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Le mille e una notte
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Le mille e una notte
E-book1.865 pagine25 ore

Le mille e una notte

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Info su questo ebook

Traduzione di Armando Dominicis
Edizione integrale

Le mille e una notte è forse la più straordinaria raccolta di storie di tutta la letteratura. Il pretesto che dà luogo alla narrazione e che è all’origine del titolo è ben noto: il sultano Shahriyàr, per vendicarsi dell’infedeltà della prima moglie, fa uccidere al mattino le spose con le quali ha trascorso una sola notte. Shahrazàd, la saggia e colta figlia del visir, giovane di grande bellezza, decide di porre fine alla strage; perciò si offre come sposa al sultano, e riesce a scampare alla morte, e a salvare la vita di chissà quante altre donne, grazie alla sua intelligenza e al suo fascino: racconta a Shahriyàr una serie interminabile di bellissime storie, incastonate l’una nell’altra in un sapientissimo gioco di scatole cinesi. Per mille e una notte il crudele sultano ascolta rapito le avventure di dolci principesse, potentissimi re, geni dagli straordinari poteri, personaggi il cui nome è ormai divenuto celebre, come Aladino, Sindibàd il marinaio o Ali Baba. Al termine della narrazione Shahriyàr, ormai innamorato di Shahrazàd, rinuncia alla sua legge disumana e... «da tutti i paesi dell’impero salirono mille lodi e mille benedizioni al sultano e alla deliziosa Shahrazàd, sua sposa».

Il problema delle origini de Le mille e una notte è estremamente complesso. Il nucleo originario della raccolta, così come l’impianto della storia che fa da cornice, sono probabilmente d’origine indiana, ma già nel IX secolo ne esisteva una versione araba. Continuamente arricchita e rielaborata attraverso i secoli, assunse solo nel Quattrocento la forma con la quale è giunta fino a noi. La fama di questa raccolta nella cultura occidentale ha avuto inizio nel Settecento, quando l’orientalista francese Antoine Galland ne fece una versione dall’arabo. Sul testo di Galland, divenuto ormai un classico, è stata condotta la traduzione che presentiamo ai lettori.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854125575
Le mille e una notte

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    Anteprima del libro

    Le mille e una notte - AA.VV.

    e9788854125575_cover.jpge9788854125575_EC.gif

    214

    Disegni di Adriano Minardi

    © 1991, 2006 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    9788854125575

    www.newtoncompton.com

    Prima edizione ebook: novembre 2010

    Edizione digitale realizzata da

    Simplicissimus Book Farm

    Software partner

    Jouve

    Sommario

    Colophon

    Frontespizio

    Prefazione

    Introduzione

    L’asino, il bue e l’agricoltore

    Il mercante e il genio

    Storia del primo vecchio e della cerva

    Storia del secondo vecchio e dei due cani neri

    Storia del terzo vecchio e della principessa Scirina

    La storia del pescatore

    Storia del re greco e del medico Dubàn

    Storia del marito e del pappagallo

    Storia del visir punito

    Storia del giovine re delle Isole Nere

    Storia del facchino di Bagdàd

    Storia del primo monaco

    Storia del secondo monaco

    Storia dell’invidioso e dell’invidiato

    Storia del terzo monaco

    Storia di Zobeida

    Storia di Amina

    Storia di Sindibàd il marinaio

    Primo viaggio

    Secondo viaggio

    Terzo viaggio

    Quarto viaggio

    Quinto viaggio

    Sesto viaggio

    Settimo viaggio

    Storia delle tre mele

    Storia della dama trucidata e del suo giovane marito

    Storia di Ali Nur ed-Din e di Hasan Badr ed-Din

    Storia del piccolo gobbo

    Storia del mercante cristiano

    Storia del mancino

    Storia del sovrintendente

    Storia dell’invitato

    Storia del medico ebreo

    Storia del giovane di Mossul

    Storia del sarto

    Storia del giovane zoppo

    Storia del barbiere

    Storia dei primo fratello gobbo

    Storia del secondo fratello sdentato

    Storia dei terzo fratello cieco

    Storia del quarto fratello guercio

    Storia del quinto fratello dalle orecchie tagliate

    Storia del fratello dalle labbra tagliate

    Storia di Ali ibn Bakkàr e di Shams an-Nahàr

    Storia del principe Qamar az-Zamàn

    Storia di Nur ed-Din e della bella Persiana

    Storia di Badr principe di Persia e della principessa Giàwhara figlia del re as-Samandal

    Storia della principessa Giulnàr la Marina

    Storia di Ghànim lo schiavo d’amore

    Storia di Tormenta

    Storia del principe Zeyn al-Asnàm e del re dei geni

    Storia di Codadad e dei suoi fratelli

    Storia della principessa di Deryabar

    Storia dell’uomo addormentato ridestato

    Storia di Aladino e della lampada meravigliosa

    Le avventure del califfo Harùn ar-Rashìd

    Storia del cieco Bàba-Abdallà

    Storia di Sidi-Numan

    Storia di Cogia Hassan Alhabbàl

    Storia di Ali Baba e dei quaranta ladroni sterminati da una schiava

    Storia d’Ali Cogia mercante di Bagdàd

    Storia del cavallo incantato

    Storia del principe Ahmed e della fata Pari-Banu

    Storia delle tre sorelle

    Conclusione

    Le mille e una notte

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    Questa nuova edizione de Le mille e una notte è basata sulla classica traduzione che Antoine Galland fece dall’arabo agli inizi del Settecento e che per prima fece conoscere in Europa questo capolavoro. La versione italiana utilizzata è quella che Armando Dominicis pubblicò negli anni Trenta, rivista e aggiornata, dove necessario, per il lettore moderno.

    Prefazione

    È decisamente ingannevole leggere la serie dei racconti, ora brevi, ora estesi e complessi, che formano le Mille e una notte, come il documento orientale di un universo dominato dalla magia e dallo straordinario. Il più grande arabista italiano, Francesco Gabrieli, fine osservatore e storico di questo testo, ha più volte notato, richiamando ogni lettore ad una corretta interpretazione, che le Mille e una notte comprendono sicuramente le esercitazioni di un immaginario evocante il magico e il fiabesco, ma interessano prevalentemente come trama narrativa nella quale appaiono, nella loro non tramontata vivacità, usi, costumi, credenze, comportamenti del quotidiano dell’ambiente egiziano nel quale venne a formarsi, dopo un processo secolare, il testo definitivo dell’opera. Né, salvo rare eccezioni, questo testo ha un reale valore letterario, redatto come è in un arabo formale e stilizzato, che ha negativamente trasformato le forme di linguaggio popolare delle probabili antiche redazioni. Né, ancora, hanno vigore creativo ed estetico i lunghi passi poetici che abbondano nella prosa e che non appaiono in questa traduzione: passi da collegarsi ai modi narrativi arabi e persiani, che spesso ricorrono a interludi versificati, difficili per la loro comprensione e talvolta estranei al filo narrativo della prosa. E allora, salvo appunto quei racconti che costituiscono autentici e pregiati tesori della cultura intricata da cui l’opera si è originata, le Mille e una notte attualmente coinvolgono il lettore occidentale soprattutto come documento di storia tradizionale, di folclore, di oralità la cui origine è molto difficilmente rintracciabile, qui e lì riflettente distanti eventi storici trasformati e spesso resi irriconoscibili dalla elaborazione collettiva. Se un paragone può essere richiamato, con tutti i rischi e le incongruenze che accompagnano i paragoni, le Mille e una notte ricordano vagamente le grandi epopee dei cicli cavallereschi europei, nei quali i patrimoni delle realtà storiche diventano inattendibili narrazioni di eventi straordinari. Solo che, nell’opera araba, gli eroi e i personaggi eccezionali hanno significato soltanto come attori nello scenario ben più importante della plebe urbana e contadina dei secoli del dominio mammelucco dell’Egitto. I processi di formazione storica della raccolta sono ormai ben delineati nella lunga esegesi che su di essa è stata operata dagli specialisti. Innanzitutto è certo che il grande numero di racconti e leggende legati, in qualche modo, ad una narrazione che fa da cornice, riflette un modello molto arcaico ben noto nelle letterature orientali e soprattutto in quella iranica. La prima stratificazione dalla quale nascerà l’opera che assume il nome di Mille e una notte, Alf laila wa laila (in cui il numero «mille» non indica una cifra reale, ma è il modo per rappresentare, come in molte altre lingue, una grande quantità), è quella indo-iranica: si tratta di temi e motivi, già chiaramente presenti nella favola-cornice, che hanno i loro prototipi già nella letteratura indiana e che, trasformati ed adattati, sono passati alla letteratura della Persia. Questo fondamentale nucleo diviene particolarmente importante nell’Iraq, che dà origine ad un posteriore strato. I materiali, intanto, si arabizzano decisamente e in essi la memoria degli arcaici ambienti indo-iranici viene a diluirsi e quasi a sparire sotto la vernice linguisticamente araba e sotto i modelli culturalmente islamici.

    In questa forma di avanzata ricomposizione, il libro dall’Iraq abbaside passa alla Siria e posteriormente all’Egitto fatimida e poi mammelucco, assumendo in esso struttura definitiva tra il XII e il XVI secolo, arricchendosi anche di parti decisamente influenzate dal mondo egiziano. Intorno ai tre principali filoni vengono ad aggregarsi molti elementi estranei alla cultura islamica, anche se sottoposti a islamizzazione: e sono le parti che risalgono al mondo grecoalessandrino e a quello giudaico medioevale.

    Noi ignoriamo la precisa data di composizione del blocco narrativo e possiamo presumere la diffusione di prototipi, quasi sempre in lingua araba, attraverso notizie indirette di cronisti o incerte testimonianze letterarie. Due autori del secolo x, al-Masudi e Ibn an-Nadim, testimoniano che nella loro epoca era nota una raccolta persiana di racconti, indicata come «Mille favole» (Hazàr afsane), che fu tradotta in arabo con il titolo «Mille Notti» (Alf laila). Siamo così alla probabile origine di quello che sarà il testo arabo molto più ampio e ricco, formatosi per successive aggregazioni, in esso restando l’originale schema sanscrito della storia-cornice, quale era stato trasformato nel mondo abbaside e poi tradotto in arabo. Nella sua redazione definitiva l’opera viene ad incorporare altri testi già esistenti separatamente, come i romanzi di Omar an-Naman e di Dhu l-Himma, nei quali si conserva la memoria delle lotte degli Arabi contro i Bizantini tra il secolo VII e il X Ma si riversano nella raccolta numerosi racconti di origine popolare, soprattutto di ambiente egiziano, che, come si è detto, costituiscono la parte più vivace ed interessante del libro. Molti sono anche i racconti erotici che spesso hanno interessato i lettori occidentali disposti a leggere la raccolta in modo falsato: si tratta di novelle, ora brevi, ora lunghe, che riflettono linguaggi e costumi di pesante ed esagerata oscenità, quando gli amori narrati non si riducano, invece, a patetiche storielle di tipo romantico.

    Le fortune delle Mille e una notte, in Europa, forse più che nell’Oriente islamico, risalgono alla parziale traduzione che di esse fece in francese Antoine Galland, figura di primo piano della cultura orientalistica francese, nato a Rollot (Piccardia) nel 1646 e morto a Parigi nel 1715. La traduzione di Galland, in dodici volumetti, che furono pubblicati a Parigi a partire dal 1704 (gli ultimi due volumi sono postumi), introdusse in Europa il gusto e la curiosità per il mondo arabo, fino ad allora sconosciuto, anche se le cosiddette turqueries portavano ad un fantastico e convenzionale ambiente orientale. Il Galland aveva raggiunto la sua ampia e sicura conoscenza della lingua attraverso dure fatiche che lo portarono, al termine della vita, ad insegnare lingue orientali al Collège de France. Egli aveva a lungo viaggiato in Oriente come interprete e incaricato di missioni scientifiche e aveva tradotto in francese il Corano ed altri testi arabi e persiani. La resa francese del Galland è sostanzialmente fedele al testo, che egli ha tradotto soltanto antologicamente per circa un terzo della sua estensione. Ottimo è anche il suo francese letterario. Ma, riconosciuti questi pregi, bisogna pur dire che il traduttore ha moderato o abolito gli esotismi orientali che potevano essere sgraditi al lettore francese del XVIII secolo, ha spesso abbreviato e tagliato per realizzare narrazioni meno prolisse di quelle originali, ha soppresso tutti i difficili e spesso incomprensibili intermezzi in poesia e soprattutto, obbedendo a criteri di censura moralistica, ha evitato di rendere in francese gli episodi scabrosi e osceni che costituivano la grassa narrativa popolare araba. La traduzione di Galland fu ritradotta in molte lingue europee e ha costituito l’unico tramite di conoscenza della raccolta originaria, fino a quando non apparvero in Francia, in Germania e in Inghilterra nuove traduzioni più fedeli, parziali o totali, del testo. In Italia il Gabrieli nel 1946 ha diretto, affidandola ad una équipe, una traduzione completa pubblicata presso Einaudi.

    Nella presente edizione viene reso un florilegio della traduzione del Galland, con scelta operata secondo criteri di agilità e di interesse, che sottraggano il lettore non specialista alla fatica di prolisse narrazioni o di intrighi poco utili ai fini della scoperta dello straordinario mondo sottostante al libro e tuttora vivo, nella sua agitata e pittoresca quotidianità, nelle città dell’Egitto e in molte delle medine maghrebine.

    Introduzione

    Le cronache dei Sassanidi, antichi re di Persia, che avevano esteso il loro impero nelle Indie e, ben oltre il Gange, fino alla Cina, riferiscono che ci fu una volta un re di quella potente casa, che fu il più eccellente principe del suo tempo. Era amato dai sudditi per la sua saggezza e prudenza e temuto dai vicini per la fama del suo valore e per la reputazione delle sue soldatesche bellicose e ben disciplinate. Egli aveva due figli: il primogenito si chiamava Shahriyàr, e l’altro Shahzamàn, ed erano entrambi degni eredi delle virtù paterne.

    Dopo un regno lungo e glorioso, questo re morì, e Shahriyàr salì al trono. Shahzamàn escluso per le leggi dell’impero, dall’eredità paterna, fu obbligato a vivere come un semplice privato; ben lontano dal guardare con invidia la buona sorte del fratello maggiore, egli mise invece tutto l’impegno a piacergli, e durò poca fatica a riuscirvi.

    Shahriyàr, il quale naturalmente amava molto questo principe, fu contentissimo della sua compiacenza e, per dargliene una prova, volle dividere con lui i suoi stati, cedendogli il regno della grande Tartaria. Shahzamàn andò subito a prenderne possesso, e si stabilì a Samarcanda, che ne era la capitale.

    Erano già trascorsi due anni dacché questi principi vivevano separati, quando Shahriyàr, desiderando rivedere suo fratello, risolse di spedirgli un ambasciatore per invitarlo a venirlo a trovare.

    Scelse per questa missione il suo primo visir, il quale partì con un seguito consono alla sua dignità, con la maggior rapidità possibile. Quando il visir giunse nelle vicinanze di Samarcanda, Shahzamàn, che era stato informato della sua venuta, gli andò incontro coi signori della sua corte, i quali, per onorare il ministro del sultano, si erano vestiti con magnificenza. Il re di Tartaria lo accolse con grandi dimostrazioni di gioia, e gli domandò subito notizia del sultano suo fratello. Il visir appagò la sua curiosità, e poi gli espose la cagione della sua venuta. Shahzamàn ne fu profondamente commosso:

    «Saggio visir», gli disse, «il sultano mio fratello mi fa troppo onore; né poteva propormi una cosa che mi fosse più gradita. Se lui desidera vedermi, anch’io brucio dello stesso desiderio: il tempo non ha diminuito il suo amore, ma non ha neppure indebolito il mio. Il mio regno è tranquillo, e non domando che dieci soli giorni per essere in condizione di partire con voi; sicché non è necessario che per così poco tempo entriate in città: vi prego di fermarvi in questo luogo, e di farvi alzare le vostre tende. Ordinerò che siano preparati abbondanti rinfreschi non solo per voi, ma anche per le persone del vostro seguito».

    Ciò fu fatto all’istante, e il visir vide tosto giungere una quantità prodigiosa di ogni sorta di provviste, accompagnate da doni di grandissimo valore.

    Shahzamàn, prima di partire, nominò un consiglio per governare il suo regno durante la sua assenza, eleggendo a capo del medesimo un ministro, la cui saggezza gli era nota, e nel quale aveva assoluta fiducia. Allo scadere dei dieci giorni, essendo pronto il suo equipaggio, si congedò dalla regina sua moglie, e uscì verso sera da Samarcanda. Accompagnato dagli ufficiali che dovevano seguirlo nel viaggio, andò al padiglione reale, che aveva fatto innalzare vicino alle tende del visir. Si trattenne con quell’ambasciatore fino a mezzanotte, e, volendo ancora una volta abbracciare la sposa, che gli era molto cara, ritornò solo al palazzo. Si recò direttamente all’appartamento della regina, la quale, non aspettandosi di rivederlo, aveva introdotto nella sua camera uno degli ufficiali della casa.

    Il re entrò senza far rumore, credendo di fare un’improvvisata alla moglie, dalla quale si credeva teneramente amato: ma quale non fu la sua meraviglia quando alla luce delle lampade che non si spegnevano mai nella reggia, vide un uomo nella stanza di lei? Restò immobile per qualche momento, non sapendo se dovesse credere ai propri occhi, ma non potendo dubitare, esclamò:

    «Come! Sono appena uscito dal mio palazzo e già osa oltraggiarmi? Ah! perfidi, il vostro delitto non rimarrà impunito! Come re, debbo castigare le scellerataggini che si commettono nei miei stati, e come sposo offeso debbo sacrificare questi due esseri malvagi al mio giusto risentimento!».

    Sguainata la sciabola, si avvicinò ai due colpevoli, e in un attimo li fece passare dal sonno alla morte; prendendoli poi l’una dopo l’altro, li gettò da una finestra nel fosso, che circondava il palazzo.

    Quando si fu così vendicato, uscì dalla città, come vi era entrato, ritirandosi sotto il suo padiglione. Non appena vi fu giunto, senza parlare di quanto gli era successo, comandò che fossero levate le tende e che si partisse. Si mise subito in ordine ogni cosa, e ancora prima di giorno tutti si misero in cammino al suono di timpani e di molti altri strumenti.

    Giunto col visir ed il loro seguito vicino alla capitale delle Indie, vide venirgli incontro il sultano Shahriyàr con tutta la sua corte. Figurarsi il giubilo di questi principi nel rivedersi! Scesero entrambi a terra per abbracciarsi, e dopo essersi scambiate molte espressioni di tenero affetto, risalirono a cavallo ed entrarono in città, accompagnati dalle acclamazioni del popolo.

    Il sultano condusse il re suo fratello al palazzo, che aveva fatto preparare per lui e che, per mezzo di un giardino, comunicava col suo. Il giardino, che era abitualmente magnifico poiché era destinato alle feste e ai divertimenti della corte, era stato reso ancor più bello in quella circostanza.

    Shahriyàr lasciò il re di Tartaria, per dargli agio di lavarsi e di mutarsi d’abito: ma non appena seppe che era pronto, tornò a trovarlo. Essi si sedettero sopra un sofà, e essendosi i cortigiani allontanati, in segno di riverenza, cominciarono a intrattenersi sopra tutto ciò che due fratelli, uniti più dall’amore che dal sangue, hanno da dirsi dopo una lunga assenza.

    Venuta l’ora di cena, mangiarono insieme, poi ripigliarono la loro conversazione, che durò fino a tardi, quando, accorgendosi Shahriyàr che era ormai notte avanzata si ritirò per lasciar riposare suo fratello.

    L’infelice Shahzamàn si mise a letto: ma se la presenza del sultano suo fratello aveva potuto lenire per qualche tempo il suo dolore, ora, rimasto solo, fu ripreso dall’angoscia. Tutti i particolari dell’infedeltà della regina si presentarono alla sua mente con tanto realismo, che si sentiva quasi impazzire. Infine, non potendo dormire, si alzò; era così profondamente assorbito dai suoi dolorosi pensieri, che il volto ne portava i segni. Il sultano non mancò di notarlo:

    «Che ha mai il re di Tartaria? Chi può avergli procurato tanto dispiacere? Può avere motivo di dolersi dell’accoglienza che gli ho fatto? No, io l’ho accolto come un fratello diletto, e nulla ho da rimproverarmi a questo proposito. Forse rimpiange di essere lontano dai suoi stati, o dalla regina sua moglie? Ah se è questo che l’affligge, gli farò subito i regali che gli ho destinati, perché possa partire alla volta di Samarcanda quando lo desideri».

    Infatti la mattina seguente gli mandò quanto le Indie producono di più raro, di più ricco e di più singolare, non tralasciando di fare tutto il possibile per divertirlo con nuovi piaceri: ma le feste più deliziose, invece di rallegrarlo, non facevano che aumentarne la pena.

    Un giorno, avendo Shahriyàr organizzato una battuta di caccia, a due giorni di distanza dalla capitale, in un paese dove abbondavano i cervi, Shahzamàn lo pregò di dispensarlo dall’accompagnarlo, adducendo come scusa che la sua malferma salute non gli permetteva di godere di un tale piacere. Il sultano non volendo contrariarlo lo lasciò libero, e partì con tutta la corte, per prendersi quel divertimento. Dopo la sua partenza, il re della grande Tartaria, vedendosi solo, si rinchiuse nel suo appartamento, e si mise a una finestra che dava sul giardino. Quel luogo delizioso e il canto di un numero sterminato di uccelli, che vi si trovavano, gli avrebbero dato molto piacere se fosse stato capace di goderne: ma, lacerato dalla memoria del tradimento della regina, fissava meno spesso lo sguardo sul giardino, di quanto non lo alzasse al cielo per lamentarsi del suo infelice destino.

    Ciò nonostante qualcosa finì con l’attirare la sua attenzione: una porta segreta del palazzo del sultano si aprì all’improvviso e ne uscirono venti donne, in mezzo alle quali camminava la sultana. Questa principessa, credendo che anche il re della grande Tartaria fosse andato a caccia, avanzò con le sue donne fin sotto le finestre del suo appartamento. Shahzamàn, volendo per curiosità osservarle, si sistemò in modo da poter vedere tutto senza essere visto. Si accorse che le persone che accompagnavano la sultana, per mettersi a loro agio, si scoprivano il viso, tenuto fino allora celato, e si toglievano le lunghe vesti che portavano: ma quello che più d’ogni altra cosa lo meravigliò, fu la scoperta che in quella compagnia, che credeva composta di sole donne, c’erano anche dieci mori, ognuno dei quali si accompagnò con la sua innamorata. La sultana, dal canto suo non stette a lungo senza compagno; ella batté le mani gridando: «Massùd, Massùd!», e tosto un altro moro discese dalla sommità di un albero, e corse da lei con molta premura.

    Non è necessario raccontare ciò che accadde allora; basti dire che Shahzamàn ebbe modo di rendersi conto che suo fratello non era meno infelice di lui. I trattenimenti di quella compagnia durarono fino a mezzanotte. Essi si bagnarono poi in una grande vasca di acqua, che formava uno dei più begli ornamenti del giardino; dopo di che, avendo ripreso le loro vesti, rientrarono per la porta segreta del palazzo del sultano, mentre Massùd, che era venuto da fuori, scavalcando il muro del giardino, se ne ritornò per la stessa via.

    La vista di tali cose, suggerì al re della grande Tartaria, moltissime riflessioni:

    «Quanta poca ragione avevo», diceva, «di credere che la mia disgrazia fosse tanto eccezionale. Questa senza dubbio è l’inevitabile sorte di tutti i mariti; perfino il sultano mio fratello, il sovrano di tanti stati, il più grande principe del mondo, non ha potuto evitarla. Così stando le cose, perché dovrei lasciarmi consumare dall’angoscia? Non se ne parli più; la memoria di una disgrazia tanto comune non disturberà d’ora innanzi il riposo della mia vita».

    Infatti da quel momento non vi pensò più: si fece servire la cena, mangiò di buon appetito e tornò allegro come una pasqua.

    Quando seppe che il sultano era di ritorno, gli andò incontro con aria giuliva; Shahriyàr non notò subito il cambiamento e pensò solo a esprimere il suo rimpianto per l’assenza del fratello. Poi passò a raccontargli del gran numero di cervi e di altri animali da lui uccisi. Shahzamàn, dopo averlo ascoltato con attenzione, ricominciò a sua volta a parlare; e poiché i dispiaceri non gl’impedivano più di rivelare il suo spirito, disse mille cose gradite e piacevoli.

    Il sultano che credeva di trovarlo nello stato in cui lo aveva lasciato, restò meravigliato nel vederlo tanto allegro.

    «Fratello mio», gli disse, «ringrazio il cielo del felice cambiamento operatosi in te durante la mia lontananza; ne provo una vera gioia, solo ti prego di volermene far conoscere la ragione.»

    A questo discorso il re della grande Tartaria se ne stette per qualche tempo pensieroso, come se stesse studiando la risposta.

    Finalmente cominciò a parlare: «Tu sei il mio sultano e il mio padrone, ma ti prego di dispensarmi dal risponderti».

    «No, fratello», soggiunse il sultano, «devi dirmelo; io desidero sapere.»

    Shahzamàn, non potendo resistere alle insistenze di Shahriyàr, rispose: «Ebbene, fratello mio, giacché me lo comandi, voglio soddisfarti».

    Allora gli narrò l’infedeltà della regina di Samarcanda, e quando ebbe terminato il racconto:

    «Questo», proseguì, «era il motivo della mia tristezza; giudica tu se avevo torto».

    «Fratello mio», esclamò il sultano, «che orrenda storia mi hai narrata. Ti lodo per aver castigato i traditori che ti hanno fatto un simile oltraggio. Non si potrebbe rimproverarti per questa azione: essa è giusta e ti confesso che al tuo posto non avrei avuto forse la tua moderazione. Non mi sarei accontentato di togliere la vita a una sola donna; credo che ne avrei sacrificate più di mille. Non mi meraviglio più dei tuoi dispiaceri. La ragione era troppo giusta per non soccombervi. Oh cielo, credo che un fatto simile non sia mai accaduto fuorché a te. Ma ora devi lodare il cielo che ti ha consolato, come vedo: e siccome non dubito che la tua gioia sia ben fondata, raccontami tutto e abbi piena fiducia in me.»

    Shahzamàn ebbe maggior difficoltà su questo punto, e accampò molte scuse, ma dovette cedere.

    «Voglio dunque obbedirti», disse al fratello, «giacché assolutamente lo vuoi. Temo però che la mia obbedienza ti possa causare maggior rammarico di quel che ne ho avuto io; dovrai allora prendertela solo con te stesso perché mi hai costretto a rivelarti una cosa che vorrei seppellire in un eterno oblio.»

    «Ciò che mi dici», soggiunse Shahriyàr, «non fa che stimolare la mia curiosità. Svelami subito questo segreto, di qualunque natura sia.»

    Il re di Tartaria, non potendo più esimersi, fece allora una esatta relazione di quanto aveva veduto; del travestimento dei mori, della libertà della sultana e delle sue donne, e non tacque di Massùd.

    «Dopo essere stato testimonio di tali e tante infamie», continuò, «ho concluso che tutte le donne vi sono naturalmente portate, e che non possono resistere alla loro inclinazione. Avendo così riflettuto, mi parve fosse una grande debolezza affidare la propria serenità alla loro fedeltà. Questa considerazione ne suscitò molte altre e finalmente giudicai che non potevo prendere migliore partito che consolarmi. Ciò mi è costato molti sforzi, ma ha ottenuto l’intento: e se mi presti fede, seguirai il mio esempio.»

    Questo consiglio prudente, non piacque però al sultano.

    «Come!», disse, «la sultana delle Indie è capace di prostituirsi in una maniera tanto indegna? No, fratello, non posso credere a ciò che dici, se non lo vedo coi miei propri occhi. Forse ti sei ingannato, e si tratta di cosa troppo importante per crederla senza prove.»

    «Fratello mio», rispose Shahzamàn, «se vuoi esserne testimonio, non è difficile; non hai che da ordinare una nuova partita di caccia, e quando saremo fuori città con la corte, ci fermeremo sotto ai nostri padiglioni, e la notte torneremo soli nel mio appartamento. Sono sicuro che il giorno seguente potrai vedere quello che io pure ho visto.»

    Il sultano approvò lo stratagemma, e subito ordinò una nuova caccia, così che, nello stesso giorno, furono alzati i padiglioni nel luogo fissato.

    Il giorno seguente i due principi partirono con tutto il loro seguito. Giunsero al luogo stabilito, e vi si fermarono fino a notte. Shahriyàr allora chiamò il suo gran visir, e senza manifestargli il suo disegno, gli comandò di sostituirlo durante la sua assenza, non permettendo a nessuno di uscire dal campo per qualunque motivo. Dopo aver dato questo ordine, il re della grande Tartaria ed il sultano salirono a cavallo, attraversarono senza essere riconosciuti il campo, rientrarono in città e andarono al palazzo dove abitava Shahzamàn. Non appena giunti s’appostarono alla finestra, dalla quale il re di Tartaria aveva veduta la scena dei mori. Essi godettero qualche tempo del fresco della sera, s’intrattennero lanciando spesso sguardi verso la porta segreta.

    Quella finalmente s’aprì: e, per farla breve, la sultana comparve con le sue donne e dieci mori mascherati. Chiamò Massùd, ed il sultano vide tutto e si convinse anche troppo della propria vergogna e disgrazia.

    «Ohimè!», esclamò, «che orrore! La moglie di un sovrano quale sono io è capace di questa infamia? Dopo di ciò quale principe si glorierà di essere perfettamente felice? Ah, fratello mio», proseguì, abbracciando il re di Tartaria, «rinunciamo ambedue al mondo! La buonafede ne è bandita; se essa da una parte lusinga, dall’altra tradisce. Abbandoniamo i nostri stati, e tutta la magnificenza che ci circonda. Andiamo in terre straniere a menare una vita semplice e privata, occultando la nostra disgrazia!»

    Shahzamàn non approvò questa risoluzione; non ebbe animo di opporvisi, conoscendo l’indole di Shahriyàr.

    «Fratello mio», gli disse, «il mio volere dipende dal tuo. Sono pronto a seguirti ovunque ti piacerà: ma promettimi che ritorneremo qui, se troveremo qualcuno più infelice di noi.»

    «Te lo prometto», rispose il sultano.

    «Allora», replicò il re di Tartaria, «non viaggeremo a lungo.»

    Uscirono segretamente dal palazzo e s’incamminarono per una strada diversa da quella per la quale erano venuti. Camminarono tutto il giorno, e passarono la prima notte sotto gli alberi. Levatisi sul far del giorno, continuarono il loro cammino, finché giunsero ad una prateria situata in vicinanza del mare, nella quale vi erano qua e là grandi alberi frondosi. Si sedettero sotto uno di quegli alberi per riposarsi e rinfrescarsi e l’infedeltà delle principesse loro mogli formò il soggetto della loro conversazione.

    Non era molto tempo che si riposavano, quando udirono molto vicino ad essi un terribile strepito che veniva dalla parte del mare, e uno spaventevole grido che li riempì di terrore. Allora si aprì il mare, e ne uscì come una nera e grossa colonna, che pareva andasse a nascondersi nelle nuvole.

    Ciò raddoppiò il loro spavento; rapidamente si rialzarono, e salirono sulla cima di un albero, per meglio vedere di che si trattasse. Non appena furono lassù, videro che la nera colonna si accostava alla sponda, rompendo le onde. Non poterono sul momento comprendere che potesse essere; ma ne furono ben presto edotti.

    Era uno di quei geni maligni, mortali nemici degli uomini: era nero e orrendo, aveva la forma di un gigante di prodigiosa altezza, e portava sopra il capo una gran cassa di vetro chiusa con quattro serrature di fine acciaio. Entrò nella prateria con quel carico, che andò a posare proprio ai piedi dell’albero ove erano quei due principi, i quali, rendendosi conto di essere in posizione molto pericolosa, si credettero perduti.

    Intanto il genio si sedette vicino alla cassa e l’aprì con quattro chiavi che teneva appese alla cintura: ne uscì tosto un donna riccamente vestita, dal portamento maestoso e dalla bellezza perfetta.

    Il mostro la fece sedere al suo fianco, e guardandola, le disse amorosamente:

    «Donna, la più perfetta di quante sono ammirate per la loro bellezza, vezzosa creatura che ho rapita il giorno delle nozze, e che ho sempre amata costantemente, vorresti concedermi di riposare qualche momento vicino a te? Il sonno dal quale mi sento oppresso m’ha fatto venire in questo luogo per prendere un poco di riposo».

    Ciò detto, lasciò cadere il suo gran capo sopra le ginocchia della donna, poi avendo allungato i piedi, che arrivavano fino al mare, non tardò ad addormentarsi, e subito russò in modo che fece risuonare la sponda.

    La donna, allora, per caso alzò gli occhi, e vedendo in cima all’albero i principi, fece loro cenno con la mano di scendere senza timore. Il loro spavento fu grande allorché si videro scoperti. Supplicarono la donna a segni di concedere loro di non obbedirle: ma lei, dopo aver pian piano levato il capo del genio dalle sue ginocchia, adagiandolo leggermente sulla terra, si alzò e disse loro con voce bassa, ma vivace:

    «Scendete, bisogna assolutamente che veniate da me».

    Essi tentarono di convincerla, ma lei rispose:

    «Se non vi sbrigate a scendere, lo sveglierò e gli chiederò la vostra morte!».

    Allora, spaventati, scesero con tutte le precauzioni possibili per non svegliare il genio.

    Come furono a terra la donna li prese per mano, ed allontanatasi un poco con loro sotto gli alberi, fece liberamente una proposta che quelli dapprima rifiutarono, ma che lei con minacce li obbligò ad accettare.

    Ottenuto che ebbe da loro quanto desiderava, avendo osservato che ciascuno portava al dito un anello, glielo domandò. Appena avuti i due anelli, andò a prendere un vasetto da un involto dove teneva i suoi oggetti di toeletta, e ne cavò un filo su cui erano infilati altri anelli di ogni sorta, e mostrandoli loro:

    «Sapete voi», disse, «che significano questi gioielli?».

    «No», risposero quelli.

    «Questi sono», riprese la donna, «gli anelli di tutti coloro ai quali ho accordato il mio affetto: sono novantotto ben numerati che conservo per ricordo; vi ho chiesti i vostri per la stessa ragione, e al fine arrivare al centinaio. Ecco dunque», continuò, «cento amanti che ho avuto finora a dispetto della sorveglianza e delle precauzioni di questo indiscreto genio, che non mi abbandona mai. Ha un bel rinchiudermi in questa cassa di vetro, e tenermi nascosta in fondo al mare: io eludo sempre la sua vigilanza. Da ciò comprendete che quando una donna ha stabilito un progetto, non vi è né marito, né amante che possa impedirne l’esecuzione. Gli uomini farebbero meglio a non contraddirle, perché questo sarebbe il vero mezzo di renderle savie.»

    Ciò detto infilò i loro anelli con gli altri, e, sedutasi come prima, sollevò il capo del genio, che non si svegliò, e se lo pose di nuovo sopra le ginocchia, accennando ai principi di ritirarsi.

    Essi ripigliarono il cammino per dove erano venuti, e quando ebbero perduto di vista la donna e il genio, Shahriyàr disse a Shahzamàn:

    «Ebbene, fratello, che ne pensi di quel che ci è accaduto? Il genio non ha una innamorata molto fedele. Non ti pare che nulla eguagli la malizia delle donne?».

    «Sì, sì, fratello mio», rispose il re della grande Tartaria, «e devi pur convenire che il genio è degno di maggiore compatimento. E poiché abbiamo trovato chi è più infelice di noi, torniamo ai nostri stati. Ciò non deve impedire che ci risposiamo.

    In quanto a me, so quale mezzo adoperare perché mi sia serbata inviolata la fede che mi è dovuta. Non voglio per ora spiegarmi: ma un giorno saprai il mio segreto e sono sicuro che seguirai il mio esempio.»

    Il sultano fu d’accordo col fratello, e continuando a camminare, giunsero al campo, sul finire della notte del terzo giorno dalla loro partenza.

    Essendosi divulgata la notizia del ritorno del sultano, i cortigiani si recarono di buon mattino al suo padiglione. Egli li fece entrare, li accolse con aria più ridente del solito, e dispensò cortesie a tutti. Dopo di che non volendo andar oltre, comandò di salire a cavallo e ritornò subito al suo palazzo.

    Come vi fu giunto, corse nell’appartamento della sultana, la fece legare, e la affidò al gran visir con l’ordine di farla strangolare: e questo ministro eseguì l’ordine senza neppure chiedere che delitto avesse commesso.

    Lo sdegnato principe non si contentò di questo, che di sua propria mano recise il capo a tutte le donne della sultana.

    Dopo questo rigoroso castigo, persuaso che non vi erano donne oneste, per prevenire l’infedeltà di quelle che avrebbe preso nel futuro, decise di sposarne una per notte e di farla poi strangolare il giorno seguente.

    Promulgata questa legge crudele, giurò di osservarla immediatamente dopo la partenza del re di Tartaria, il quale, dopo poco tempo, si congedò da lui e si mise in viaggio carico di magnifici regali.

    Partito Shahzamàn, Shahriyàr non mancò di ordinare al suo gran visir di condurgli la figliuola di uno dei generali dell’esercito. Il visir obbedì. Il sultano la tenne con sé una notte, e il giorno seguente la affidò al visir, ordinandogli di ucciderla, e nel medesimo tempo gli ingiunse di trovargli un’altra fanciulla per la notte seguente.

    Quantunque il visir provasse ripugnanza nell’eseguire simili ordini, poiché doveva prestare al sultano suo padrone una cieca obbedienza era obbligato a sottomettervisi. Gli condusse dunque la figliola di un cittadino della capitale che fu uccisa il giorno dopo; fu poi la volta della figlia di un borghese. Insomma ogni giorno c’era una fanciulla maritata ed una donna morta.

    La fama di tanta mancanza di umanità senza precedenti suscitò una generale costernazione nella città. Non vi si sentivano che clamori e lamenti. Qui un padre piangeva e si disperava per la perdita della figliola, là si vedevano madri affettuose, che temendo che le loro figliole incontrassero la stessa sorte, facevano dolorosamente, e prima della sventura, echeggiare l’aria dei loro pianti; cosicché invece delle lodi e benedizioni che sino allora erano state tributate al sultano, tutti i suoi sudditi non facevano che imprecare contro di lui.

    Il gran visir, il quale, come già si è detto, era contro la sua volontà esecutore di questa crudele ingiustizia, aveva due figliole; la maggiore delle quali si chiamava Shahrazàd, e Dunyzàd la più giovane. Quest’ultima non era senza meriti, ma l’altra aveva un coraggio superiore al suo sesso, uno spirito singolare e possedeva una meravigliosa perspicacia.

    Aveva molto letto, e possedeva una memoria tanto prodigiosa, che non aveva dimenticato nulla. Aveva studiato con successo la filosofia, la medicina, la storia, le belle arti, e componeva versi meglio dei più celebri poeti del suo tempo. Oltre a ciò era di perfetta bellezza, e una grande virtù coronava le sue belle qualità.

    Il visir amava appassionatamente questa figliola, veramente degna del suo amore. Un giorno in cui s’intratteneva con lei, ella gli disse:

    «Padre mio, devo chiederti una grazia, che umilmente ti supplico di concedermi».

    «Io non te la negherò», rispose il visir, «purché sia ragionevole e giusta.»

    «Per giusta», gli replicò Shahrazàd, «non può esserlo di più; e lo potrai giudicare dal motivo che mi obbliga a chiedertela. Ho in mente di fermare le efferatezze che il sultano compie contro le famiglie di questa città. Voglio dissipare il giusto timore che tante madri hanno di perdere le loro figliole in una maniera tanto funesta. »

    «La tua intenzione è molto lodevole, o mia cara figliola», disse il visir, «ma il male al quale vuoi porre rimedio mi pare irreparabile. Come vorresti conseguire il tuo scopo?»

    «Padre mio», riprese Shahrazàd, «giacché per tuo mezzo il sultano celebra ogni giorno un nuovo matrimonio, io ti scongiuro, per il tenero amore che hai per me, di procurarmi l’onore di essergli moglie.»

    Il visir non poté udire senza orrore un simile discorso.

    «Ohimè», rispose con viva angoscia, «hai perduta la ragione, figliola? Come puoi farmi una preghiera tanto pericolosa? Tu ben sai che il sultano ha fatto giuramento sopra la sua anima di non sposarsi se non una notte sola con la stessa donna, e di ucciderla la mattina seguente: e tu vuoi che io gli proponga di sposarti? Sai a che cosa ti esporrebbe il tuo zelo indiscreto?»

    «Sì, padre mio», rispose la saggia figliola, «conosco tutto il pericolo al quale mi espongo, e questo non può intimorirmi. Se muoio, la mia morte sarà gloriosa; e se riesco nella mia impresa, renderò alla mia patria un importante servizio.»

    «No, no», disse il visir, «qualunque ragione tu possa addurre, non pensare che io possa acconsentire alla tua richiesta! Quando il sultano mi ordinerà d’immergerti il pugnale nel seno, ohimè, dovrò obbedire! Oh, doloroso ufficio per un padre! Ah, se tu non temi la morte, pensa almeno al mortale dolore di vedere la mia mano tinta dal tuo sangue.»

    «Per questa sola volta, padre mio», disse Shahrazàd, «concedimi la grazia che ti chiedo.»

    «Sei ostinata», riprese il visir, «e questo mi irrita molto. Perché mai correre alla tua perdita? Chi non prevede la fine di una pericolosa impresa non può uscirne con onore. Temo che accada a te ciò che successe all’asino che stava bene e non seppe contentarsene.»

    «Quale disgrazia accadde mai a quell’asino?», riprese Shahrazàd.

    «Te la narrerò, ascoltami.»

    L’asino, il bue e l’agricoltore

    Un ricchissimo mercante possedeva molte case in campagna, nelle quali nutriva una gran quantità di bestie di ogni sorta. Si ritirò con sua moglie ed i suoi figli in una delle sue terre per accudire egli stesso alle sue faccende.

    Egli aveva il dono di capire il linguaggio degli animali, ma a questa condizione, che se l’avesse spiegato a qualcuno si sarebbe esposto al pericolo di perdere la vita: il che gli impediva di comunicare le cose che comprendeva grazie a tale dono.

    Stavano alla stessa mangiatoia un bue e un asino. Un giorno che egli era seduto vicino ad essi, mentre stava divertendosi a veder giuocare i suoi figli, udì che il bue diceva all’asino:

    «Come sei felice, tu che godi tanto riposo, mentre ben poca fatica si richiede da te! Un uomo ti governa, ti lava, ti dà dell’orzo e dell’acqua fresca e limpida. La tua maggior pena sta nel portare il mercante nostro padrone quando deve fare qualche breve viaggio: senza questo passeresti tutta la tua vita nell’ozio. Io invece vengo trattato in modo ben diverso, e il mio stato è tanto infelice, quanto il tuo è beato. Non appena è giorno vengo attaccato a un aratro, che sono forzato a trascinare tutto il giorno per rompere la terra: il che mi stanca tanto che qualche volta le forze mi mancano. Ciò nonostante l’agricoltore, che è sempre dietro di me, non tralascia di bastonarmi. A forza di tirar l’aratro ho il collo tutto scorticato.

    Alla tine, dopo aver ben arato da mattina a sera, al mio ritorno mi vengono date da mangiare solo fave secche e cattive, non buone per seminare, o altre cose di minor conto. Per colmo di miseria, quando mi sono pasciuto di questa robaccia, sono obbligato a passar la notte nel mio letame. Vedi dunque se non ho ragione d’invidiare la tua sorte?».

    L’asino non interruppe mai il discorso del bue, ma quando ebbe terminato di parlare, gli disse:

    «Tu sei sempre il solito ignorante; sei troppo semplice, e ti lasci condurre come si vuole, né sai prendere una buona risoluzione. Intanto quale vantaggio ottieni da tutte le indegnità che soffri? Ti ammazzi per il riposo e il profitto di coloro che non ce ne sono grati per nulla. Non saresti trattato in questa maniera se il tuo coraggio uguagliasse la tua forza. Quando l’agricoltore viene per attaccarti all’aratro, perché non fai resistenza? Perché non gli dai delle cornate? Perché non dimostri il tuo sdegno, scalpitando? Perché insomma non gli ispiri timore con spaventevoli muggiti? La natura ti ha fornito i mezzi per farti rispettare, e tu non te ne servi. Ti vengono date fave passite e cattiva paglia? Non mangiarle. Odorale solamente e lasciale. Se seguirai i consigli che ti do, vedrai ben presto un cambiamento e mi ringrazierai».

    Il bue ascoltò attentamente i consigli dell’asino, e gli dimostrò quanto gli fosse obbligato.

    «Caro asino», soggiunse, «non mancherò di fare tesoro dei tuoi consigli e vedrai come me ne servirò.»

    Dopo questo dialogo, di cui il mercante non aveva perso sillaba, essi tacquero.

    La mattina seguente sul far del giorno l’agricoltore andò a prendere il bue, l’attaccò all’aratro, e lo condusse al solito lavoro.

    Il bue, che non aveva dimenticato il consiglio dell’asino, si mostrò molto arrabbiato quel giorno: e la sera, quando l’agricoltore lo ricondusse alla mangiatoia e volle attaccarlo secondo l’usanza, il malizioso animale, invece di presentare da sé le corna, fece il ribelle e rinculò muggendo, abbassando il capo per cozzare contro l’agricoltore. Eseguì insomma tutta la scena che l’asino gli aveva consigliato.

    Il giorno seguente l’agricoltore andò a prenderlo per ricondurlo al lavoro: ma trovando la mangiatoia piena delle fave e della paglia che la sera vi aveva poste e il bue coricato a terra con le gambe distese, ed ansante, lo credette gravemente ammalato, ne ebbe pietà, e giudicando che sarebbe stato inutile condurlo, andò subito ad avvertire il mercante.

    Egli si accorse che i pessimi consigli dell’asino erano stati messi in pratica, e per castigarlo come meritava:

    «Vai», disse all’agricoltore, «e poni l’asino al posto del bue, fallo arare in sua vece, e fallo stancare ben bene».

    L’agricoltore obbedì.

    L’asino fu obbligato a tirare l’aratro tutto quel giorno, il che lo stancò molto, non essendo abituato a quel lavoro. Oltre a ciò ricevette tante bastonate che al ritorno non poteva reggersi in piedi.

    Il bue frattanto era contentissimo.

    Aveva mangiato quanto c’era nella mangiatoia ed era stato a riposo tutto il giorno. Si rallegrava di aver fatto buon uso dei consigli del suo compagno e lo benediva mille volte per il bene che gli aveva procurato né trascurò di complimentarsi di nuovo con lui quando lo vide arrivare.

    L’asino non rispose al bue, tanto era il dispetto che lo divorava.

    «La mia sola imprudenza», diceva fra sé, «mi ha procurato questa disgrazia. Vivevo felice, tutto mi sorrideva, avevo ciò che desideravo, ed è colpa mia se mi trovo in questo stato deplorevole; se non invento qualche astuzia per liberarmene la mia rovina è certa.»

    Mentre si diceva queste cose era talmente privo di forze, che si lasciò cadere mezzo morto accanto alla sua mangiatoia...

    A questo punto il gran visir, voltandosi a Shahrazàd, le disse:

    «Figlia mia, tu appunto come quell’asino: rischi di perderti a causa della tua imprudenza. Credimi, stattene quieta e non cercare la morte».

    «Padre mio», rispose Shahrazàd, «la favola che mi hai narrata non può farmi mutare risoluzione, né tralascerò d’importunarti finché non avrò ottenuto di essere presentata al sultano.»

    Il visir vedendo che lei persisteva nella sua richiesta, soggiunse:

    «Dunque, non vuoi rinunciare alla tua ostinazione? Sarò obbligato a trattarti nella stessa maniera con cui il mercante, del quale ti ho raccontato la storia, trattò sua moglie poco tempo dopo. Ascolta!

    Questo mercante avendo saputo che l’asino si trovava in uno stato pietoso, ebbe curiosità di sentire cosa si sarebbero detti gli animali. Per cui dopo cena se ne uscì al chiaro di luna, e andò a sedersi vicino ad essi in compagnia di sua moglie. Arrivando udì l’asino che diceva al bue:

    Compare, dimmi, te ne prego, cosa pensi di fare quando l’agricoltore ti porterà domani da mangiare?.

    Cosa farò?, rispose il bue, continuerò a fare quanto mi hai insegnato. Indietreggerò, presenterò le corna come ieri, farò l’ammalato e fingerò di essere vicino alla morte.

    Pensaci bene, replicò l’asino, questo sarebbe il vero mezzo per morire, perché arrivando questa sera ho sentito che il mercante nostro padrone diceva un certo non so che, che mi ha fatto tremare per amor tuo.

    Ebbene, che hai udito?, disse il bue, non nascondermi nulla, di grazia, mio caro asino.

    Il nostro padrone, riprese l’asino, ha detto all’agricoltore queste crudeli parole: ‘Giacché il bue non mangia né può stare in piedi, voglio che domattina sia ammazzato: ne faremo carne salata’, non può dunque tardare a venire il macellaio. Questo è quello di cui ti devo avvertire, soggiunse l’asino, l’interesse che ho per la tua buona salute, e l’amore che ho per te mi obbligano ad avvertirtene e a darti un nuovo consiglio. Non appena ti verranno date le fave e la paglia, alzati ed avventati con avidità. Il padrone giudicherà da questo che sei guarito e senza dubbio revocherà la sentenza di morte; se agirai diversamente per te è finita.

    Questo discorso produsse l’effetto che l’asino si era proposto: il bue rimase stranamente confuso, e muggì di spavento.

    Il mercante, il quale li aveva ascoltati con molta attenzione, proruppe in una gran risata, di modo che sua moglie ne restò stupefatta.

    Raccontami, gli disse, perché ridi con tanta forza, perché anch’io rida con te.

    Moglie mia, accontentati di sentirmi ridere.

    No, riprese quella, voglio saperne la ragione.

    Non posso darti questa soddisfazione, riprese a dire il marito, sappi solamente che io rido di quanto il nostro asino ha detto al nostro bue. Il resto è un segreto che non mi è concesso di rivelarti.

    E chi ti proibisce di rivelarmelo?, replicò lei.

    Se te lo dicessi, egli rispose, mi costerebbe la vita.

    Ti burli di me, esclamò la donna, ciò che mi dici non può essere vero. Se non mi riveli subito il motivo del tuo riso; se rifiuti di ripetermi ciò che l’asino e il bue hanno detto, giuro per Maometto, che non vivremo più insieme!

    Dette queste parole rientrò in casa e si mise in un angolo, dove passò tutta la notte piangendo amaramente.

    Il marito se ne stette solo nel letto, e la mattina vedendo che lei non cessava di lamentarsi:

    Non sei saggia, le disse, affliggendoti in tal modo. Non ne vale la pena, e a te importa così poco di saperlo, quanto a me invece importa di tenerlo nascosto. Non ci pensare dunque più, te ne scongiuro.

    Ci penso tanto, rispose la moglie, che non tralascerò di piangere fino a che non avrai appagata la mia curiosità.

    Ma ti dico seriamente che mi costerà la vita, replicò lui, se mi arrendo alle tue indiscrete domande.

    Succeda quel che Dio vuole, ma io non cederò.

    Vedo benissimo, soggiunse il mercante, che non vi è mezzo di farti intender ragione; perciò vado a chiamare i ragazzi, perché abbiano la consolazione di vedermi, prima che io muoia.

    Fece venire i suoi figlioli, e mandò una persona a chiamare il padre e la madre e i parenti di sua moglie.

    Radunati che furono, e dopo che ebbe spiegato loro di cosa si trattava, quelli usarono tutta la loro eloquenza per far comprendere alla moglie che aveva torto a non voler cedere: ma quella, respingendo ogni consiglio, rispose che ben volentieri sarebbe morta piuttosto di cedere a suo marito.

    Il padre e la madre invano si affaticarono a persuaderla che la cosa che desiderava sapere era di minima importanza; essi non l’ebbero vinta né con l’autorità né con le parole.

    Quando i suoi figli videro ch’ella si ostinava a rifiutare tutte le buone ragioni con le quali si voleva vincere la sua caparbietà, si misero a piangere a dirotto.

    Il mercante stesso non sapeva più che dire e che fare. Solo, seduto vicino alla porta di casa, se ne stava a pensare se dovesse sacrificare la propria vita per risparmiare quella di sua moglie, che amava molto».

    «Ora, figliola mia», continuò il visir parlando sempre a Shahrazàd, «questo mercante aveva cinquanta galline e un gallo, con un cane che faceva loro la guardia. Mentre se ne stava a sedere, come ho già detto, e profondamente pensava al partito da prendere, vide il cane correre verso il gallo, il quale si era avventato sopra una gallina, e sentì che gli parlava nei seguenti termini.

    O gallo, la sorte non permetterà che tu viva ancora a lungo. Non hai vergogna a comportarti così proprio oggi?

    Il gallo si rizzò sopra i suoi speroni e voltandosi dalla parte del cane:

    Perché mai, rispose fieramente, ciò mi verrebbe proibito oggi, piuttosto che negli altri giorni?

    Sappi dunque, replicò il cane, che il nostro padrone è oggi in grave imbarazzo. Sua moglie vuole che egli le riveli un segreto, il quale è di natura tale che gli costerebbe la vita se lo manifestasse. La situazione è tale che temo che egli non abbia sufficiente costanza per resistere all’ostinazione di sua moglie, perché l’ama, ed è intenerito dalle lacrime che incessantemente ella sparge. Egli forse morirà. Noi tutti in questa casa lo temiamo. Tu solo, insultando la nostra tristezza, tu solo dico, hai l’impudenza di divertirti con le galline!

    Quanto è mai insensato il nostro padrone! Ha una sola moglie, e non sa dominarla: mentre io ne ho cinquanta, che eseguono puntualmente ciò che voglio. Faccia dunque ricorso alla ragione e troverà subito il mezzo per uscire dall’imbarazzo nel quale si trova.

    E che vorresti facesse?, disse il cane.

    Che entri nella camera di sua moglie, rispose il gallo, e dopo esservisi rinchiuso con lei, prenda un bastone e le dia un sacco di bastonate; sono certo che dopo lei diventerà ubbidiente e non lo solleciterà più oltre per dire ciò che non deve.

    Non appena il mercante ebbe udito quanto il gallo aveva detto, si alzò, e preso un grosso bastone, andò a trovare sua moglie, che continuava a piangere; si chiuse con lei, e tanto duramente la bastonò, che lei non poté fare a meno di esclamare:

    Basta, oh marito, basta! Lasciami, non ti chiederò più nulla!

    A queste parole, comprendendo che lei si rendeva conto d’essere stata tanto a sproposito curiosa, smise di maltrattarla, aprì la porta, ed entrarono tutti i parenti i quali si rallegrarono di ritrovare la donna guarita dalla sua ostinazione, e fecero i complimenti al marito per il felice espediente del quale si era servito per ridurla alla ragione».

    «Figliola mia», soggiunse il visir, «meriteresti d’essere trattata nella stessa maniera con cui fu trattata la moglie del mercante.»

    «Padre mio», disse allora Shahrazàd, «di grazia non ti dispiaccia se io persisto nei miei propositi: la storia di questa donna non può farmi mutar parere. Potrei narrartene molte altre per convincerti che non devi opporti ai miei desideri. Peraltro, perdonami se ardisco dirlo, tu ti opponi invano: poiché se per amore non aderirai alla mia preghiera, andrò io stessa a presentarmi al sultano.»

    Il padre finalmente, stanco dell’insistenza della figliola, si arrese, quantunque afflittissimo di non averla potuta distogliere da una risoluzione tanto funesta e andò a trovare Shahriyàr, per annunciargli che la prossima notte gli avrebbe condotto Shahrazàd.

    Il sultano restò molto meravigliato del sacrificio che il suo gran visir gli faceva.

    «Come mai hai potuto risolverti a mettere in mio potere la tua stessa figliola?»

    «Sire», gli rispose il gran visir, «si è offerta spontaneamente. L’infelice destino che l’attende non ha potuto intimorirla; preferisce, al vivere, l’onore di essere la sposa della maestà vostra.»

    «Ma non ti lusingare o visir», riprese il sultano, «domani ti affiderò Shahrazàd, con l’ordine di ucciderla. Se mancherai ti giuro che ti farò morire!»

    «Sire, il mio cuore certamente si spezzerà dal dolore nell’obbedirvi; ma niente avrà da rimproverarmi, perché vi prometto una esecuzione fedele.»

    Shahriyàr accettò l’offerta del suo ministro, e gli disse che stava a lui di condurgli la figliuola quando gli piacesse.

    Il gran visir andò a portare questa notizia a Shahrazàd, la quale l’ascoltò con giubilo, come se si fosse trattato della notizia più gradita del mondo.

    Ringraziò suo padre per averla accontentata, e vedendolo oppresso dal dolore, gli disse, per consolarlo, che sperava che non avrebbe avuto da pentirsi di averla maritata col sultano, ma che al contrario avrebbe avuto ragione di rallegrarsene per tutto il resto dei suoi giorni.

    Poi non pensò ad altro che ad acconciarsi in modo da comparire nel miglior modo possibile alla presenza del sultano, e prima di partire si ritirò in segreto con sua sorella Dunyazàd, dicendo:

    «Cara sorella, ho bisogno del tuo aiuto in un affare importantissimo. Nostro padre sta per condurmi alla casa del sultano per farmi sua sposa: non spaventarti per questa notizia; ascoltami solamente con pazienza. Quando sarò alla presenza del sultano lo supplicherò di permettere che tu dorma nella camera nuziale, perché io possa ancora in quella notte godere della tua compagnia. Se acconsenti, come spero, al mio desiderio, ricordati di svegliarmi domani un’ora avanti giorno, e di dirmi pressappoco queste parole: Sorella mia, ti prego, prima che spunti il giorno, di narrarmi una delle belle favole che tu sai. Io subito te ne racconterò una, e mi lusingo con tal mezzo di liberare il popolo dalla costernazione in cui si trova...».

    Dunyazàd rispose che avrebbe fatto con grande piacere quanto ella le domandava.

    Giunta finalmente l’ora di andarsene a letto il gran visir condusse Shahrazàd al palazzo, e, dopo averla introdotta nell’appartamento del sultano, si ritirò.

    Il principe, appena si vide solo con lei, le comandò di scoprirsi il viso e la trovò tanto bella, che ne rimase incantato: ma osservando che quella si struggeva in pianto, gliene chiese la cagione.

    «Sire», rispose Shahrazàd, «ho una sorella che amo teneramente e da cui sono egualmente corrisposta; vorrei che ella passasse la notte in questa camera, per godere la consolazione di vederla e per darle l’ultimo addio. Volete concedermi la gioia di darle quest’ultima prova del mio amore?»

    Shahriyàr avendo acconsentito, mandò a chiamare Dunyazàd, la quale accorse prontamente. Il sultano si mise a letto con Shahrazàd, sopra un giaciglio molto alto, all’usanza dei monarchi orientali, e Dunyazàd sopra un letto che le era stato preparato lì accanto.

    Un’ora prima del giorno, essendosi Dunyazàd svegliata, non aveva trascurato di adempiere a quanto le aveva raccomandato sua sorella.

    «Sorella mia cara», esclamò, «se non dormi, ti prego, prima che appaia il giorno, di narrarmi una delle novelle che tu sai. Ohimè, questa sarà forse l’ultima volta che godrò un tale piacere!»

    Shahrazàd, invece di rispondere a sua sorella, si voltò al sultano, e gli disse:

    «Sire, vostra maestà vuole concedermi che io dia questa soddisfazione a mia sorella?».

    «Ben volentieri», rispose il sultano.

    Allora Shahrazàd disse a sua sorella di prestarle attenzione: e rivoltasi a Shahriyàr cominciò a narrare la prima novella.

    Il mercante e il genio

    C’era una volta un mercante che possedeva grandi ricchezze. Un giorno, poiché un affare importante lo chiamava lontano dal luogo ove soggiornava, salì a cavallo e partì con una valigia in cui aveva riposta una piccola provvista di biscotti e di datteri, dovendo attraversare un paese deserto dove non avrebbe trovato di che vivere. Arrivò senza nessun incidente al luogo indicato, e, quando ebbe sbrigato il suo affare, risalì a cavallo per tornarsene a casa.

    Il quarto giorno del suo viaggio, faceva così caldo e il sole bruciava tanto che egli decise di abbandonare il cammino per andarsi a rinfrescare sotto alcuni alberi che aveva visto nella campagna. Vicino a un gran noce trovò una fontana di acqua chiarissima. Pose il piede a terra, attaccò il cavallo a un albero e si sedette vicino alla fonte, dopo aver tirato fuori dalla valigia alcuni datteri e un po’ di biscotti. Mangiando i datteri ne gettava i noccioli a destra e a sinistra. Quando ebbe terminato quel pasto frugale, da buon musulmano si lavò le mani, il viso e i piedi, e fece la preghiera.

    Era ancora in ginocchio quando vide apparire un genio tutto bianco per la vecchiaia, di dimensioni enormi, che, avanzando fino a lui con la sciabola in mano, gli disse con una voce terribile:

    «Alzati, perché io ti uccida, come tu hai ucciso mio figlio!», e accompagnò queste parole con un grido spaventoso.

    Il mercante atterrito dall’orrida figura del mostro, e dalle parole che gli aveva rivolte, rispose tremando:

    «Mio buon signore, di quale delitto sono colpevole, perché mi togliate la vita?».

    «Io voglio ucciderti, perché hai ucciso mio figlio.»

    «Oh, buon Dio!», disse il mercante, «come ho potuto uccidere vostro figlio se non lo conosco neppure?»

    «Ecco ciò che hai fatto: ti sei seduto arrivando qui, hai tolto dei datteri dalla tua valigia, e, mangiandoli, nei hai gettati i noccioli a destra e a sinistra.»

    «Ho fatto infatti ciò che dite», rispose il mercante, «non posso negarlo. Ma che male c’è?»

    «Facendo così», riprese il genio, «io ti dico che hai ucciso mio figlio. Infatti mentre tu gettavi i noccioli, mio figlio passava: ne ha ricevuto uno nell’occhio e ne è morto; quindi ora ti ucciderò.»

    «Ah, signore, perdono!», gridò il mercante.

    «Niente perdono», rispose il genio, «nessuna misericordia. Non è forse giusto uccidere chi ha ucciso?»

    «Sono d’accordo», disse il mercante, «ma io vi assicuro che non ho ucciso vostro figlio: e quando ciò fosse stato, si tratterebbe di una disgrazia. Sono innocente e di conseguenza vi supplico di perdonarmi e di lasciarmi in vita.»

    «No, no», disse il genio persistendo nella sua risoluzione, «bisogna che io ti uccida, come hai ucciso mio figlio!»

    Detto ciò afferrò il mercante per un braccio, lo gettò a terra, e alzò la sciabola per tagliargli la testa.

    Intanto il mercante, piangendo e protestando la sua innocenza, lamentava la sorte della sposa e dei figliuoli e diceva le cose più commoventi del mondo. Il genio, sempre con la sciabola sguainata, ebbe la pazienza di aspettare che l’infelice terminasse i suoi lamenti, ma non si lasciò minimamente commuovere.

    «Tutte queste parole sono superflue», gridò, «quando pure le tue lacrime fossero di sangue, ciò non m’impedirebbe di ucciderti come tu uccidesti mio figlio!»

    «Dunque», replicò il mercante, «volete assolutamente togliere la vita ad un povero innocente?»

    «Sì», rispose il genio.

    A questo punto Shahrazàd accorgendosi che era ormai giorno, tacque.

    «Che magnifico racconto!», esclamò allora Dunyazàd.

    «Il seguito è ancora più bello!», ribatté Shahrazàd. «Purtroppo non lo potrai udire, a meno che il sultano non mi accordi di raccontarlo la notte prossima.»

    Shahriyàr che aveva ascoltato con grande diletto la novella, decise in cuor suo di rimandare la morte della giovane al giorno seguente, così da poterne udire la fine.

    Nel frattempo il gran visir era in preda all’angoscia. Non aveva potuto chiudere occhio in tutta la notte e aveva continuato a pensare alla triste sorte della figlia.

    Si può immaginare il suo sollievo quando vide entrare il sultano nella sala del consiglio, senza che gli avesse dato l’ordine funesto come ogni mattina.

    Il sultano, come ogni giorno, si occupò degli affari dello stato e, quando venne la notte, fece chiamare ancora Shahrazàd.

    All’alba Dunyazàd, che aveva dormito ancora nella camera, non mancò di chiedere alla sorella il seguito della storia.

    «Continua», disse il sultano, senza aspettare che Shahrazàd gliene domandasse il permesso, «continua il racconto del genio e’ del mercante, perché sono curioso di conoscerne la fine.»

    Shahrazàd allora ricominciò a raccontare:

    Quando il mercante vide che il genio stava per troncargli la testa, gettò un grido e gli disse:

    «Abbiate la bontà di accordarmi una dilazione: datemi il tempo di andare a dire addio alla mia sposa e ai miei figli. Voglio dividere fra loro i miei beni, perché non debbano poi litigare dopo la mia morte. Ciò fatto, tornerò in questo luogo per sottomettermi a tutto quello che vorrete fare di me».

    «Temo», disse il genio, «che se ti accordo la dilazione che mi domandi, tu possa non tornare.»

    «Non dubitate! Io giuro per il Dio del cielo e della terra che ritornerò!»

    «Quanto tempo starai assente?», replicò il genio.

    «Vi domando un anno, perché non posso in minor tempo sistemare i miei affari, e dispormi a rinunciare senza rammarico al piacere della vita. Prometto che fra un anno senza fallo tornerò sotto questi alberi per rimettermi nelle vostre mani.»

    Il genio lo lasciò presso la fontana e disparve.

    Il mercante, essendosi rimesso dallo spavento, risalì a cavallo e riprese il suo viaggio: ma se da un lato era lieto di aver evitato un così gran pericolo, dall’altro era in una mortale tristezza pensando al fatale giuramento che aveva fatto.

    Quando arrivò a casa, la sposa e i figli lo ricevettero con dimostrazioni di

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