano dovuto alla negata giustizia. Ma è sempre necessario distinguere tra l’organizzazione interna della mafia, che la stessa ha cercato di sviluppare e rendere stabile via via che è cresciuta, e la sua proiezione all’esterno. L’organizzazione rappresenta i caratteri interni di un’associazione criminosa, mentre la sua proiezione all’esterno diviene, grazie al coinvolgimento della società civile esterna agli affiliati, ossia agli uomini d’onore
, base e strumento di controllo del territorio che altera e piega ai propri fini di dominio.
La violenza
Quanto all’uso della forza come strumento sanzionatorio della devianza, che nell’ordine statuale moderno è attribuito in via esclusiva alle forze di polizia e alla magistratura, va ricordato che il feudo era un’organizzazione del potere nel quale il feudatario deteneva fra le proprie funzioni anche quella della giurisdizione della sanzione.
Come ho ricordato sopra, in Sicilia, il feudo si trasforma con il consenso dei baroni in proprietà privata, nel 1812, secondo quanto previsto dal codice napoleonico, ma non viene eliminato né dalle riforme napoleoniche né dall’impatto sociale di rivoluzioni politiche, perché la spedizione dei Mille prima, i plebisciti e il trasferimento dei poteri allo Stato centralizzato, poi, non modificarono il regime feudale.
La figura dei militi a cavallo che erano una polizia rurale formalmente pubblica, ma di fatto dipendente dal gabellotto² , cioè dall’amministrazione del feudo, riservava a quest’ultimo l’uso della violenza che si sviluppava secondo gerarchie sociali ben precise. Pertanto, la borghesia di mentalità mafiosa rappresentata dal suddetto gabellotto era dotata di uno strumento che piegava l’uso della forza a fini di parte, ossia alla conservazione di quest’ordine sociale. In questo, la base della piramide feudale siciliana, ossia il bracciante, che avrebbe potuto costituire la classe pericolosa, vale a dire quella che aveva tutto l'interesse alla ribellione perché non aveva nulla da perdere, era messo nelle condizioni di non sollevarsi.
Al milite si aggiungeva la figura del campiere³ : questa era una figura anche formalmente privata, di controllo dell’ordine e dell’esecuzione del lavoro che nel tempo ha alimentato la cosiddetta bassa mafia.
Il campiere originario delle classi subalterne dei rurali, rivestendo questo incarico, si è così liberato dal lavoro manuale, diventando l’ultimo anello della catena della gerarchia mafiosa, nella quale il barone, ossia l’ex feudatario, il vertice, si può configurare in certe circostanze come connivente, e in altre come ricattato e assoggettato alla volontà del gabellotto che detiene il controllo dell’uso della violenza attraverso la manovalanza della bassa mafia.
Così si vengono a delineare i tre livelli della gerarchia mafiosa come li conosciamo nell’antico feudo.
L’omertà
In questo quadro giuridico anomalo nel quale non riesce ad affermarsi, soprattutto nella mentalità collettiva ancor prima che nel corretto funzionamento delle sue istituzioni, la giustizia di uno Stato con le caratteristiche della modernità, l’omertà diviene molto più di un comportamento imposto dal timore della violenza dei potenti. Essa si viene configurando come un vero e proprio istituto giuridico di protezione, facente parte di un ordinamento giuridico ufficioso, quello mafioso, che si contrappone a quello ufficiale e universale, ma nel quale non si ha fiducia, ovvero quello dello Stato.
Successivamente, col passare del tempo, quando l’organizzazione mafiosa si struttura e rende sempre più diffusa la propria presenza sul territorio, l’omertà diventa in via prevalente o addirittura esclusiva uno strumento di autotutela, inculcata dalla paura della violenza che potrebbe subire la persona interessata e i suoi parenti se rompesse il patto omertoso.
Di fatto, il patto omertoso viene rotto piuttosto dall’uomo d’onore
che diventa collaboratore di giustizia e non dal comune cittadino. La rottura di questo patto risponde a cause diverse, ma riconducibili in generale alla categoria della lotta di potere all’interno dell’organizzazione mafiosa.
I riti d’iniziazione
Il rito d’iniziazione produce l’uomo d’onore
, ossia l’affiliato che aderisce alle regole dell’organizzazione, le condivide ed è vincolato a rispettarle.
Questi riti d’ingresso non sono esclusivi dell’organizzazione mafiosa ma sono propri di tutte le organizzazioni segrete, che si sono sviluppate nell’età moderna e sono funzionali a garantire la solidarietà fra gli iscritti, il mutuo soccorso e la difesa dagli attacchi esterni.
Essi sono diretti a sottolineare la distinzione fra gli eletti
, gli affiliati e i non appartenenti. Sono altresì funzionali a conferire il senso del legame e il conforto della protezione del gruppo, nonché l’appartenenza a un’élite superiore.
Nel caso in questione, l’organizzazione criminale Cosa nostra
, i riti sono anche adatti a garantire la preventiva accettazione di tutte le attività illecite e criminali commesse o commissionate e dalle quali l’affiliato non può dissociarsi, sia che ne venga a conoscenza sia che ne sia effettivamente partecipe.
La soglia d’entrata, una volta varcata in senso simbolico, è una barriera che non permette all’affiliato di uscirne fino alla morte, infatti qualsiasi tentativo di uscita unilaterale comporta la condanna a morte del traditore.
Eppure, non è da dimenticare che l’accesso all’organizzazione, il diventare uomo d’onore
è motivo di elevazione sociale per l’affiliato proveniente dai ceti subalterni.
Cosa nostra
quindi garantisce una mobilità sociale di tipo verticale che nelle società arretrate è molto difficile e anche questo è un forte motivo di attrazione di nuovi adepti.
Una citazione merita anche l’uso di immagini sacre nei processi di affiliazione, generalmente ricorrenti con qualche variazione. Questa consuetudine va ricondotta alla natura tradizionalistica della mafia e ancora di più al fatto che il richiamo, distorto, a principi e valori religiosi di consuetudine familiare deve essere percepito dal mafioso come non contrario alla propria attività criminosa. Questo passaggio è fondamentale perché l’affiliato e la sua famiglia si debbano sentire del tutto compatibili con i riti religiosi fortemente diffusi nella società dell’isola.
Mafia e consenso
La legislazione sul pentitismo
per i reati di mafia, è stata introdotta in Italia nel 1991 ed è stata funzionale a rompere la barriera di omertà citata. Tuttavia essa riguardava l’esponente, grande o piccolo, della mafia che una volta arrestato poteva ottenere sconti di pena o essere inserito in un programma di protezione se avesse dato alla giustizia utili informazioni per colpire l’organizzazione mafiosa. Si tratta di un utile strumento di lotta per lo Stato, ma non è sufficiente a garantire il contenimento del controllo del territorio da parte della mafia, finché non siano i singoli cittadini a rompere il muro dell’omertà denunciando le violenze, i soprusi e le minacce ricevute.
Purtroppo la rottura di questo muro di omertà è ostacolato dalla mafia anche con mezzi non violenti, ma ricollegabili a metodi per acquisire il consenso nella società civile. Fra questi, per esempio, il fatto che la mafia si presenta come datore di lavoro laddove la disoccupazione è elevata, facendo dimenticare che essa è, a sua volta, conseguenza dello sperpero della ricchezza e della dissuasione dall’intraprendere attività imprenditoriali oneste causata dalla mafia stessa.
La mafia mette in atto tutti i mezzi per penetrare nella società civile. Accanto agli uomini d’onore
, infatti, operano una moltitudine di fiancheggiatori, collaterali, collusi, dipendenti, obbligati, amici
e compari
legati da rapporti di tipo diverso, di presunto obbligo di lealtà o di debito o addirittura parentali, verso la famiglia
mafiosa.
Questo è l’habitat perfetto per far crescere e prosperare la mafia garantendole non solo la sua forza, ma addirittura la sua sopravvivenza. Non sono le migliaia di affiliati in Sicilia che fanno la forza di "Cosa nostra", ma il contesto sociale ampio e consapevolmente o inconsapevolmente solidale. Solo un cambio di scenario radicale può determinare la sua sconfitta.
Capitolo II
La mafia nel periodo successivo all’Unità d’Italia
Il fenomeno mafioso nell’Italia unita
Con l’Unità d’Italia, la questione meridionale
si palesò in tutta la gravità e complessità. Le impressioni dei primi luogotenenti inviati da Cavour e poi da Ricasoli furono molto negative. Questa è Africa!
scriveva, il 27 ottobre 1860, Carlo Farini inviato da Cavour a Napoli e ancora sempre il Farini, il 12 novembre 1860 scriveva: "Tutto è sfasciato, l’esercito, la finanza, il costume come il carattere."
L’amministrazione dell’isola, in ogni suo settore, era gestita da soggetti che abusavano della loro posizione per portare avanti i propri interessi; la giustizia non veniva amministrata correttamente. I magistrati temevano per la loro vita, i testimoni si rifiutavano di deporre per paura di ritorsioni e i sindaci partecipavano ai delitti e contribuivano a ingannare il governo⁴ .
Le condizioni del popolo, trascurato per decenni dai Borboni, erano pessime. L’ordine pubblico, poi, era in uno stato vergognoso: risse, vendette e omicidi rendevano insicuri e pericolosi vasti territori.
Nel rapporto del Diomede Pantaleoni, inviato in Sicilia da Bettino Ricasoli per analizzare la situazione siciliana, si descrive minuziosamente lo stato dell’isola, per la quale si richiede una maggiore attenzione rispetto alle altre province meridionali continentali perché, staccata dall’Italia, ha sempre avuto una maggiore autonomia.
La parte più interessante del rapporto è quella dedicata alla mancanza di pubblica sicurezza. Le autorità avevano grosse difficoltà nel punire i criminali, pur conoscendone il nome, a causa dell’atteggiamento omertoso delle vittime e della popolazione in genere.
Il nuovo Stato si trovava di fronte a un fenomeno nuovo che di lì a poco verrà