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Io voglio vivere
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E-book135 pagine1 ora

Io voglio vivere

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Info su questo ebook

…nessuno si salva da solo…”

Dona è un paesino sconosciuto dell’hinterland Milanese.
È qui che Luca, giovane romano, andrà a vivere dopo aver ricevuto, da un nonno che non aveva mai conosciuto, un’eredità inaspettata.
In questo piccolo centro abitato, composto da polvere ed anziani, Luca farà amicizie insolite e scoperte che gli lasceranno un segno.
La sua visione della vita cambierà radicalmente. Dona diventerà l’epicentro della vita di Luca e viceversa.
La pandemia però, entrerà a gamba tesa nella sua vita e in quella di tutto il paese.
Dovrà quindi lottare contro il tempo e contro il virus, per provare ad aiutare i suoi nuovi amici e quel piccolo borgo.
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2021
ISBN9791220821513

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    Anteprima del libro

    Io voglio vivere - Luciano Natali

    LA TRASFERTA INASPETTATA

    Era una calda domenica romana di ottobre. A tavola c’erano gli avanzi del pranzo: il pollo arrosto con le patate e la cicoria, che nessuno toccava mai, ma mia madre era attenta ad eliminare tutte le prove all’istante. In modo furtivo e lontano da occhi indiscreti. La luce accecante del sole attraversava il salone e una leggera brezza invadeva la casa dalla finestra aperta. Io e papà indossavamo le maglie, rigorosamente ufficiali, delle nostre squadre del cuore: Roma e Inter. Stavamo per andare allo stadio. Mio padre aveva la maglia a strisce nerazzurre con il tricolore sul petto; era di qualche anno prima, ma l’ostentava con tanto ardore. Io indossavo la maglia rossa, con i bordi giallo ocra e le righine dell’Adidas sulle spalle, rigorosamente numero 10, in onore del capitano Peppe Giannini. Quando giocavo a calcio con gli amici sotto casa, al campetto o nel cortile della scuola, provavo a ripetere i suoi movimenti sinuosi e il suo tocco sopraffino. Invano però, ero veramente impedito!

    Era tutto pronto per il nostro scontro epico. La mamma era intenta a mettermi il cappotto. Sentivo già nella mia testa il battere dei tamburi dalla curva, quei colori, i cori e quell’elettricità nell’aria. Ma ecco, che come in un tackle scivolata sulle caviglie, lo squillo inconfondibile del telefono di casa squarciò le nostre anime. Chi sarà mai…?

    Papà brontolò a voce bassa:

    «Sarà zia Carla, quella lì chiama a tutte le ore.»

    Io, invece, rimasi a scrutare le espressioni di mamma: la vidi rispondere sorridente, poi farsi seria, pian piano incupirsi sempre di più, fino alle lacrime. Avevo solo otto anni, ma che fosse successo qualcosa di brutto lo avevo intuito.

    Nonna Adele, la mamma di papà, se ne era andata: aveva appena sessant’anni. Mi raccontarono che fosse malata da tempo. Quindi, addio stadio e partita! Da bambini non si ha la concezione del lutto. Non si comprende l’importanza dei valori come la vita. Non si da peso alla morte. Era del tutto normale, che in quel contesto fossi deluso per essere rimasto a casa. Tanto più, se la persona scomparsa, era una perfetta sconosciuta; infatti, i nonni dalla parte di papà, non li avevo mai conosciuti. Vivevano a Dona, un paesino ignoto al mondo a pochi chilometri da Milano. Sono nati e hanno sempre vissuto lì. Anche il loro unico figlio Giuseppe, mio padre, era nato e vissuto lì. Almeno fino al giorno in cui ha conosciuto Elena, mia madre, durante una vacanza a Roma con gli amici. Da allora, a parte qualche rara eccezione, non aveva più messo piede a Dona.

    Il cappotto lo avevo già infilato, il tempo per mamma di prepararmi la borsa e in tre minuti mi ritrovai in macchina, una Fiat Ritmo bianca, la macchina di famiglia. Mio padre la trattava come una figlia, la teneva pulitissima, sempre tagliandata, ci mancava solo che gli desse il mio letto!

    Avevo tutto il necessario per il lungo viaggio: walkman con antenna in FM incorporata, batterie di ricambio e una decina di audiocassette: da Jovanotti for president, all’immancabile Venditti e segreti.

    Quello che non avevo capito, era che i miei genitori volevano lasciarmi dalla zia Carla, la sorella di mia madre; infatti, nel momento in cui arrivammo a Largo delle sette chiese, alla Garbatella, chiesi subito lumi sulla faccenda:

    «Perché siamo da zia Carla?», domandai con gli occhi fissi su mia madre.

    «Senti Luchino…»

    «Niente Luchino…», odiavo i diminutivi! Mi avete chiamato Luca? Chiamatemi Luca!

    «Ok, Luca. Non possiamo portarti con noi, è una situazione delicata capisci? È una cosa da grandi.»

    Sì, è vero, avevo solo otto anni, ma ero molto precoce. Sapevo già leggere e scrivere correntemente, parlavo fluidamente, forse anche troppo. Tanto è vero che a volte, dovevano mettermi un freno. Avevo il vizio di infilarmi in ogni conversazione, anche tra adulti. Non lo facevo con sgarbo o mal intenzione, ma se c’era la possibilità volevo dire la mia. E lo feci anche quel giorno in macchina.

    «Mamma, per favore, non scherziamo, io vengo con voi. Da zia Carla non ci voglio andare!»

    Gli sguardi dei miei genitori si incrociarono per un istante, rassegnati. Ci provò mio padre a convincermi con la sua voce rassicurante e pacata:

    «Luca. Dai, sono solo un paio di giorni. Vedrai che ti diverti dalla zia.»

    Le volevo bene certo, come ne volevo alle sue gote eccessivamente rosse, al suo dannato rossetto violaceo che si stampava ogni volta sulla mia fronte e al disgustoso odore di Marlboro perennemente sui suoi vestiti. Il vero problema, paradossalmente, era la sua casa. Io odiavo tutto di essa: i tre gatti, il telo di plastica alle poltrone, l’odore di naftalina nelle stanze, dover camminare con le pattine sulla cera e non avere il minimo passatempo. Quindi, non mi restava molta scelta, o lo scontro, o lo scontro.

    «Ma certo papà, non vedo l’ora di divertirmi…»

    «Oh, bene. Prendo la borsa…» Non colse assolutamente il sarcasmo della mia affermazione, tant’è che la mamma iniziò a ridere sotto i baffi. Si girò di nuovo per guardarmi e, non appena il suo sguardo incrociò il mio, senza esitazione, lo incalzai:

    «Io non ci vado da zia. Punto! E poi voglio conoscere il nonno. Dai partiamo che sta iniziando la partita, devo accendere la radio!» Girai la testa dall’altra parte, misi le cuffie e game over!

    Durante il viaggio, guardavo i miei, in particolare mio padre, classico milanese: alto, con i suoi occhi verdi e i capelli fini castani, rigorosamente pettinati da una parte. Faceva l’impiegato alle Poste, non il posto che aveva sognato di ottenere con la sua laurea in Economia, ma era ancora giovane, aveva tutto il tempo per fare carriera. Intanto era riuscito a prendere un mutuo per comprare la nostra casa a Monteverde. Mia madre, invece, era una bella ragazza romana: mora, con gli occhi neri come la pece. Non aveva finito gli studi universitari a causa della mia nascita, ma con il suo diploma di ragioneria, era riuscita a trovare un posto come contabile, in uno studio di commercialisti.

    Dopo sette ore di viaggio, la situazione era la seguente: mamma e papà, che avevano parlato per tutto il viaggio dell’organizzazione del funerale e di come avrebbero dovuto affrontare il nonno, erano stremati, mentre io ero in uno stato di euforia totale perché la mia Roma aveva vinto 4-1 contro l’Inter e Giannini aveva segnato il terzo gol! Dulcis in fundo, ero pure riuscito ad ascoltare sia i lati A che B di tutte le cassette che avevo portato con me, senza che mi lasciassero a piedi le batterie!

    Insomma, il viaggio perfetto!

    Non appena arrivati, i miei, mi fecero il discorsetto sul rispetto per il dolore e la tristezza che papà stava provando. In pratica, mi chiesero di stare buono e in silenzio.

    In realtà, non eravamo ancora arrivati a casa di nonno. Ci fermammo in un bellissimo posto, con un giardino enorme, una fontana maestosa e alberi secolari: sembrava proprio un paradiso! Ma forse le suore vestite di bianco in quel contesto condizionarono un po’ il mio pensiero. I miei, si appartarono a parlare con una di loro per qualche minuto. Poi, dopo aver preso delle valige, le caricarono in macchina e ce ne andammo. Una volta giunti a casa del nonno, mi trovai di fronte uno scenario da film thriller. Ancora oggi è impressa nella mia mente l’immagine dei miei sulla soglia del salone: testa bassa e sguardo fisso a terra. Sembrava stessero guardandosi le scarpe. Erano terrorizzati da lui. La tensione si poteva tagliare come un panetto di burro con il coltello. Nessuno proferiva parola. Così, mentre me ne stavo in religioso silenzio in un angolo della stanza, nonno Luigi mi guardò, accennò un sorriso, e mi chiamò a sé:

    «Luca! Vieni a salutare il nonno!»

    Diedi un ennesimo sguardo ai miei, ma sembravano di cera. Lo guardai bene il nonno. A me non faceva paura, anzi, mi sembrava un uomo buono, un po’ stanco, con le mani rovinate e gli occhi gonfi: aveva pianto molto per la morte della nonna. Aveva delle sopracciglia enormi, le orecchie larghe e il naso a punta, che lo facevano somigliare a Scrooge. Le rughe del suo viso erano come dei solchi arati dal tempo e dalle fatiche di questo "villàn [1] ." Lo abbracciai e lo baciai. Lui mi sistemò il giacchetto, vide che sotto indossavo la maglia della Roma, sorrise, mi pizzicò la guancia destra e disse:

    «Uè, hai visto il Giannini oggi? Quattro pappine ai bauscia [2]. Sei contento?» Mostrai un sorriso da ottantadue denti e risposi:

    «Sì nonno, sono molto contento.» Poi mise la mano in tasca e frugando tra le monete, ne tirò fuori due da cinquecento lire.

    «Vai con Andrea, il nipote dei vicini, prendete il gelato e pagalo tu per tutti e due. Sii generoso, sei in trasferta qui!» Strizzò l’occhio come cenno d’intesa. Presi le monete, ringraziai, gli diedi un bacio, lui mi prese il braccio e con lo sguardo serio mi disse: «Fa ballaa l’oeucc, me racomandi [3]!»

    Feci un cenno di assenso con la testa e corsi via verso la porta per cercare Andrea. Passai accanto alle due statue di cera all’ingresso del salone, il loro sguardo era ancora fisso a terra. Uscii nel cortile e vidi un bambino. Su per giù la mia età, con lo sguardo triste, seduto da solo sull’uscio della casa di fronte. Aveva i capelli ricci rossi e un miliardo di lentiggini in faccia. Indossava una maglia del Milan di almeno due taglie più grandi della sua e aveva un pallone in mano. Immaginai che fosse Andrea, mi avvicinai a lui e gli chiesi:

    «Ciao. Sei tu Andrea?» Il suo volto si aprì come una rosa al sorgere del sole.

    «Son Mì! Ti te se Luca?» Pensai, Ma come parla?

    «Sì, sono io. Ti va un gelato?»

    «Certo, ma devo chiedere alla mamma. Torno subito…»

    Entrò in casa, mi voltai a

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