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DDR - Dominio Della Resa
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E-book242 pagine3 ore

DDR - Dominio Della Resa

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Info su questo ebook

Berlino est, anni Ottanta: dentro palazzi dalla forma squadrata e dalle mille finestre, lungo vie spoglie e plumbee, sotto l'occhio della polizia segreta, Klaus ed Irene vivono la loro passione "sbagliata".
Sotto lo stesso cielo livido si muove Immanuel che, vent’anni prima, condannato come dissidente, ha dovuto abbandonare la figlia quando era solo una bambina e adesso non smette di cercarla tra i volti sconosciuti della metropoli, immerso in una solitudine attenuata solo da Tania.
Sogni taciuti, amori silenziosi, desideri di fuga, chiusi dentro l’orizzonte di un Muro invalicabile che segna il confine tra la Germania comunista e la vita.

LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2018
ISBN9788869344091
DDR - Dominio Della Resa
Autore

Francesco Pala

Francesco Pala è al suo terzo romanzo dopo Rosso a cinque punte (2011) e Io della vita non so nulla (2014). Ha pubblicato, poi, l'ebook Filosofia del fascino (2014) e diversi saggi di argomento filosofico: Deleuze interprete di Spinoza. Il superamento della soggettività (2009), L’utile globale e la crisi della filosofia del Post (2009), Deleuze, Nietzsche e l’uomo del futuro (2006), Il labirinto Moro in un’epoca al tramonto (2004), Il desiderio oltre l’Io verso il Tutto (2003), Pier Paolo Pasolini: solitudine, vita, cinema, morte (2003), Lingua minore e schizofrenia (2003).

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    Anteprima del libro

    DDR - Dominio Della Resa - Francesco Pala

    Francesco Pala

    DDR

    Dominio della resa

    Romanzo

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, settembre 2018

    Isbn 9788869344091

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Progetto grafico: pastinadesign | Mara Scanavino

    Francesco Pala

    Francesco Pala è al suo terzo romanzo dopo Rosso a cinque punte (2011) e Io della vita non so nulla (2014). Ha pubblicato, poi, l’ebook Filosofia del fascino (2014) e diversi saggi di argomento filosofico: Deleuze interprete di Spinoza. Il superamento della soggettività (2009), L’utile globale e la crisi della filosofia del Post (2009), Deleuze, Nietzsche e l’uomo del futuro (2006), Il labirinto Moro in un’epoca al tramonto (2004), Il desiderio oltre l’Io verso il Tutto (2003), Pier Paolo Pasolini: solitudine, vita, cinema, morte (2003), Lingua minore e schizofrenia (2003).

    "Si può provare attrazione per una certa persona.

    Ma per scatenare quella tristezza, quel sentimento dell’irreparabile,

    quelle angosce che preludono all’amore,

    occorre – ed è forse questo, più della persona,

    l’oggetto stesso cui tende ansiosamente la passione –

    il rischio di un’impossibilità"

    M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore

    "Qui devi considerare che nell’amore vi sono due cose:

    una è l’essenza dell’amore, l’altra è la sua operazione,

    la manifestazione dell’amore.

    La sede dell’essenza dell’amore è unicamente nella volontà,

    per cui chi ha più volontà ha più amore.

    Ma chi ne abbia di più, questo nessuno lo sa dell’altro;

    ciò è nascosto nell’anima"

    M. Eckhart, Dell’uomo nobile

    Prima parte

    – 1 –

    Immanuel sapeva da molto tempo che per lui tutto sarebbe potuto cambiare. Conosceva a fondo elasticità e rigidezze del sistema, ciò che poteva essere tollerato e ciò che certamente avrebbe portato ad un punto di rottura. Aveva avuto la possibilità di dosare, di soppesare ogni cosa.

    Per diverse settimane aveva riflettuto sulla sua intera esistenza, dalla primissima infanzia fino ai 45 anni che aveva raggiunto all’inizio del 1984. Seduto al tavolino in legno di una biblioteca popolare di Berlino aveva trascorso un tempo che gli era parso infinito a ricostruire tutti i passaggi della sua crescita alla ricerca di qualcosa che assomigliasse ad un progetto. O che almeno assomigliasse ad una crescita. Aveva così scoperto che essere nato da contadini non gli aveva giovato, che insegnare il marxismo ai figli dell’Apparato con il rigore e la cupezza di un monaco gli era servito a farsi disprezzare senza nemmeno ottenere l’onore dell’odio. Aveva scoperto quanto poco senso avessero le infinite occasioni ufficiali in cui aveva sfiorato le giacche inamidate degli uomini del Comitato centrale e quanto poco fascino vi fosse nella cordialità di Mielke(1) e nella magnetica durezza del primo Honecker(2). A nessuno dei due era rimasto impresso per più di qualche secondo. Non se n’era mai fatto un cruccio.

    Alla fine, si era ritrovato a sentirsi un progetto fallito, essiccato, e aveva deciso di non insegnare più, affidando alla burocrazia statale una lettera di dimissioni in cui paragonava se stesso ad un albero su cui qualcuno abbia gettato della calce viva.

    Negli stessi anni aveva conosciuto molte donne senza amarne neanche una. Anzi, si potrebbe dire che Immanuel non sapesse neanche decifrare il sentimento che stava dietro a quella parola che ogni tanto qualcuna delle sue compagne gli offriva e che lui rifiutava con aria stranita. L’amore non rientrava nella sfera di ciò che è destinato a durare e quindi non aveva diritto alcuno ad esistere nella sua esistenza. Non si era neanche mai preso la briga di capire cosa volesse intendere la donna di turno quando gli rivolgeva frasi come ti amo, mi sono innamorata di te, credo di amarti. Non c’era nulla di comprensibile in quelle parole, niente che potesse entrare con stabilità nel corso della sua vita. La stessa parola amore era per lui un guscio vuoto utile a mascherare la tenerezza momentanea che un po’ di sesso poteva suscitare.

    A renderlo così impermeabile ad ogni vicenda sentimentale aveva contribuito un grumo di ricordi impastati di neve e dolore che ogni tanto si ripresentava davanti ai suoi occhi. Il padre, abbandonato su un tronco d’albero marcito, con la barba inumidita dalla neve e da lacrime regolari. Non c’era nessuna espressione di dolore sul volto dell’uomo, le lacrime sembravano sgorgare senza un motivo apparente. «Soffre per amore» aveva detto a Immanuel un contadino amico del padre. Lui non aveva fatto domande e in seguito aveva dovuto assistere alla fine del primo progetto in cui si era potuto imbattere: la sua famiglia. E, forse, l’immagine dell’albero essiccato dalla calce con cui Immanuel si è congedato dalla società che lo ha cresciuto, destituito e poi riabilitato potrebbe ricordare la figura del padre, vivo ma già morto su un tronco marcito di neve.

    Seduto tra i banchi della biblioteca centrale di Berlino Immanuel sapeva già di aver messo per iscritto la propria definitiva condanna. Non a morte, ma certo all’irrilevanza e all’anonimato, lontano da tutto ciò che poteva valere qualcosa nella Germania comunista. Una situazione già sperimentata in passato, ma non per sua scelta, che ora si riproponeva per sua esplicita decisione.

    Dopo aver spedito la lettera, attese per qualche giorno una reazione che non si fece attendere molto. Gli uomini del Ministero per la sicurezza non tardarono a farsi carico del problema e, dopo essersi lasciato crescere capelli e barba a dismisura, aver passato le giornate sui sedili della metro a leggere le Elegie duinesi di Rilke e a bruciarsi l’esofago con vodka Moskovskaya d’importazione, Immanuel fu pronto ad allontanarsi dalla sua vita di studio e insegnamento.

    Quando salì sul treno urbano diretto verso la periferia della città, due universitarie di almeno vent’anni più giovani di lui si guardarono complici ma non se ne rese conto. Non faceva più caso alla reazione delle donne, non faceva più caso a nulla. Mesi prima, durante un periodo di aspettativa dal lavoro, non aveva fatto molto caso neanche a ciò che gli aveva detto un certo Heinz, un allievo conosciuto durante i primi anni di insegnamento.

    «Deve ritornare ad insegnare, – gli aveva detto Heinz, – ci sono in giro voci molto pericolose sul suo conto, pensano che abbia contatti con l’Occidente.»

    «Contatti intellettuali?»

    «Sì, ma non solo, sono convinti che tenga una corrispondenza e che scriva sotto falso nome per le riviste di Bonn.»

    «E a cosa devo tanta attenzione?»

    «A questa assenza immotivata, agli strani atteggiamenti e anche, mi scusi, alla sua trascuratezza.»

    «Qualcosa la devo confessare», aveva sorriso Immanuel.

    «Parli piano, per carità», aveva esclamato il ragazzo.

    «Ho contatti intellettuali con l’Occidente, leggo Kant, Nietzsche e anche Foucault.»

    «Tutto qui?»

    «Sì, ragazzo, purtroppo sì. Tu sei un IM(3)?»

    «Sì, ho dovuto farlo per continuare gli studi.»

    «E perché adesso mi riveli tutto ciò?»

    «Perché la stimo, solo per questo.»

    «Hai bisogno di decospirarti? Vuoi smettere di collaborare?»

    «No, – rispose il ragazzo, prendendo in mano un libro e sottoponendolo allo sguardo di Immanuel, per dare meno nell’occhio, – lo faccio solo per lei, non posso permettermi di smettere la collaborazione.»

    «Non devi preoccuparti, so quello che faccio e ciò che non voglio più» aveva replicato Immanuel congedando il ragazzo con una stretta di mano.

    Sapeva che il suo passato avrebbe favorito una serie di voci sgradevoli e avrebbe alimentato controlli ravvicinati. Erano trascorsi molti anni, ma gli archivi della STASI erano gonfi di carta intestata a suo nome che attendeva solo di riprendere a circolare per le scrivanie.

    – 2 –

    Davanti agli occhi di Immanuel scorre una sequenza infinita di alberi e neve. Ogni tanto piccoli agglomerati di palazzi squadrati con le finestre disposte geometricamente interrompono il flusso, ma sono pochi e malridotti. Il suo sorriso si rivolge al vuoto. Alle ragazze sedute davanti sembra enigmatico, incomprensibile. La barba gli soffoca quasi la bocca e i denti si vedono con difficoltà, ma è chiaro che sta sorridendo, perso in un pensiero tutto suo che gli proibisce ogni contatto con l’ambiente circostante. Se ne sta andando alla periferia di Berlino, la sua città, lo hanno costretto, ma lui ha fatto di tutto perché l’interdetto gli cadesse addosso con la forza e la precisione che il popolo tedesco ha delegato ai suoi paladini. Se ne sta andando in un luogo che è solo ad un’ora di treno, ma ad un mondo di distanza. Con una manciata di libri, tre maglioni, due camicie ed un paio di pantaloni. Le foto della madre e del padre sono infilate dentro l’unico paio di scarpe di ricambio.

    Immanuel si sta ritirando in un luogo dove solo le spie della STASI possono riconoscerlo, controllarlo e usarlo quando necessario, per tutti gli altri sarà un volto qualsiasi sotto i lunghi capelli lisci. Dove sta andando nessuno troverà familiare il tic che nei momenti di stanchezza gli fa strizzare l’occhio in modo inconsapevole e nessuna delle donne potrà mai riconoscere la fisionomia della cicatrice che, sotto la barba, gli scava la parte bassa dello zigomo destro e scende fino alla mandibola. È un ricordo del carcere e di una storia che conosce solo lui.

    Le due ragazze disposte sul sedile di fronte hanno un tratto orientale nel viso e studiano dottrine giuridiche. Il comunismo per loro non è così importante, nessun funzionario di partito le condurrà all’esilio in qualche luogo sperduto, per loro il comunismo è un rituale obsoleto e sciatto, da ossequiare e dimenticare. Loro sanno bene che l’uomo con la barba è uno degli ultimi esemplari di un vecchio mondo in disfacimento e, forse, per questo gli piacerebbe provocarlo, suscitare la sua attenzione, vedere il suo desiderio affiorare dal profondo di tutta quella disperazione lacera e distratta. Invece lui sorride inebetito e non le guarda mai, con una mano sfiora il bordo rigido della valigia in cartone, ha dita lunga e ben curate, saranno le prima a sacrificarsi per la nuova vita.

    Immanuel tiene tra le mani una valigia che non è sua, a lui non è mai servita a niente, è del padre. Nessuno l’aveva mai aperta dall’ultima volta, pochi mesi prima, che era servita al padre per andare all’ospedale da cui non era uscito vivo. Dentro, Immanuel ha trovato un pigiama celeste a righe grosse, uno spazzolino da denti logoro e ingiallito, due riviste dedicate all’industria meccanica sovietica e una vecchia dentiera con tre denti in meno. Immanuel non ricordava che il padre non avesse addosso la dentiera al momento della sepoltura. Certo la responsabilità era stata la sua, al funerale non c’era nessun altro.

    I medici dell’ospedale della Charitè lo avevano fatto chiamare dall’usciere della biblioteca qualche minuto dopo la morte del padre, era stato lui a chiedere il favore di non assistere al trapasso del genitore. Aveva ammesso con il primario una forma di codardia selettiva che gli impediva di accostarsi alla malattia e alla morte in maniera normale. Non aveva paura della violenza, in passato non aveva avuto nessuna timore ad affrontare uomini armati e ubriachi a tutte le ore della notte durante le lunghe passeggiate per le periferie di Berlino a cui lo costringeva l’insonnia. Un paio di volte era anche tornato a casa con il dubbio di aver ucciso un uomo, ma non si era preoccupato di verificare se le cose stavano veramente così. La malattia però era una lotta contro forze invisibili e non si sentiva all’altezza.

    Non si era sentito in colpa con il padre, quando era parso chiaro che non ci fosse nulla da fare era stato proprio lui a dirgli di non tornare più: «Noi siamo fatti così, Immanuel, anche io ho abbandonato mio padre al momento della morte, non ha senso vedere la fine di chi ti ha dato la vita.»

    «Ma forse è da codardi» aveva replicato Immanuel, dicendo le prime parole dal giorno in cui il padre era stato ricoverato.

    «No, è da codardi voler morire davanti agli occhi di chi ti vuole bene, tuo padre non ha questa pretesa.»

    Si erano scambiati una stretta di mano e Immanuel si era allontanato cercando di non avere esitazioni o ripensamenti. La struttura dell’ospedale era quadrangolare e a metà di un breve corridoio, da una finestra che dava sull’interno, gli era apparsa la stanza del padre. Lo aveva visto solo, su un lettino di ferro tarlato dalla ruggine. Aveva uno specchio in una mano e un pettine nell’altra, si aggiustava i lunghi capelli bianchi. Immanuel aveva pensato a quanto fosse ridicola l’idea di anticipare il pensiero della morte per dare un senso alla vita, nessun uomo vive la propria morte e neanche il padre in quel momento riusciva a concepire che quell’ordine che si stava dando sarebbe servito solo per la bara. Aveva pensato che in tutta la vita non aveva mai visto il padre davanti ad uno specchio. Il padre era sempre stato per lui un gigante silenzioso, una grossa pianta che vive senza sentimenti e aspettative e accetta ogni cosa. Un grande stoico incapace di lamentarsi e gioire, piangere e godere, indifferente all’attenzione altrui.

    Da una finestra appannata scoprì che quella piccola ed effimera vanità gli stava provocando la forma di dolore più intensa e profonda della sua esistenza. I movimenti fluidi di quella mano da cui la vita si stava ritirando emettevano onde per cui non aveva difese. Ad un tratto si sentì indiscreto, guardò un’ultima volta dalla finestra appannata, questa volta la scena gli parve sospesa in un sogno, pronta a diventare un ricordo.

    – 3 –

    Klaus posò sul ginocchio il suo bicchiere di Čpok e dopo averlo coperto con la mano lo scosse più volte. Le bollicine cominciarono a salire verso l’orlo e lui fermò la schiuma accostando le labbra al bicchiere. Stava aspettando da venti minuti e dalla seggiola del bar poteva tenere d’occhio l’imboccatura della metropolitana. Irene era in ritardo, la neve aveva creato un manto compatto e lucente che gli impediva la visuale e accresceva la sua apprensione. Valutò l’ipotesi che tutta quella neve avesse ostacolato il percorso di Irene, bloccato il tram di superficie, per esempio. Iniziò ad immaginare la rotaia intasata, l’agitazione dell’autista, le proteste degli anziani e Irene seduta in un angolo, avvolta nella grande sciarpa bianca che le aveva regalato, con le braccia strette intorno al corpo e i piedi inclinati con le punte a toccare il pavimento. Se la immaginava impassibile, in attesa di una novità, con gli occhi freddi che fissavano qualche parte insignificante di mondo. Non poteva pensarla in preda all’apprensione, agitata e nervosa. Irene aveva il dono della calma.

    L’iniziativa, sin dall’inizio, era stata a carico di Klaus, anche se lui aveva saputo dissimulare bene lo stato d’animo a cui la rincorsa quotidiana di Irene lo sottoponeva. Era riuscito a rivestire di caso e noncuranza i regali, le richieste di appuntamento e i desideri sessuali che lei si limitava ad accogliere con un sorriso partecipe e distante allo stesso tempo. Non si sottraeva quasi mai, ma c’era nel suo darsi un impercettibile negarsi che ad un occhio meno attento sarebbe passato inosservato, ma che a Klaus non sfuggiva. A volte aveva la sensazione che mentre facevano l’amore Irene attutisse i suoi affondi con lievi scatti all’indietro, piccole fughe a cui il corpo magro e candido della ragazza accennava soltanto, senza liberarsi dalla presa di Klaus, ma alludendo sempre ad un’incompiutezza del loro rapporto.

    Tutti i gesti di Irene contenevano una metafora, rimandavano alla possibile perdita della conquista che incarnavano. Un rilancio continuo, con l’effetto di alimentare l’amore di Klaus che, in pochi mesi di relazione, si era trasformato in una vera ossessione capace di occupare in maniera compulsiva la sua mente e di impedirgli una vita normale. Nel pieno di conversazioni di lavoro, durante la stesura di un rapporto o a metà di un interrogatorio, si scopriva intento a sezionare il ricordo di uno sguardo di Irene, ad analizzare il senso profondo di alcune sue parole. Persino durante l’ascolto di intercettazioni importanti il filo delle parole altrui sbiadiva fino a diventare un fastidioso sottofondo, mentre la pulsione ossessiva si faceva largo e pretendeva diritti su tutto il mondo circostante.

    Una volta aveva avuto la sensazione che uno degli interrogati stesse parlando di Irene, gli era sembrato di sentirla nominare in modo nitido. L’interrogato era uno studente universitario di 23 anni, la stessa età di Irene, e stava per terminare gli studi in medicina nella stessa Università della ragazza. Già dopo la lettura della scheda identificativa dello studente, Klaus si era convinto che il ragazzo avrebbe nominato Irene e che i suoi percorsi mentali avrebbero incontrato la vita reale della ragazza con esiti impossibili da prevedere. Nel vivo dell’interrogatorio, poi, era andato incontro ad una vera e propria allucinazione auditiva ed era intervenuto nella sequenza di domande che un agente semplice stava snocciolando. Aveva chiesto con veemenza al ragazzo di specificare meglio i riferimenti ad Irene e di rivelare in che modo l’aveva conosciuta.

    Lo studente lo aveva osservato stupito e l’agente era dovuto intervenire per chiarire che nessuno aveva pronunciato la parola Irene. Klaus era uscito

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