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Fringuella
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E-book129 pagine1 ora

Fringuella

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Info su questo ebook

L’infanzia a Taranto nel Ventennio, flash ripercorsi da una donna 93enne dallo spirito battagliero. Basta un niente, e un fiume di ricordi è pronto a tornare con prepotenza, travolgendola. Suo figlio la ascolta affascinato da quei racconti sempre nitidi. Fringuella è nato così: ascoltando la madre improvvisare “una delle sue solite scorribande a ritroso nel tempo”. Tursi, giornalista professionista, usando l’esperienza di chi con la cronaca si misura ogni giorno, ha fatto diventare un romanzo la storia di una bimba che nel 1934 aveva sette anni.
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2022
ISBN9788869601439
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    Anteprima del libro

    Fringuella - Michele Tursi

    Fringuella_1770x2500.jpgfrontespizioLogo Altrimedia

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    Titolo dell’opera:

    FRINGUELLA

    © 2021 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869601439

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Gennaio 2022

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Quando avevo un’età così tenera

    che il mio lessico era composto

    dai suoni della fame e del sonno,

    io sapevo già di essere stato

    un vagabondo delle stelle.

    Jack London

    INTRODUZIONE

    Finora ho vissuto la mia vita senza guerre. Senza guerre all’interno dei confini nazionali, intendo. Tutt’intorno conflitti ce ne sono stati e ce ne sono. Ma la guerra in casa mai. Un lungo periodo di pace dopo un tragico evento bellico globale alimentato da folli ideologie.

    Ringrazio i miei nonni e i miei genitori per questo regalo. Loro hanno sofferto, hanno combattuto, sono sopravvissuti alle bombe. Sono stati testimoni dell’orrore e dell’abisso che aveva inghiottito l’umanità.

    I loro racconti, le storie, i cunti, sono un patrimonio prezioso. Tramandarli dovrebbe essere impegno collettivo, dovere civico. Senza memoria non c’è identità.

    La voglia, anzi il bisogno di raccontare è arrivato qualche anno fa ascoltando mia madre improvvisare una delle sue solite scorribande a ritroso nel tempo. Questo libro nasce così, poi diventa altro. Un romanzo con uno sfondo e un sottofondo reali colorato con innesti creativi.

    Grazie per essere qui e buona lettura.

    Il giovedì era dedicato al cimitero. Luccia, mia madre, è nata nel 1927, vive da sola e se la cava bene. La domenica cucina per tutti il suo celebre ragù con gli involtini.

    È vedova da quasi vent’ anni. Vincenzo, mio padre, se n’è andato all’alba del 5 aprile, il giorno del suo onomastico. La sera prima avevano mangiato insieme una focaccia e bevuto un bicchiere di birra. La mattina dopo fui svegliato alle sei da una telefonata. Mia madre in lacrime raccontava che papà si era sentito male ed era in ospedale con Margherita.

    Margherita è mia sorella. È medico e lavorava al Pronto Soccorso. Quando la videro arrivare con il papà in pigiama aggrappato al braccio, tutti si diedero un gran da fare.

    Il cuore era il punto debole di papà. Di attacchi ne aveva subiti altri ma, in qualche modo, li aveva superati. Stavolta la cosa sembrò subito seria. Mi fiondai in ospedale mentre mia moglie Daniela raggiunse mia madre per tranquillizzarla. Impresa non facile visto che Daniela era la prima a essere agitata.

    Vincenzo fu portato in Rianimazione, ma dopo alcuni tentativi il suo cuore cessò di battere una volta per tutte. Margherita assistette alla scena. Io salii le scale due alla volta. Arrivai in reparto mentre mia sorella riceveva le condoglianze dei colleghi. Si voltò verso di me. I nostri sguardi si incrociarono. Ci abbracciammo e piangemmo in silenzio. Papà era oltre il vetro, privo di vita, ancora intubato e collegato al respiratore artificiale.

    Per mamma il distacco fu straziante e nei primi mesi soffrì molto la solitudine. Però è una donna forte e di grande carattere. Aveva vissuto l’orrore della guerra e nella sua vita aveva combattuto contro molte avversità. Superò anche la scomparsa del marito a cui restò legata da un amore eterno che nulla avrebbe mai scalfito.

    Io abito poco distante dalla casa di mia madre e ogni giorno vado a trovarla. Pochi minuti, qualche parola, un giretto in casa per farle sgranchire un po’ le gambe. L’aiuto in qualche faccenda e poi la saluto. Il giovedì, però, era il giorno del cimitero. Passavo a prenderla poco dopo le 9. Lei si faceva trovare già pronta. Vestita a lutto. Mi aspettava dietro alla finestra. Appena uscivo dalla Opel mi faceva segno per avvertirmi che stava scendendo. In una busta di plastica sistemava l’occorrente per pulire la lapide e sistemare i fiori sulla tomba dell’amato Vincenzo.

    «Ricorda, per papà solo garofani rossi» mi disse le prime volte che andavamo al cimitero. Mio padre era stato un socialista convinto. Per alcuni anni fu iscritto al partito. Fu un ammiratore di Pietro Nenni e Sandro Pertini ma, quando il Psi finì nelle mani di Craxi, lo abbandonò. Non gli piacevano le manie di grandezza e quel modo di fare da sbruffone. Si avvicinò al Pci di Berlinguer e cominciò a fare sindacato nella Cgil come delegato nella fabbrica di bibite in cui era operaio.

    Mio padre è sepolto in una grande cappella nella parte nuova del San Brunone che confina con lo sterminato parco minerali dello stabilimento siderurgico. In quella zona, muri e viali del camposanto sono rossastri come una vecchia foto in bianco e nero ormai seppiata. Da più di cinquant’anni polvere di ferro e carbone accompagnano i tarantini dalla fabbrica alla tomba.

    Quel giorno, durante il tragitto in auto parlammo di uno zio gravemente ammalato. Poi mi domandò se la domenica successiva avrei pranzato da lei. Voleva preparare un piatto tipicamente barese di cui papà era goloso e che anche a me piace molto: riso, patate e cozze.

    «Le cozze» disse «me le porta Pizzicone, le hanno appena raccolte e sono piene come pampanelle». Non risposi. Quella domenica, forse, sarei andato in gita in provincia di Lecce con alcuni amici.

    «Vabbè tu prepara tutto, poi vediamo» dissi «comunque anche se non veniamo da te, metti da parte la mia porzione che passo a prenderla».

    «Ah, cannaruto», fu il commento scherzoso di mamma.

    Parcheggiammo nello spiazzo vicino al cimitero. Il parcheggiatore abusivo ci vedeva ogni giovedì e ci riservava sempre lo stesso posto. All’uscita sarebbe stato ricompensato con 50 centesimi. Ci fermammo al chiosco del fioraio. Comprammo i garofani rossi e un mazzetto di nebbiolina. Ci avviammo all’ingresso. Mia mamma camminava di buon passo, però le piaceva darmi il braccio. Quando incrociava qualche amica della città vecchia, dopo i convenevoli, troncava sempre allo stesso modo: «Scusa commare, dobbiamo fare presto che Michele deve andare a lavorare» breve pausa «fa il giornalista».

    La commare di turno, superato lo stupore iniziale per la rivelazione, salutava frettolosamente per non essere d’intralcio. Subito dopo mamma si addentrava in ardite ricostruzioni snocciolando nomi, soprannomi e mestieri per spiegare il complesso intreccio di conoscenze o il grado di parentela con la signora appena incrociata o con il defunto a cui recava visita.

    Il giovedì c’era poca gente al cimitero. Appena arrivati, mamma salutava papà sfiorando la foto sulla lapide, portando poi le dita vicino alla bocca e facendo schioccare un bacio. Raccontava all’amato Vincenzo le novità di famiglia raccomandandosi di vegliare e proteggere i suoi cari, ma soprattutto me e mia sorella. Poi, mentre io cambiavo l’acqua e sistemavo i garofani, si sedeva su una sediolina pieghevole utilizzata da altre signore che però a quell’ora erano già andate via. Quando tutto era a posto, l’accompagnavo nel giro di saluti agli altri parenti defunti e ai conoscenti tumulati nella stessa cappella.

    Quello a cui mamma teneva di più era il fratello Vincenzo, detto nostromo. Questi, non solo era omonimo di papà, ma i due erano stati imbarcati insieme durante la ferma militare. Fu proprio grazie alla loro amicizia che mamma conobbe quel marinaio mingherlino che veniva da Bari.

    Uscimmo.

    «Che bel sole» disse mamma. Settembre stava per finire ma l’estate non ne voleva sapere di lasciare spazio all’autunno.

    «Questa è una giornata da mare», proseguì.

    Varcato il cancello, svoltai a sinistra per raggiungere l’auto. Mia madre, invece, tirò dritto.

    «La macchina sta da quella parte», feci notare spazientito.

    «Aspetta» rispose «andiamo dal fioraio devo fare una cosa».

    «Che devi fare?»

    «Devo comprare un mazzo di rose.»

    «Un mazzo di rose? E perché?»

    «Accompagnami» rispose «non abbiamo molto tempo».

    Guardai mia madre. I suoi occhi erano sfuggenti, camminava a testa bassa con passo veloce. Cosa nascondeva?

    «È il compleanno di qualcuno?» indagai attraversando la strada.

    «No», rispose, secca. Lo squillo del telefonino interruppe la conversazione. Era il direttore del giornale. Mi chiedeva di una riunione al porto in programma nel pomeriggio.

    «Che c’è, te ne devi andare?» domandò pronta a snocciolare la solita tiritera.

    «Ancora no, ma facciamo presto.»

    «Mamma mia, sempre di corsa con questi figli! Mi trattate come un robot. Mi muovete a comando: avanti, indietro, presto, è tardi.»

    Ci siamo, pensai, è arrivato il tormentone. Mia mamma, infatti, nonostante l’affetto sconfinato che nutriva per noi, ci rimproverava di dedicarle poco tempo e di metterle sempre fretta.

    «Ve ne approfittate che non c’è più papà. Noi andavamo dappertutto insieme. Ora sono vecchia, ma lo sai da giovane come mi chiamava mia madre?»

    Lo sapevo benissimo, l’avevo sentito ripetere milioni di volte.

    «Fringuella», risposi.

    «Sì, sì, Fringuella: ero paffutella, ma saltellavo come un uccellino.»

    Mentre parlava mi passò le prime tre rose scelte dal vaso. Continuò la selezione scartando i fiori con i petali rovinati e con le foglie ingiallite.

    «Na’ contale», disse dopo un po’. Erano dodici. Pagammo e riprendemmo a camminare. Per la seconda volta mi avviai in direzione dell’auto. Il parcheggiatore ci vide e si avvicinò pronunciando la frase di rito: «A piacere vostro dottò».

    «Ce li hai gli spiccioli?» disse mamma.

    «Sì» risposi estraendo dal taschino del jeans una moneta da cinquanta centesimi.

    «Ehi giovanotto» proseguì mia madre rivolta all’abusivo «sai dove sta il cimitero dei militari di guerra?»

    «Signora, dovete camminare altri venti metri e poi andare a sinistra. Si entra da quel cancello in ferro battuto», spiegò il parcheggiatore.

    Il mio stupore aumentava.

    «Insomma prima le rose, ora il cimitero dei caduti, vuoi spiegarmi cosa sta succedendo?»

    «A casa ti dirò tutto, ora accompagnami», fu la laconica risposta.

    Arrivammo all’ingresso. Il cancello sembrava chiuso ma spingendolo si aprì. Camminammo sul vialetto principale. Il terriccio amplificava il rumore dei nostri passi. La strada

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