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La primavera perfetta
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E-book468 pagine6 ore

La primavera perfetta

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Info su questo ebook

Luca Fanti non avrebbe saputo dire qual era stato l’istante esatto in cui le cose avevano iniziato a mettersi male. Dopotutto era un uomo fortunato. Una moglie affascinante, due splendidi figli, un lavoro che in tanti gli invidiavano: fare il manager di suo fratello Olli, uno dei ciclisti più forti del mondo. Poi qualcosa aveva sbagliato, certo. Errori piccoli, ed errori grandi. E il castello delle sue certezze si era sgretolato. Il divorzio, gli alimenti impossibili da pagare, le accuse della figlia maggiore, perfino un processo per aggressione, una cosa ridicola, in fondo aveva solo tirato un pugno a un amico. Certo, con suo fratello l’aveva davvero fatta grossa… Enrico Brizzi, scrittore fra i più amati degli ultimi trent’anni, scrive uno dei suoi romanzi più belli, il libro della maturità, la storia della caduta e della redenzione di un uomo lontano dall’essere perfetto, ma al tempo stesso irresistibile, un meraviglioso concentrato di difetti, superficialità, speranze, slanci e voglia di lottare; dei vizi e delle virtù, insomma, che rendono umani. La primavera perfetta tratta temi fondamentali, dalla disintegrazione della famiglia tradizionale ai non detti tra fratelli, dal ruolo prezioso dell’amicizia alla sorpresa di fronte al riaffacciarsi del sentimento più tenero, e riesce a toccare la profondità con leggerezza, portando il lettore dal riso alla commozione. È un romanzo che ricorda le splendide commedie di Frank Capra scritto con un’ironia degna dei fratelli Coen, un libro che mette in scena momenti epici indimenticabili e racconta una straordinaria storia d’amore. Il tutto con lo stile di Brizzi, la sua voce maturata negli anni ma sempre inconfondibile, il talento cristallino che ha fatto amare i suoi romanzi a un’intera generazione di lettori.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2021
ISBN9788830525993
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    Anteprima del libro

    La primavera perfetta - Enrico Brizzi

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    I panni variopinti del matto

    E poi arrivano senza preavviso tempeste capaci di squarciare le nostre sicurezze; ciò che ritenevamo eterno finisce in brandelli, e attraverso quegli strappi la sorte si affaccia a mostrare il suo volto.

    Sono giorni che non si lasciano dimenticare, come il venerdì di mezza estate in cui ho compreso che mio fratello mi avrebbe soffiato la primogenitura.

    Eravamo in montagna coi nostri genitori a Roccaguelfa, il villaggio ai piedi delle Dolomiti dove mamma e papà si erano fidanzati quando i Beatles traversavano in fila indiana Abbey Road, gli astronauti saltellavano in mondovisione sul suolo lunare, e l’Italia si presentava ancora in bianco e nero.

    Tornavamo lassù ogni estate, precisi come un polveroso orologio a cucù, e ormai in quello scenario bucolico, popolato da incorruttibili agricoltori ubriachi di buonsenso, mi annoiavo a morte.

    Mi ero appena lasciato alle spalle il penultimo anno di liceo, io, e avevo la testa piena di ambizioni radicali, ritmi dispari e strofe d’assalto. Così smaniavo perché arrivasse la fine del mese e, con quella, il sospirato ritorno alle corrotte atmosfere della pianura; un passaggio tattico da Bologna, e sarei stato libero di partire con i Chernobyl, la mia band di rock postatomico, verso la casa al mare del chitarrista Cisco.

    Ci saremmo portati dietro gli strumenti, e già pregustavo il dolce smarrimento nella bolla confortevole di amplificatori di seconda mano, nastri VHS ad alto tenore epico e bottiglie in vetro bruno di birra nazionale.

    Mio fratello, all’epoca, era un biondo fringuello di dieci anni, mite e coscienzioso come solo i nati nell’anno del romanzo di Orwell. Rispettava senza fiatare le prescrizioni di nostro padre, il capotreno Fanti William, deciso a fare di lui il buon ciclista che io non ero riuscito a diventare. E la sera si faceva ancora leggere le fiabe dalla Sandra, la nostra signora madre, una maestra elementare devota ai cantautori e alla linea riformista di Berlinguer.

    Entrambi temevano l’ignoto, così rifuggivano orchi mangiatori di bambini, roghi e supplizi di cui le favole classiche erano prodighe; al solito finivano per adagiarsi su versioni edulcorate, virate al lieto fine, o sulle avventure mielestrazio di qualche savio animale parlante.

    E dire che il piccoletto avrebbe avuto dalla sua un nome di tutto rispetto, che sprizzava modernità e dinamismo. A me ne era stato imposto uno biblico e sin troppo comune di due sole sillabe; il suo, invece, un omaggio al nonno materno che non avevamo mai conosciuto, era declinato nella lingua del futuro. E l’omonimia col calciatore dei cartoni animati Oliver Hutton, benché del tutto accidentale, gli garantiva un discreto prestigio presso i caccolosi circoli dei coetanei.

    La mia missione come fratello maggiore non presentava zone d’ombra: il mio compito era proteggerlo e, compatibilmente alla giovane età, aprirgli gli occhi. Con tutto il rispetto dovuto a chi portava a casa il pane, ritenevo di essere l’unico in grado di aiutarlo davvero a orientarsi nel labirinto, fitto di trappole e tesori, che si stendeva là fuori.

    Quando mancavano pochi giorni alla fine dell’esilio, lo arruolai per una passeggiata con la scusa di condurlo a caccia di lamponi. Ne trovammo abbastanza da indurlo a proseguire verso monte senza lamentarsi, e nel tardo pomeriggio raggiungemmo finalmente la meta che m’ero prefissato.

    La Pietra della Strega era un masso erratico trascinato fin lì dall’avanzata di un ghiacciaio preistorico; quando la morsa del gelo si era sciolta trasformandosi in fiume, quel roccione era rimasto lì, paziente e sconsolato, proteso come un trampolino sulla testata della valle.

    Mio fratello non era mai arrivato sin lassù, e quando vide la distesa d’alberi che si spalancava sotto di noi, il campanile del paese e i ruderi della fortezza, piccoli ed esatti come elementi d’un diorama nella luce del tramonto, restò a bocca aperta.

    «Bello qui» ammise, e subito considerò con un velo di preoccupazione nella voce: «Ci metteremo un pezzo, a tornare giù».

    «Non torniamo per la stessa via» lo meravigliai. «Conosco una scorciatoia che taglia per il bosco.»

    «Ma Luca!» protestò. «Mamma e papà non vogliono che usciamo dai sentieri.»

    Sbuffai. Non l’aveva ancora capito che il Capotreno e la Sandra complottavano per proibirci tutto quello che odorava di libertà e avventura?

    «Se è per questo, Olli, non vogliono neppure che facciamo tardi a cena» feci leva sulla sua devozione alle regole. «Ma stai tranquillo. Per la via che dico io, ci mettiamo un attimo.»

    Si mise buono, in attesa di istruzioni come un cucciolo, e per un attimo lo amai come non lo avevo mai amato. Se solo fossi riuscito a dargli una buona svegliata, nel giro di qualche anno sarebbe potuto diventare un degno compagno di strada.

    «Cinque minuti di sosta e andiamo» proclamai mentre mi accoccolavo all’estremità della Pietra, le gambe penzoloni nel vuoto; c’era qualcosa di magico nello stare seduti lì come un nostromo affacciato sul confine del mondo, a dominare la ripida lingua di sassi che scendeva verso il cuore della foresta. «Adesso, per cortesia, prova a rilassarti e guarda in che razza di posto siamo arrivati.»

    La pietraia sotto di noi faceva pensare a uno scivolo riservato ai figli dei giganti, e quel cielo, invaso di nuvole simili a vascelli in fiamme, mi parve il fondale perfetto per dare corpo al piano che avevo in animo.

    Avevo appreso l’arte di confezionare i sigarini afghani nella sala prove dei Chernobyl, un gelido bugigattolo che il quartiere ci concedeva a rotazione con le band dei metallari e gli stralunati mitragliatori di rime hip hop. Una volta fabbricato il filtro in cartone con il lembo d’un biglietto della corriera, sventrai sul palmo della sinistra una volonterosa Diana Blu, quindi estrassi di tasca la modesta pallottola di hascisc, ceduta dal batterista Zack per ventimila lire, che doveva scortarmi a fine vacanza.

    Una volta liberata dalla plastica oleosa che l’avvolgeva, la scaldai sulla fiamma del Bic finché non prese una consistenza terrosa; cauto come un artificiere, ne sbriciolai una parte nel tabacco e riposi il resto.

    Mentre m’industriavo ad avvolgere il preparato dentro una Rizla, Olli, in piedi a due passi da me, mi osservava attento e sospettoso come un avvoltoio.

    Aveva sentito dire che i ragazzi della mia età fumavano di nascosto cose proibite, e quando diedi fuoco alla testa del mio joint strabuzzò gli occhi. «Ha un odore strano» osservò con sfavore. «Fa puzza» s’ostinò mentre aspiravo la prima boccata, quindi abbassò lo sguardo e pronunciò la parola che aveva in mente dall’inizio. «È la droga?» domandò intimorito.

    «Ma quale droga» lo invitai a smetterla. «Tu non sai proprio niente.» Poi cercai il suo sguardo e, rivolgendogli la mia espressione più franca e rassicurante, ordinai: «Guardami, Olli. Ti sembro un drogato, io?».

    «Mamma e papà non vogliono» riprese, testardo e dispiaciuto. «Se fumi la droga, dopo non puoi più smettere.»

    «È come rompere le palle agli altri» forzai un paragone. «Cominci tanto per levarti il gusto, poi non sai più farne a meno.»

    Restò a pensarci su, e aveva un’aria talmente concentrata che faceva tenerezza.

    «Dài che scherzo, testa di lombrico» lo rassicurai alla mia maniera, poi diedi un altro tiro; i muscoli contratti dalla salita si scioglievano, il pensiero del ritorno si faceva vago, e lasciava spazio alle fantasticherie sulle mie vite parallele.

    In quel momento, un altro me stesso era in groppa a un bue sacro sulla spiaggia di Goa, nudo a eccezione d’una collana di fiori, e un altro Luca ancora ciclostilava una corrosiva fanzine dentro uno squat di Kreuzberg.

    Mi stupii di non aver ceduto prima al richiamo dell’hascisc; era esattamente quel genere di suggestione che poteva traghettarmi dagli obblighi della vacanza in famiglia alla sospirata session balneare.

    Guardai mio fratello e lo trovai accigliatissimo, indifferente alle voci che ora salivano dal bosco; erano richiami lontani di creature silvestri, nani, ninfe, fors’anche gli stessi conigli e volpi parlanti delle fiabe che lo appassionavano, e suggerivano come un altro mondo fosse possibile.

    Era una sensazione seducente, che invitava a deporre l’incredulità e rispondere a quei messaggeri benevoli. Ticchettai per loro sul mio telegrafo mentale la linea di basso che Jah Wobble s’era inventato per Public Image; le creature, nascoste nei loro anfratti, tacquero rapite. Ormai il contatto era stabilito, e ritenni adatto intonare per loro la prima strofa della canzone.

    In sala prove non trovavo mai il coraggio di far sentire la mia voce; mi pareva acerba e indecisa rispetto a quella di Tony, ma ora che nessuno poteva giudicarmi, non sembrava così male.

    «Cosa cantavi?» volle sapere Olli quando persi il filo.

    «Che ognuno di noi appartiene solo a sé stesso» spiegai, e lo invitai a sedere accanto a me.

    Rifiutò. Preferiva restare a distanza di sicurezza dal precipizio e dai peccaminosi vapori d’Afghanistan.

    «Guarda lì!» disse invece, e indicò un piccolo rapace che usciva in volo dal bosco. «Un’aquila!»

    «Ma quale aquila!» lo corressi nel riconoscerne il piumaggio color crema. «È un gheppio!»

    Il volatile compì un paio di giri sorvolando la brulla lingua di sassi compresa fra la Pietra e i primi alberi sotto di noi. Ci vedevo solo i resti di una vecchia frana, ma quello, guidato dalla sua supervista, doveva avere notato la presenza di un topo, una talpa o qualche altro animaletto da predare; si arrestò in aria senza preavviso, le ali spalancate e la coda aperta a ventaglio, in attesa del momento opportuno per lanciarsi in picchiata.

    «Come fa a stare fermo?» domandò Olli, rapito da quello spettacolo.

    «Si aggiusta con le penne per farsi sostenere dalle correnti d’aria» spiegai, e aggiunsi: «I gheppi possono restare così un pezzo, come un ciclista in surplace dentro un velodromo».

    «Io non sono mica capace» sospirò. Aveva già vinto qualche garetta, primeggiando sui figli di altri fanatici come il Capotreno; ne provava un acerbo orgoglio, e ammettere i suoi limiti gli pesava. «Mi insegni, Lucky?» sibilò impiegando il soprannome dei momenti più affettuosi.

    Nel corso della mia modesta carriera, chiusa con gran sollievo l’anno precedente, ero entrato in un velodromo una sola volta, e la vertiginosa inclinazione della pista mi aveva dato i brividi. Altro che congelarsi nell’immobilismo; in un posto del genere, l’unica salvezza poteva venire dal pedalare, così da lasciarsi alle spalle nel minor tempo possibile la vertigine delle curve. «Neppure io sono mai stato capace» confessai, e Olli mi guardò illuminato da una luce torbida, come si prefiggesse d’imparare al più presto.

    Il sistema di condizionamenti e premi istituito da nostro padre – Fanta e Goleador dopo gli allenamenti più duri, un nuovo pupazzetto di Hulk Hogan o Macho Man in cambio delle vittorie – stava funzionando alla grande. Correva contro la mia ombra, poveretto, tenuto a riuscire dove io avevo fallito.

    «Guarda che se impari a fare il surplace mica mi spiace» lo spiazzai. «Sei tu il campione di casa.»

    Mise su un’aria scontenta, come gli avessi fatto sparire un premio da sotto il naso, e provai una gran pena per lui.

    «La vita vera, Olli, non è una corsa» sospirai. «Si può andare agili per la propria strada, senza gareggiare tutto il tempo contro gli altri.»

    Per un attimo sperai che quelle parole fossero bastevoli a terremotare il suo sistema di valori, la visione, elementare e barbarica, cui lo andava educando il Capotreno: uno solo vince, il secondo è il primo degli sconfitti, il terzo un figurante necessario a riempire il podio, e tutti gli altri rincasano a orecchie basse dopo avere faticato sino a vomitare.

    L’avevo steso, e ora scrutava il gheppio, sempre immobile in aria, come se quella vista gli procurasse dispiacere.

    «Dici così perché quando correvi tu non vincevi mai» osò, indispettito, e restò a guardarmi in attesa di una reazione.

    Mi limitai ad aspirare una nuova boccata di fumo e gli sorrisi. «Forse è come dici tu» lo assecondai. «O magari non mi piaceva e basta, pedalare come una scimmia ammaestrata.»

    «Il ciclismo è lo sport più bello del mondo» scandì, rosso in volto per l’indignazione. Poi diradò a manate la nebbia che sorgeva dalla testa di brace del mio sigarino, e annunciò solenne: «Stasera a casa lo dico, che prendi la droga».

    «Tu non capisci proprio niente, Minus» sospirai.

    Quel soprannome aveva il potere di mandarlo in bestia; quando s’avvide che la sua linguaccia non mi faceva né caldo né freddo, incrociò le braccia davanti al petto e mi diede le spalle.

    «Tanto glielo dico lo stesso» ribadì impermalito, e io lo presi in contropiede tornando a estrarre la mia minuscola riserva di resina afghana.

    «Allora sentiamo il nostro esperto» lo provocai. «Sarebbe droga, questa?»

    Olli tornò a volgersi verso di me, sporse in avanti la testa bionda e studiò con attenzione ciò che gli mostravo. «Che cavolo fumi?» domandò interdetto. «Le cacchette di capra?»

    Scoppiai a ridere di cuore, e il maledetto joint mi scivolò di bocca; rimbalzò sul bordo della roccia in un carosello di scintille, e si gettò a picco come un suicida nella pietraia dabbasso.

    «Ma porca di quella troia!» proruppi nel realizzare il disastro. Ne restava metà buona, quanto bastava per organizzare una missione di recupero.

    Quando Olli si rese conto che ero deciso a scendere sotto la Pietra si spaventò. «Non lo fare, Lucky! È pericoloso» m’implorò, e mi parve patetico come il pirlotto che muore di polmonite nei Ragazzi della via Pál.

    Indifferente alle sue suppliche, ripiegai fino al punto in cui la roccia si protendeva dal sentiero e presi a calarmi verso la pietraia. Inclinava senza offrire appigli, per smorire cento metri più giù nel fitto del bosco.

    Mentre attaccavo il mio traverso, il gheppio, sempre immobile a mezz’aria, lasciò andare un verso stridulo, e io ebbi l’impressione che mi sfidasse.

    «Per carità, Luca, non fare scemenze» si premurò da sopra Olli, la voce ormai doppiata da quella di nostra madre. «Se scivoli ti fai male.»

    «Muto, cinno» intimai. «Vedi almeno di non portare rogna.»

    Il sigarino, ancora acceso nell’ombra aggettante della Pietra, s’offriva sornione alla mia presa. Un passaggio delicato e sarebbe tornato mio. Mi abbassai sulle ginocchia per mantenere meglio l’equilibrio, e mentre allungavo la destra alla volta del tesoro, un sasso mi schizzò via da sotto il piede. Poi un altro, e un altro ancora.

    Cominciai a franare verso il basso, solidale al sommovimento che cambiava in diretta la geografia della pietraia; prendevo velocità, il dorso a valle, con l’ineluttabile naturalezza che si sperimenta nel corso degli incubi, ma ancora mi preoccupavo di non scompormi per mostrare una parvenza di stile.

    «Lucky!» gridò disperato mio fratello quando mi vide andar giù, e ormai era inutile fingere di avere la situazione sotto controllo; mortificato come avessi subìto una truffa, m’inchinai verso monte alla disperata ricerca d’un appiglio, ma tutto quello che riuscivo ad afferrare erano sassi, che subito abbandonavano i loro simili per scendere verso il bosco insieme a me.

    Rovinavo sempre più veloce, poi qualcosa s’incagliò sotto i miei piedi. Per un attimo mi trovai ritto come chi cammini su un fondo pianeggiante; vidi Olli fermo sul ciglio della Pietra, gli occhi spalancati di paura e le mani aggrappate alle guance, e subito dopo scivolavo ribaltato sulla schiena, la testa a valle e il cielo negli occhi.

    Il gheppio era fermo sopra di me, le ali spalancate in controluce come la colomba dello Spirito Santo, e un barlume di devozione infantile mi portò a invocare il nome uno e trino del Colonnello Iahvè.

    Fiato sprecato. Quel venerdì di mezza estate non era in programma alcun miracolo a beneficio di Luca Fanti da Bologna. Così continuai a sbatacchiare di nuca e di spalle sul fondo accidentato.

    L’ultima cosa cui pensai fu che mio fratello, solo nel bosco mentre calava la sera, ci sarebbe rimasto secco per la paura; per me, però, il buio arrivò molto prima.

    Ripresi i sensi diverse ore più tardi, rannicchiato in maniera innaturale con i piedi più in alto della testa. Ero mezzo gelato e faticavo a muovermi; per quel che ne sapevo potevo essere finito in un paese sul quale non sorgeva mai il sole.

    Quando mi resi conto di avere la nuca impiastrata di sangue, pensai di essere spacciato. Stavo morendo a diciassette anni come un idiota, ecco cosa.

    Poi dal bosco qualcuno mi chiamò per nome; trovai a fatica la forza di rispondere, e i coni delle torce elettriche cominciarono a farsi più vicini.

    Il Capotreno e gli uomini partiti con lui da Roccaguelfa mi raggiunsero risalendo a fatica la lingua terminale della pietraia. Quando si resero conto che non ero in grado di camminare, mi stesero addosso una coperta per tenermi al caldo in attesa dei barellieri, e appena Fanti William si riprese dallo spavento cominciò a chiamarmi «disgraziato» e «zucca vuota».

    Fu lui, tra un improperio e l’altro, a spiegarmi ch’era stato Olli a dare l’allarme; aveva percorso a ritroso il sentiero che conduceva in paese, evitando la tentazione delle scorciatoie e senza mai sbagliare ai bivi.

    Temeva fossi morto, invece me la cavai con una lussazione alla spalla, un taglio sulla nuca che richiese qualche punto di sutura e un buon numero di lividi.

    Partire coi Chernobyl era fuori discussione, ma il dispiacere per la vacanza che sfumava fu niente rispetto alla vergogna: con la mia bravata avevo messo mio fratello in pericolo, e lui, un bambino che doveva ancora cominciare le medie, mi aveva salvato la vita.

    Da quel giorno in famiglia mi trovai a indossare i panni variopinti del matto; era di Olli, e solo di lui, che ci si poteva fidare.

    PRIMA PARTE

    Immagine pubblica

    I

    Ci sono io, qui con voi

    «Quando imparerà questa storia, mamma si arrabbierà» considera Nic. S’aggrappa forte alla mia mano, e non capisco se è più eccitato o intimorito dal buio che ormai è sceso sulla montagna come il cappuccio sulla testa d’un condannato. «Si arrabbierà, vero?»

    «Non credo» mento per tranquillizzarlo. «Stiamo solo facendo un’avventura.»

    «Puoi scommetterci che si arrabbierà» mi contraddice Gaia, la voce virata su un tono dolente che la fa sembrare più grande dei suoi dodici anni. «Non ci dovevamo venire, qui» si rammarica. «L’avevo detto, io. Vero o no, papà?»

    Devo concederle che ha ragione.

    Già l’idea di lasciare Milano per raggiungere quest’angolo d’Italia sospeso fra Toscana e Montefeltro non la faceva impazzire, e in quattro ore d’auto ha levato le cuffie solo per chiedere di fare una sosta all’autogrill. Una volta giunti in paese, poi, la locanda del mio amico Eraldo le è parsa troppo spartana, e la gita nei boschi è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Così mi ha tenuto il muso per tutto il pomeriggio, refrattaria al fascino dell’avventura e indifferente ai miei racconti sulla città abbandonata che ci attendeva.

    Abbiamo raggiunto il quadrivio di sentieri presso l’insellatura, dove Eraldo e i suoi amici hanno costruito un forno in pietra e due tavolacci per ospitare le loro grigliate, e quando siamo sbucati fuori dagli alberi ci sono rimasto secco. Ero convinto che ci sarebbe apparsa la parete a picco del Sasso baciata in pieno dalla luce morbida del secondo pomeriggio; invece il disco del sole era ormai sceso nel cielo lattiginoso, scivolato fino a sfiorare le cime della dorsale che chiude l’orizzonte.

    Lì per lì mi è parso un brutto scherzo, poi ho capito.

    Fino a un paio di giorni fa ero con Olli alla Classica di Galizia, nell’estremo occidente della Spagna, e laggiù il sole tramonta molto più tardi; per di più la notte scorsa è arrivata, zitta come un ladro, la maledetta ora legale. Ecco perché, all’improvviso, faceva buio tanto presto.

    A quel punto, avremmo dovuto girare i tacchi. Mezz’ora di marcia nel crepuscolo, e saremmo rientrati alla locanda in tempo per fare una doccia prima di cena.

    Il fatto è che mi pareva assurdo fermarci a un passo dalla meta, così li ho convinti a imboccare la mulattiera che porta in cima all’incudine di roccia dove cinquecento anni fa i Medici di Firenze eressero la loro Città del Sole.

    Mi sono meravigliato di trovare la grande croce metallica che segnava il cuore dell’insediamento ribaltata a terra, abbattuta dalle bufere dell’inverno scorso o da qualche tempesta estiva.

    Avrei dovuto leggerlo come un segnale, invece mi sono dilungato a mostrare ai miei figli le rovine sommerse dalla vegetazione di case e magazzini, chiesa e osteria.

    Almeno a Nic ha fatto una certa impressione vedere il tramonto da lassù; Gaia, invece, mordeva il freno perché ce ne andassimo, e quando ha insinuato per la prima volta che rischiavamo di fare tardi l’ho presa in giro.

    Abbiamo sceso la mulattiera nel crepuscolo, e quando ci siamo ritrovati all’insellatura il mondo si era ormai fatto buio.

    Ancora non mi preoccupavo. Sono venuto qui parecchie volte, e confidavo di conoscere a memoria il sentiero che torna in paese.

    Nel giro di un niente, però, le nuvole hanno coperto la luna, e io ho perso i punti di riferimento; avanzavamo a tentoni lungo la traccia fangosa, guidati soltanto dall’idea primitiva di perdere quota per riavvicinarci all’abitato.

    Macchie d’ortiche e pruni spuntati a tradimento nel corso della buona stagione ci hanno imposto continue varianti, e un po’ alla volta siamo sprofondati in una valletta secondaria.

    «Che schifo!» esclama Nic con un saltello all’indietro, poi solleva il volto e mi fissa perplesso. «Mi sa che ho messo i piedi in una cacca di mucca.»

    «Attento, ranger!» lo ammonisco, fingendo di parlare alla radio come il marconista d’un plotone in avanscoperta. «Questo versante è un campo minato!»

    Il piccolo mi guarda perplesso, ma quasi subito scoppia a sghignazzare. «Un campo minato» ripete. «Minato di puzze.»

    «Io non so cosa c’è da ridere!» sbotta Gaia. «Lo capite o no che ci siamo persi?»

    «Non ci siamo persi» assicuro, ma la voce m’esce troppo tesa per suonare sincera. «Siamo solo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia.»

    «Sì che ci siamo persi!» insiste mia figlia. Tende le mani in avanti, verso il groviglio di rovi che ci sbarra la strada, e mi sorprendo a sperare che abbia intuito un passaggio in grado di riportarci sulla via giusta. Invece lascia ricadere le braccia lungo i fianchi e sbuffa: «Adesso mi sono rotta! Ho le gambe piene di graffi, sono sporca di fango sino ai capelli e qui non si vede niente».

    «Guarda laggiù» la invito, mostrando la vaga galassia di luci che baluginano a fondovalle. «Quello è il paese. Basta ritrovare il sentiero, e in mezz’ora ci siamo.»

    «Basta ritrovare il sentiero» ripete. «Come non ci stessimo provando da un pezzo.» E la voce le esce venata di sarcasmo, precisa a quella di sua madre quando perde la pazienza.

    Sono trascorsi quindici anni da quando ho conosciuto Emma a una serata di gala del Comitato olimpico.

    Quella sera a Roma sfoggiava un vestito in raso che lasciava le spalle scoperte e metteva in risalto il punto vita, calzava scarpe a pois dal tacco alto, e nel ritrovarmi addosso per la prima volta il suo sguardo turchese avevo provato una vertigine sconosciuta.

    Era Emma Visconti, lei, una delle più ammirate giornaliste sportive del Paese, un volto noto della tivù che andava in onda la domenica sera come spalla di Beppe Sormani, il telecronista della Nazionale. Preparata e disinvolta, era abituata a dare del tu agli attempati monumenti dello sport patrio come ai bizzosi astri nascenti della Serie A.

    Dal mio punto di vista, aveva tutto il diritto di stare a quella festa fitta di volti noti e risplendere fra i suoi pari. Io, invece, mi sentivo una specie di imbucato; ero un signor nessuno, e mi trovavo lì unicamente per accompagnare mio fratello.

    In quel 2005 Olli era ancora un ciclista emergente, un ragazzo magro dalle cosce ipertrofiche, un giovane stoico che aveva sacrificato la giovinezza sull’altare della bicicletta.

    Quella passione si era appena trasformata in una possibile carriera. A scoprirlo fra i dilettanti era stato il guru romagnolo Brenno Pozzi, che ai suoi tempi aveva corso con Gimondi e ormai da un pezzo faceva il direttore sportivo per la Sideral, una delle poche squadre italiane iscritte al circuito internazionale. Era stato lui a far firmare a mio fratello il primo contratto da stagista fra i pro. E sempre Brenno aveva insistito perché lo chiamassero a vestire la maglia azzurra della Nazionale giovanile; si era dimostrata una scelta lungimirante, ché in settembre Olli aveva onorato l’impegno azzeccando, nell’incredulità generale, la volata vincente ai Mondiali Under 23.

    Quel successo aveva commosso fino alle lacrime i nostri genitori e stava scombussolando la sua vita; refrattario alle interviste e angosciato dalle apparizioni pubbliche, il campioncino di famiglia mi aveva implorato di scortarlo nella Capitale a ritirare il premio che la Federazione gli voleva conferire.

    All’epoca non lavoravo ancora per lui. Credevo anzi di essermi affrancato per sempre dal mondo del ciclismo, e con quello da tutte le altre inclinazioni e manie che provenivano dalla casa dei nostri genitori.

    Come sarebbe accaduto molte altre volte nel corso della mia vita, mi sbagliavo della grossa.

    «Questo è un vicolo cieco, ragazzi» mi arrendo di fronte alla muraglia di rovi. «Torniamo indietro, fin dove eravamo ancora sicuri di essere sul sentiero.»

    «Finalmente una cosa sensata, papà» mi fredda Gaia.

    Pronuncio il suo nome in tono severo, ma lei m’ignora e comincia a risalire il pendio in diagonale.

    Allora scuoto leggermente la mano di Nic. «Andiamo, ranger» gli dico. «Altrimenti tua sorella ci sgrida», e ci avviamo a orecchie basse sulle peste della sorella.

    Risaliamo incespicando verso la dorsale, e mio figlio lascia andare un sospiro che mi ricorda certe pose stoiche di Olli da piccolo.

    Allora mi torna in mente l’incidente alla Pietra della Strega; a quel tempo mio fratello aveva dieci anni, un’età a mezza via fra Gaia e Nic, e mi prende un brivido nell’immaginarli qui da soli nella notte più nera.

    Alla bicicletta avevo rinunciato in fretta, io; la fiamma alla quale avevo rischiarato la mia adolescenza era quella del rock.

    Durante le lunghe stagioni dell’apprendistato coi Chernobyl, tra feste liceali e localacci da inchiesta, il nostro obiettivo era quello di incidere un disco. Ritenevamo che fare quel passo ci avrebbe proiettato in una dimensione ulteriore; posavamo da alternativi, ribelli, huligani dangereux, ma in verità smaniavamo all’idea di sentire un nostro pezzo che passava alla radio, allineare tour da decine di date e diventare schifosamente famosi.

    Quando finalmente ci trovammo fra le mani gli scatoloni che contenevano le trecento copie del nostro vinile, avevamo vent’anni. Per qualche settimana fummo felici della recensione apparsa su Rumore e dei passaggi del singolo su Radio Popolare, delle date suonate in apertura per gli Skiantos e i Flor de Mal, delle magliette col nome del gruppo stampato sopra e dell’invito a Videomusic; poi apparve con un nitore inequivocabile che non sarebbe accaduto nient’altro di rilevante.

    Il cantante Tony aveva un bel da insistere che dovevamo metterci sotto col secondo disco; bisognava guardare la realtà in faccia: nell’Italia degli anni ’90 un ragazzo non poteva sfamarsi grazie al rock, e lo scarto fra sogno e realtà ci portò a scazzare.

    Cisco era una matricola di architettura dalla mano felice e un buono spunto per la grafica, e insieme a lui mi imbarcai in un’altra, più severa avventura: dare vita a un’agenzia di comunicazione. Lui art director, io copywriter, entrambi animati da un’ammirazione sconfinata per ciò che avevano realizzato fra il ’77 e gli ’80 i ragazzi di Cannibale e Frigidaire, il gruppo Valvoline e l’agenzia Alcuni Giovani Occidentali. Se da Bologna erano partiti in tanti alla conquista del mondo, trasformando le proprie idee in dinari sonanti, chi eravamo noi per non provarci?

    All’inizio disponevamo unicamente di una stanzetta a casa di Cisco, una Olivetti elettrica, una fotocopiatrice di seconda mano e la sfrontatezza sufficiente per firmarci Black Market. Serviva far girare il nome, così sulle prime ci consacrammo alle campagne-pirata a base di scritte spray e manifestini A4, ma nel giro di poco trovammo dei clienti veri. Avevamo deciso di vendere il nostro talento e fra i nostri difetti non c’era quello di essere schizzinosi, così assecondavamo chiunque, dalla salumeria del centro storico all’impresa edile di Zola Predosa.

    Comprammo un Mac, e ci toccò fondare una società con regolare partita iva; un paio di stagioni prima ancora ci facevamo le storie su cosa sia lecito o meno per mantenersi purissimi artisti underground, e ora che la nostra impresa era felicemente registrata presso la camera di commercio disponevamo di bancomat e libretto degli assegni; godevamo senza sentirci in colpa delle cene scaricate come spese di lavoro e di tutte le altre lusinghe che Babilonia riserva ai giovani imprenditori.

    Il successo della nostra campagna per la Reprensa, una marca di cartucce per stampante rigenerate, ci proiettò sui giornali nazionali, e all’improvviso il telefono prese a suonare senza sosta.

    I nostri coetanei studiavano all’università, e noi stessi eravamo tenuti a dare almeno un esame all’anno per schivare il militare, ma era il momento di prendere la palla al balzo. A Bologna la nostra ambizione rischiava di arenarsi come l’arca sulla cima del monte Ararat; ci serviva navigare in acque profonde, così ci trasferimmo a Milano, dove i clienti avevano il portafoglio gonfio di copechi e le cose si muovevano in fretta.

    Nei primi tempi Cisco e io condividevamo un bilocale a Lambrate e cenavamo a lattine di sgombro e birre tiepide, ma un’indovinata serie di manifesti in stile Depero per una catena di supermercati ci portò in fretta a macinare utili.

    Altro che i miseri cachet dei concerti! Ora sì che il nostro talento riceveva la giusta mercede! Ci toccava lavorare dodici ore al giorno ma le nostre creazioni, prese in carico dal servizio affissioni del Comune insieme a quelle delle agenzie affermate, risplendevano nel fasto dei sei metri per tre agli svincoli della tangenziale.

    Finalmente potevamo pensare in grande: trasferimmo la sede della Black Market srl in un appartamento a ridosso del Politecnico, cambiai la mia cigolante Panda con una Golf a chilometri zero, e la manna continuava a cadere abbondante dal cielo.

    Nel 1998 la Rete era un Far West fitto di opportunità, e noi firmammo un vantaggioso contratto per curare la comunicazione di una casa di moda; ne venne una nuova commessa per un quotidiano, una terza per un marchio di articoli sportivi, e man mano che il portafoglio clienti continuava a lievitare ci toccava assumere nuovi collaboratori.

    A ventitré anni davamo lavoro a una squadra di sei persone; in una vampa d’ottimismo ci convincemmo che il mondo era un immenso campo da gioco, la vecchia Europa ne era il cuore, e Milano era nostra.

    Per festeggiare il primo milione di euro di fatturato, Cisco si limitò a offrire alla fidanzata un weekend alle Terme di Saturnia; io mi diedi a una settantadue ore di festeggiamenti selvaggi, in capo alla quale riaprii gli occhi nella luce d’una nuova alba, coperto di rugiada e inspiegabilmente privo delle scarpe, in un anonimo prato sulle rive del Naviglio Pavese.

    Tutto sommato, però, tenevo la barra dritta, e nel primo anno del nuovo millennio mi trasferii tutto solo in un ampio appartamento borghese di viale Lombardia. Piuttosto che sperperare soldi con gli affitti, mi ero detto, tanto valeva pagare un mutuo.

    In un anno guadagnavo il triplo di quel che le Ferrovie dello stato concedevano a mio padre, bonus d’anzianità compresi, e se pure la vita a Milano costava cara, il conto in banca strabordava a sei cifre. Così le rampogne prudenti e prolet che il Capotreno e la Sandra scoccavano da Bologna – «Attento a non fare il passo più lungo della gamba, Luca» – a nord del Po suonavano fioche e fuori luogo.

    Non si rendevano conto che ormai il loro figlio maggiore, quello che non dava mai retta a nessuno e se n’era andato di casa presto, si era inserito alla grandissima nella Capitale morale del Paese?

    Recuperiamo quota sino alla dorsale secondaria da cui si vedevano le luci del paese, ma ora non si distinguono più. È come se il buio avesse assunto una qualità materica, o un sipario ulteriore fosse calato fra noi e la nostra meta.

    Controllo il Galaxy: zero tacche e batteria ridotta al tredici per cento.

    Chiamo per nome mia figlia, e la voce mi esce meno rassicurante di come vorrei. «Hai con te il telefono?»

    «Papà!» protesta, «mi hai detto tu di lasciarlo in albergo!»

    Vero anche questo. Non volevo che Gaia trascorresse il pomeriggio col naso incollato allo schermo, indifferente alla solennità del bosco.

    «Perché?» domanda timorosa. «Il tuo non va?»

    «Qui non prende» spiego, e lei scuote la testa come fossi stato io a sabotare la rete.

    «Complimenti!» esclama. «E adesso?»

    «Andrà tutto bene, ragazzi» assicuro. «Vedrete. E un giorno, ricordando questa situazione, ne sorrideremo come di una cosa buffa.»

    «Non è tanto buffa» precisa Nic mentre rabbrividisce nel vento. «Prima era buffa. Adesso no.»

    «Fai sempre così, tu.» Gaia m’inchioda alle mie responsabilità. «Prometti che un giorno le cose saranno bellissime. Intanto, però, fanno pena.»

    Quelle parole mi colpiscono come una sferzata, e mi domando qual è stato il momento preciso in cui ho cominciato a sbagliare.

    Guadagnavo bene e avevo una bella casa, ma fuori dai miei giri non mi conosceva nessuno; così quella sera, a Roma, l’attenzione di Emma, la sua disponibilità a scambiare chiacchiere non banali, e persino a sorridermi, mi aveva lusingato.

    Andavamo entrambi per la trentina e conoscevamo il nostro posto nel mondo, così era bastato poco per prenderci le misure a vicenda: vivevamo a Milano, svolgevamo lavori di responsabilità, e tanto le mie prospettive quanto le sue si spalancavano ogni giorno di più su un avvenire che si annunciava carico di soddisfazioni.

    L’aspetto più stupefacente, tuttavia, era che quella donna, bella da lasciare storditi, era anche intelligente e spiritosa, diversissima dal profilo vacuo e altero d’una giornalista televisiva così come lo immaginavo.

    Amava stare all’aria aperta, lei, fare sport, e quando mi aveva raccontato delle sue estati d’infanzia fra i boschi della Valtellina, mi ero quasi commosso. In fondo, i suoi anni verdi non erano stati così diversi dai miei. E forse, ai suoi occhi, non ero un corteggiatore così improbabile.

    Al momento del congedo mi aveva lasciato il suo numero, e io mi ero sentito come un apprendista stregone, meravigliato dal potere della mia stessa magia.

    Le avevo scritto l’indomani, e in breve ci eravamo scambiati diversi messaggi, nei quali avevo messo ogni cura per non risultare sgrammaticato o inopportuno.

    Un paio di settimane più tardi l’avevo rivista a Milano con la scusa di un caffè, e in quell’occasione mi aveva lasciato capire di essere libera; di lì a poco, mi aveva invitato a una cena fra amici per festeggiare il suo compleanno, e ogni volta che il mio sguardo si specchiava nel suo dovevo sforzarmi per non sospirare.

    Ero innamorato di lei, e in cuor mio ero già disposto a perdonarle tutto: i genitori, medici e interisti, con casa in San Babila e villa a Bormio; il liceo dalle suore; il costoso master in giornalismo a Londra.

    Per me era semplicemente la donna migliore del mondo; la corteggiavo come uno stilnovista elettrico del XXI secolo, fra elaborati messaggi di buongiorno, omaggi floreali e attenzioni che non avevo mai riservato a nessuna.

    La prima volta che uscimmo a cena da soli, Emma e io

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