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Onda di piena
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E-book263 pagine3 ore

Onda di piena

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Info su questo ebook

Estate 1966: Firenze non immagina la devastante alluvione che in autunno inonderà la città, e non lo immagina Paolo, tredici anni appena compiuti e la prospettiva delle vacanze colme di avventure con gli amici. Il caso lo farà inciampare in una conversazione misteriosa legata a suo padre, un uomo dalle ambizioni più grandi delle sue capacità. Indagando su questo segreto, Paolo innescherà una serie di eventi che culmineranno in un'onda di piena destinata a spazzare via la sua infanzia proprio come la furia dell'Arno travolgerà l'innocenza di un mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2022
ISBN9788832815597
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    Onda di piena - Cardi alessandra

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    - voci -

    Scatole Parlanti

    © Utterson s.r.l., Viterbo, 2022

    Scatole Parlanti

    Collana: Voci

    I edizione digitale: dicembre 2022

    ISBN: 978-88-3281-559-7

    Progetto di copertina: Luca Verduchi

    Progetto grafico interni: Stefano Frateiacci

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    www.scatoleparlanti.it

    Capitolo 1

    «Allora?» chiesi appena uscito dal portone di casa.

    «Calamai dice che li hanno messi fuori». La faccia del Mollino luccicava per il sudore.

    Senza dargli il tempo di riprendere fiato, presi a correre giù per via de’ Benci.

    Arrivai per primo a scuola, salii i gradini dell’ingresso a due a due; una selva di teste mi copriva la visuale e solo quando la folla si diradò un po’ riuscii a leggere gli scrutini.

    «Promossi!» urlai al Mollino che boccheggiava in fondo alla scalinata.

    «Davvero?» mormorò. Sembrava incredulo. «Non mi prendi in giro?».

    «Giuro!».

    La gioia mi rullava in petto.

    «E il Tigna?».

    «Pure lui».

    Sembrò un po’ deluso.

    I nomi dei bocciati erano scritti in rosso: Neri Giuliano e Colletti Carlo.

    Dante, il bidello della scuola, mi si avvicinò.

    «Ridi poco, a momenti bocciavano anche te, sai».

    Feci spallucce. Avevo davanti solo le vacanze: giornate luminose da mangiare una dietro l’altra senza neanche sputare il nocciolo.

    Era l’estate del 1966, avevo compiuto tredici anni ed ero appena stato promosso in terza media.

    Ignoravo allora che in autunno l’Arno avrebbe sommerso Firenze, devastandola, e che io avrei salvato solo ciò che potevo: me stesso.

    L’onda di piena avrebbe travolto tutto il resto.

    ***

    All’inizio di quell’estate ero un ragazzino di tredici anni con le orecchie grandi e le ginocchia ossute, seduto sul sedile posteriore della macchina appena comprata di babbo che macinava l’asfalto dell’A1 in direzione sud.

    L’odore della tappezzeria nuova mi si rivoltava nello stomaco. Tenevo lo sguardo fisso davanti. Cercai di evocare immagini piacevoli e nella mia testa si materializzarono le tette della Latini, la mia compagna di classe, ma il puzzo dell’ennesima sigaretta di babbo cancellò le mie fantasie e mi sentii male.

    «Paolo» disse mia madre con il naso arricciato «ma è possibile, tutte le volte».

    Mi girava la testa e sudavo freddo.

    «Che schifo» commentò mia madre girandosi dall’altra parte.

    Arrivati a casa dei nonni anche mio fratello Tommaso aveva il viso verdognolo, ma non aveva vomitato nella macchina nuova di babbo, lui.

    Mamma uscì dall’auto e attraversò l’aia con le braccia protese per abbracciare la nonna, i tacchi delle sue scarpe scricchiolarono sulla ghiaia bianca disturbando le galline che si spostarono all’ombra del melograno riprendendo a cercare vermi umidi da beccare.

    Baciò nonna Gemma senza togliersi gli occhiali da sole a farfalla; non una traccia di rossetto rimase sulla sua guancia.

    Mio padre strinse le mani dei cognati che nel frattempo si erano raccolti intorno alla fiat 850 blu elettrico. Per comprarla aveva firmato un pacco di cambiali alto come un barattolo, ma nessuno dei suoi amici ne possedeva una altrettanto lussuosa, e per lui questo era stato un motivo sufficiente per indebitarsi.

    «Quanto fa?».

    «Dopo Incisa, nelle diritte faceva 140, e senza tirarla al massimo». Babbo si lisciò i baffi tronfio.

    Anche mio cugino non aveva occhi che per la macchina.

    «Fammi vedere i freni a disco, zio! È vero che ce li ha a tutte e quattro le ruote?».

    Nessuno sembrava interessato a me e Tommaso. Solo la nonna ci venne incontro asciugandosi le mani bagnate sul grembiule per abbracciarci. Era una donna minuscola, che profumava di sole e di pranzi domenicali in campagna, tutti insieme.

    «Ti sei sentito male, pulcino della nonna?» disse indicando i miei vestiti sudici. Annuii.

    La sua faccia stropicciata si distese in un sorriso. «Vieni dentro a cambiarti».

    Dopo il riverbero accecante dell’aia, la penombra della cucina fu un sollievo. Dalle travi del soffitto pendevano il timo e l’origano messi a essiccare, vassoi d’arrosto erano schierati sul tavolo coperti da canovacci di lino, l’acqua sobbolliva nel pentolone sul fuoco e le tagliatelle stese sul bancone erano pronte per essere cucinate. Una bella differenza con la trippa in scatola che ci dava la mamma. O carne, o ravioli, bastava che galleggiasse dentro una lattina e a noi toccava mangiarlo. Lei sosteneva che fosse molto moderno. Fortuna che in Valdarno i cibi pronti erano una rarità e la nonna continuava a stendere tagliatelle impastate con le uova di Chicca, la più bella delle ovaiole.

    In un altro momento mi sarebbe venuto il languorino, ma avevo ancora in bocca un saporaccio e non vedevo l’ora di salire di sopra.

    «Vediamo se i vestiti di Valerio ti vanno bene o se ci sembri cascato dentro».

    Prese dall’armadio una camicia rossa a quadri e un paio di pantaloni di cotone ruvido.

    «Certo, lui è più grande, ma ti sei alzato parecchio».

    Valerio, mio cugino, a settembre avrebbe cominciato le superiori.

    «Ecco, arrotoliamo queste maniche e andrà benissimo. E lavati i denti».

    Scendendo al piano di sotto mi fermai davanti alla libreria in cima alle scale. I libri erano aumentati dall’ultima volta, tanto che negli scaffali in basso erano disposti su tre file, in ordine d’arrivo. Un amico dei nonni faceva il netturbino al Comune di Figline e quando gli capitava qualcosa di interessante glielo portava. Potevano essere romanzi o manuali di meccanica, ma per lui che non sapeva leggere, erano comunque preziosi.

    Il nonno la prendeva in giro dicendole che raccoglieva randagi, e non si riferiva solo ai libri. Lei rideva e la libreria continuava a riempirsi. Una volta arrivò un’intera enciclopedia per ragazzi. Ogni volume aveva il dorso di un colore diverso a seconda dell’argomento. Il mio preferito era quello sui minerali. Lo presi dalla mensola e mi misi a sfogliarlo, c’erano tantissime foto. Dovevo ricordarmi di chiederglielo in prestito. A casa nostra non c’erano libri, tranne quelli di scuola che erano obbligatori.

    Mi riscossi quando la nonna mi chiamò.

    «Paolo, è pronto!».

    Un gran tavolo campeggiava nell’aia all’ombra del noce.

    Eravamo talmente tanti che per apparecchiare ci erano volute due delle tovaglie del corredo della nonna, di quelle fatte a telaio, alte come una fetta di pane. Lei disse a tutti di stare attenti a non macchiarle di vino e nel dirlo cercò con lo sguardo lo zio Terzilio, il suo figlio zitellone, che se non sapevi dov’era bastava cercare la bottiglia di vino più vicina e sicuramente lo trovavi nei dintorni. Andrea, il più vecchio dei miei zii, riempì i bicchieri di Sangiovese ancora prima di sedersi. L’altro fratello, quello di mezzo, li guardò male entrambi: lui era contrario all’alcol. Forse perché sua moglie Assuntina beveva per tutti e due, almeno così diceva la mamma a voce bassa.

    Eravamo tutti riuniti per il presunto compleanno di nonno Giovanni. Appena nato, era stato abbandonato a Firenze nella Ruota degli innocenti e tre giorni più tardi, durante i festeggiamenti di San Giovanni il 24 giugno, la sua nuova famiglia l’aveva adottato per onorare un voto fatto al santo patrono di Firenze.

    La nonna non accettava defezioni, solo una malattia grave poteva giustificare un’assenza in quel giorno.

    Nonno ci guardò a uno a uno annuendo, sembrava che ci stesse contando come faceva con le galline prima di metterle dentro la sera. Secondo me era contento.

    Al pranzo erano invitati anche quattro fratelli amici dei nonni che non si erano mai sposati e che si diceva avessero un miliardo in banca; a guardarli non lo avresti detto: curvi sul cibo, con le unghie sporche di nero e pochi denti in bocca, non avevano proprio l’aria di essere ricchi. Lo zio Andrea diceva che mangiavano un’aringa in quattro per cena, ma non doveva valere per il pranzo a giudicare da quante volte si servirono.

    Poi il nonno in persona portò in tavola l’arrosto girato, l’unica cosa che cucinasse. Passava l’intera mattina a badare che non si asciugasse troppo ungendolo amorevolmente con un rametto di rosmarino intriso d’olio.

    Il babbo fumava tra una portata e l’altra. La mamma spiluzzicava. Dopo mangiato mi sdraiai sotto al melograno ad ascoltare le cicale. L’erba mi faceva il solletico sotto al collo. Strizzavo gli occhi per guardare il cielo attraverso le foglie. Strappavo fili d’erba per farci salire sopra le formiche che però si ostinavano ad aggirare l’ostacolo. A un certo punto il caldo ebbe la meglio su di me e mi rifugiai in casa al fresco. In cucina trovai mio cugino Valerio.

    «Allora, pulcino della nonna?».

    «Smettila!».

    «La vuoi vedere una cosa da grandi?».

    La rabbia mi passò all’istante. «Certo!».

    Lui viveva al podere dei nonni con i suoi genitori e la sua stanza era la vecchia piccionaia della colonica. Le pareti erano tappezzate di poster dei Pooh e le macchinine, che prima erano parcheggiate ovunque, erano scomparse.

    Tirò fuori da sotto il letto una vecchia scatola di latta.

    Sbirciai dentro e vidi l’album dei calciatori della Fiorentina. Adocchiai subito la figurina di Hamrin che mi mancava. «Me la regali?» dissi speranzoso.

    «Ma no. Sei proprio un tonto: questo è solo un trucco per non farmi scoprire dalla nonna». Mi guardò dritto negli occhi: «Lo sai che non le sfugge nulla. Certe volte sembra che abbia i superpoteri».

    «Sì, lo so».

    «Quindi prudenza».

    Sollevò l’album e una ragazza nuda mi sorrise dalla copertina di una rivista.

    «È l’ultimo numero di abc».

    I capelli biondi raccolti sulla nuca erano l’unica cosa che aveva addosso.

    «Dove l’hai presa?».

    «A scuola, si compra mettendo i soldi tutti insieme e poi si tiene una settimana per uno. Bello vero? Guarda il paginone centrale».

    Avevo le idee confuse sull’argomento e le tette della Latini, così come me le immaginavo, mi apparvero di nuovo in testa senza che potessi impedirlo.

    «Di’ la verità, non ne avevi mai vista una».

    «Certo che sì!» mentii.

    «E allora perché sei tutto rosso?».

    Non mi sarei sbottonato con mio cugino. Non avevo mai parlato di sesso neanche con il Mollino, il mio migliore amico, anche perché ero certo che ne sapesse meno di me.

    Una mattina, durante l’intervallo, avevamo stilato la classifica delle tette delle compagne e la Latini aveva vinto su tutte. Io avevo votato la professoressa di matematica, ma gli altri l’avevano squalificata per via dell’età. Il Mollino era rimasto zitto in un angolo tutto il tempo e poi era andato dritto da don Bonardo a fare la spia.

    No, non avrei mai parlato di ragazze con il Mollino.

    Restituii la rivista a mio cugino.

    «Non mi va di guardarle in compagnia, tutto qua».

    «Ma te lo sai come si fa?» mi chiese Valerio.

    «Certo che lo so, per chi mi hai preso?» e cominciai a snocciolare alla cieca brandelli di nozioni sentite dai compagni di classe.

    «Te non sai proprio nulla, ammettilo».

    «Non è vero. Qualcosa la so. Perché, te mi vorresti dire che sai tutto?».

    «Sicuro!» e mi raccontò per filo e per segno i dettagli di certi suoi incontri al pagliaio con la fidanzata. Rimasi seduto sul pavimento a bocca aperta. Non credevo a una sola parola, però non mi persi neanche un particolare.

    Quando scendemmo nell’aia mi sentivo le punte delle orecchie in fiamme e riuscivo a pensare solo alla schiena nuda della ragazza bionda della rivista.

    «Oh, eccoli i miei uomini». Il nonno sorseggiava il vinsanto.

    Non risposi.

    «Il gatto ti ha mangiato la lingua, Paolo?».

    Mi cacciai in bocca un pezzo di schiacciata alla fiorentina per avere una scusa per non rispondere. Volevo pensare in pace a quello che mi aveva raccontato Valerio.

    Mi sedetti accanto a Tommaso che tormentava mia cugina Camilla. Lei lo ascoltava annoiata mentre smangiucchiava le ciliegie; affondava i denti fino al nocciolo e poi le succhiava.

    Non so come, mi ritrovai a fissarle le tette. Erano piccole, niente a che vedere con quelle della Latini o della professoressa di matematica. Lei se ne accorse e mi guardò male, così distolsi lo sguardo.

    Poi Valerio tirò fuori il pallone.

    «Partitella?».

    Tommaso schizzò dalla sedia. Babbo spense la sigaretta, si tolse la giacca e arrotolò le maniche della camicia.

    Vicino al gabbiotto del maiale c’era un campo di erba alta con in mezzo uno spiazzo. Il nonno ci aveva piantato dei pali che facevano da porte. Gli zii erano in squadra con Valerio, mentre io e babbo eravamo in squadra con Tommaso. A me toccò andare in porta.

    Lo zio Terzilio faceva la telecronaca e si era portato la bottiglia del vinsanto a bordo campo per farsi un bicchierino tra un’azione e l’altra.

    Ne parai solo due, ma la colpa era di Tommaso che in difesa faceva pena. Babbo invece in attacco infilava un goal dopo l’altro. Lui era stato in Argentina e di quel viaggio gli erano rimaste attaccate all’anima due cose: il calcio e la musica.

    Il sole del pomeriggio mi inchiodava le gambe.

    A un certo punto lo zio urlò: «Chi vince questa vince tutto!».

    Valerio mi piazzò un tiro impossibile; io mi lanciai come faceva Albertosi, il miglior portiere del mondo: tesi le braccia, visualizzai la palla, e la mancai.

    Rotolai nella polvere e rimasi steso sulla schiena, sconfitto.

    Lui percorse il campo a braccia alzate.

    «Goal! Goal!» gridò lo zio Terzilio issando la bottiglia di vinsanto al cielo.

    «Imbranato!» urlai a mio fratello. «Non lo potevi fermare?».

    «Chi è il portiere, io o te? Sei te che hai le mani di burro!». Poi aggiunse: «Facciamo ancora due tiri?».

    «Non ci penso nemmeno» risposi.

    «E allora chi arriva ultimo al noce è una rana morta!».

    Io rimasi in terra a pancia all’aria stecchito sotto al sole con le gambe divaricate.

    «Non vale» protestai sottovoce.

    Dopo cena rimasi in cucina aiutando la nonna ad asciugare i piatti. Mentre io mi ostinavo a strusciare i bicchieri che non volevano sapere di asciugarsi, lei aveva già finito con le pentole e le posate. Si rimise gli anelli e si sedette accanto a me. Prese la mia faccia tra le mani ancora umide e disse:

    «Sei stato bene oggi, pulcino?». Era bello sentirselo chiedere.

    «Sì. Però sono grande, non chiamarmi più pulcino, soprattutto davanti a Valerio, per favore» mormorai.

    Prese uno strofinaccio e si mise ad aiutarmi.

    «Amore, qualche volta si desidera una cosa buona, le ciliegie per esempio, ma se le mangi troppo presto e non sono mature ti fanno stare male».

    Non risposi, perché non ero proprio sicuro che stessimo parlando di roba da mangiare. Secondo me aveva a che fare con il fatto che avevo guardato le tette di mia cugina, ma come facesse lei a saperlo era un mistero.

    Una volta avevo visto un film su degli alieni che leggevano la mente attraverso gli occhi: ci facevano scorrere i pensieri come i telefilm sullo schermo della televisione.

    Nonna non poteva essere un alieno, però.

    «A letto ora».

    «Il nonno? Non viene a darci la buonanotte?» chiesi.

    «No, è in cantina».

    Me lo immaginavo intento a travasare il vino rimasto dell’anno precedente nelle botti più piccole, messo a invecchiare per chissà quale occasione.

    Salii le scale in silenzio fino nella camerina dove avremmo dormito.

    Mio fratello voleva giocare a sasso, carta, forbici.

    «Tommaso, non ho voglia, lasciami in pace».

    «Ti scappa di nuovo da vomitare?».

    «No, è che ho da pensare».

    «A cosa?».

    «Alla nonna e altre cose».

    «E perché?».

    «Valerio dice che ha i superpoteri» tagliai corto.

    «Forte».

    Ero abituato al brusio della città e il silenzio della campagna non mi faceva prendere sonno. Solo i grilli e il latrato lontano di qualche cane mi tenevano compagnia. Era la prima volta che restavo dai nonni per la notte.

    Tommaso invece dormiva con la bocca semiaperta e le manine raccolte sotto al viso.

    Chiusi gli occhi e mi sembrò che fosse passato solo un attimo quando la nonna accese la luce.

    «Buongiorno! Sveglia, è ora di alzarsi!».

    Fuori il cielo cominciava a schiarire verso l’orizzonte.

    Mi infilai dentro ai vestiti del giorno prima.

    Tommaso si stropicciò gli occhi.

    «La mamma?».

    «È tornata a Firenze con babbo ieri sera».

    «Ah già» sbadigliò ancora mentre lo aiutavo a vestirsi.

    Arrivammo per ultimi in cortile dove c’era già fermento. Solo Camilla se ne stava seduta su uno scalino di pietra con la faccia gonfia di sonno. La capivo benissimo. Anche lo zio Terzilio aveva gli occhi arrossati, ma non sono sicuro che fosse perché aveva dormito poco.

    L’aria era frizzante, rabbrividii.

    Salimmo tutti sul rimorchio insieme alle ceste, incastrati tra lunghe scale a pioli di legno. Nonno mise in moto il trattore che partì sobbalzando lungo il sentiero che portava al campo dove c’erano gli albicocchi. Con il raccolto la nonna avrebbe fatto la marmellata per tutta la famiglia e ne sarebbe avanzata anche da vendere: venivano da tutto il Valdarno per comprarla.

    Io non avevo mai partecipato alla raccolta e non l’avevo presa troppo sul serio, credevo che sarebbe stato facile. Sbagliavo: quelle più mature erano in cima agli alberi, per raccoglierle bisognava arrampicarsi sulle scale di legno, e io avevo paura dell’altezza. Tremavo tutto, ma mi guardai bene dal dirlo a qualcuno. Solo Tommaso se ne accorse, e per fare il cretino fingeva di inciampare e finire addosso alla scala facendola traballare. Io mi reggevo e pregavo di non cadere. Mi ripromisi di picchiarlo non appena fossi sceso.

    Alla fine della giornata mi facevano male i muscoli delle spalle e i vestiti mi stavano appiccicati addosso. Ero incastrato tra lo zio e il bordo del rimorchio e le albicocche rotolavano giù dalle ceste ogni volta che il trattore dava uno scossone. Ne addentai una, il succo mi colò giù dal mento e macchiò la camicia. Mamma si sarebbe arrabbiata per una cosa del genere, ma

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