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Anime animali
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E-book190 pagine2 ore

Anime animali

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Info su questo ebook

Il libro ha ottenuto un riconoscimento come finalista al X Premio Letterario Internazionale di Poesia e Narrativa "Città di Sarzana".

Un padre, una figlia e i loro cani – ma non solo – intrecciano affinità profonde. Il padre educa la figlia ad affinare un comune sentire e l'affianca nella costruzione della persona, guidandola nella scoperta di come accarezzare le anime animali. Il senso delle parole, il tono in cui sono pronunciate, l'amore che sgorga, gli insegnamenti impartiti passano attraverso le braccia che, reciproche, stringono e sorreggono. Dieci racconti si snodano così in un percorso circolare lungo l'arco temporale simbolico della vita. Il cerchio si apre con un giovane uomo che svolge il servizio militare, lo accompagna nei momenti della paternità e torna, per chiudersi, ad un giovane uomo in procinto di partire per la guerra. La vita, nel momento in cui termina, trova il modo per rifluire nella vita, con un atto simbolico denso di significati. Uno stile lieve e asciutto racconta, sottotraccia, temi di rilievo: affinità familiari, arrivo e permanenza di un animale in famiglia, vita in simbiosi o abbandono, solitudine o empatia oltre la specie, responsabilità di scelte umane nei confronti degli altri animali e delle loro anime sensibili: perché non è più possibile pensare che ne siano sprovvisti.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2021
ISBN9791220377133
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    Anteprima del libro

    Anime animali - Amelia Belloni Sonzogni

    Qual è il filo?

    Sono fermamente convinta che gli animali abbiano anima, personalità, indole, carattere, sensibilità. E intelligenza. Sono individui senzienti. Vivendo a stretto contatto con noi umani, se e quando li amiamo, mostrano al meglio queste loro peculiarità, ma sta a noi coglierle e distinguerle. Possiamo per fortuna essere educati e formati a questo, possiamo leggere, studiare, apprendere; tuttavia, l’esito non è così scontato e purtroppo l’indole di certi umani risulta refrattaria a qualsiasi intervento.

    Alcuni invece, di sicuro privilegiati, ricevono come un nutrimento la predisposizione a comprendere il linguaggio degli animali, la bevono – come si dice – con il latte materno, tuttavia non è sempre la madre a trasfonderla. Talvolta esistono corrispondenze più dense e profonde con il padre: affinità elettive che passano anche attraverso la condivisione della familiarità con gli animali, connaturata e identica, si esprimono in un rapporto speciale, in cui la comprensione è uno sguardo, una carezza, l’accordo in una discussione, le stesse scelte. Il divario d’età, di generazione, lascerebbe presumere un logico conflitto che, invece, manca. Padre e figlia possono diventare, più che complici, esseri in armonia. L’antagonista può avere altre sembianze.

    C’è un filo, dunque, a legare tutto e nei filamenti che ne costituiscono l’intreccio entrano le figure, archetipiche ma concretizzate nei gesti quotidiani e nelle dinamiche familiari, di un padre e di una figlia con il loro amore per gli animali – soprattutto cani – e gli animali con le loro anime, personalità, indole, carattere e sensibilità.

    Come facce di un poliedro o fotogrammi sopravvissuti all’oblio, i racconti seguono l’arco temporale di una simbolica vita che, calata in momenti storici e ambienti diversi tra la fine degli anni Trenta e l’inizio del nuovo millennio, ne interseca altre.

    Durante e oltre il compiersi di questo ciclo vitale, la figlia riconosce netta in sé, negli atteggiamenti e nelle emozioni, l’identità del padre: presente nella spirale genomica, eredità biologica ed etica inalterabile, testimone di un’essenza tramandata. Quella, gli animali conoscono e riconoscono; in quella le anime si sincronizzano.

    Tutti gli animali protagonisti di questi racconti sono davvero esistiti. Ambienti, vicende e umani, sia pure ispirati a vita vissuta, sono invece rielaborati dall’immaginazione. Perciò è casuale ogni riferimento alla realtà inerente fatti o persone. Nel primo racconto gli eventi storici citati hanno il relativo riferimento bibliografico.

    Le immagini provengono dal mio archivio privato, comprese quelle di copertina. Quest’ultima è stata realizzata con il determinante aiuto tecnico di Federico Maderno, che ringrazio per la premura.

    Il mio sentito e rinnovato grazie va al prof. Raffaele Mantegazza per la prefazione, nuovo regalo a me e alla causa a cui questo libro si lega.

    Amelia Belloni Sonzogni

    Ufinta in marcia

    Ufinta

    Bassano del Grappa, novembre 1938

    Ad Ufinta piaceva il castagnaccio, forse per il profumo di bosco, o l’aroma del rosmarino; o per l’uvetta, così dolce. Il panettiere di Bassano ne metteva in abbondanza e piaceva da matti anche ad Antonio, che ne comprava spesso una fetta prima di incamminarsi verso i campi delle esercitazioni. Mangiava a piccoli pezzi mentre andava, in testa alla colonna più alto di tutti, con il conducente Giuseppe e un altro paio di alpini, Giovanni e Marcello.

    Con loro, primo mulo in colonna, camminava lei, Ufinta, mula dell’esercito, ma la mè Ufinta per Antonio era sua. La guardò annusare nell’aria il profumo che usciva dal cartoccio appena acquistato: allungava il muso, dilatava le froge e le labbra vibravano, come avesse l’acquolina in bocca. La trovava irresistibile. In silenzio le rispose «sì, aspetta» e le allungò un pezzettino di castagnaccio, mentre lui stesso assaporava il gusto amarognolo di fondo.

    «Sempre così, eh Ufinta? Come il primo giorno» commentò Giuseppe, mentre la osservava poggiare delicata le labbra sul palmo della mano tesa di Antonio e far sparire il boccone. Nessuno sapeva dove fosse nata quella mula. Antonio aveva provato a indagare, cercando il numero di matricola impresso sullo zoccolo anteriore sinistro, ma non aveva trovato nulla. Gli avevano detto che i fascicoli relativi ai muli più anziani erano stati persi qualche anno prima, nell’autunno del 1934, durante il trasferimento della scuola allievi ufficiali di complemento da Milano a Bassano. Sull’unica base di un proprio sentire, si era convinto che Ufinta fosse nata in Lunigiana come il suo conducente poiché la voce dell’uomo e il suo accento spiccato la calmavano come una ninna nanna.

    Giuseppe era contadino, rispettoso; come militare di leva, più giovane di Antonio era stato nominato suo attendente: lo accudiva con la premura di un padre. Antonio ricambiava considerandolo suo anche lui: el mè Giüsepp, diceva. Non gli dava ordini: elencava le operazioni da eseguire, chiedeva il suo parere e in caso apportava le modifiche opportune. Giuseppe non osava rivolgersi a lui in tono confidenziale, e quindi parlava alla mula in un abituale gioco delle parti, in cui tutti si divertivano:

    «Oh Ufinta! Gli stessi vizi, quasi ogni giorno».

    «Dove lo trovo un altro sottotenente così?» rispose Ufinta, con la voce di Giovanni.

    «Cosa vorresti dire, mula?» chiese Marcello.

    «È bravissimo. Questi bocconcini me li allunga solo lui».

    «È perché sei speciale, e lo sai, vero brutto muso?» disse Antonio ad Ufinta, con un sorriso.

    «Mi perdoni, – avvertì Giovanni, mentre la mula ruminava alla ricerca dell’acino dolce – Ufinta è molto permalosa, stia attento».

    «Ma no! Io e lei ci capiamo, ci siamo capiti subito. È bastato guardarci, ti ricordi? Il giorno in cui sono arrivato, quando ci siamo incontrati».

    «Se lo ricorda eccome! – intervenne Giuseppe – non riuscivo a spostarla da lei».

    «Mi ero incantato a guardare la Brenta e il ponte».

    Antonio aveva una nota di rimpianto nella voce; Marcello la colse e provò a sdrammatizzare:

    «L’abbiamo indotta a pentirsi della scelta?»

    Risero tutti, anche Antonio. Scosse il capo in segno di diniego e simpatia per quel sagace burlone veneto, con la battuta fulminea, sempre pronto a scherzare.

    «Mi ha visto Giuseppe, o mi ha visto Ufinta?»

    «È stata lei, è stata lei! – assicurò Giovanni – Ha annusato il cartoccio del castagnaccio! Mi ricordo benissimo: l’ha annusato e l’ha puntato».

    «Il ponte quel giorno pareva un salotto, ampio e accogliente. E io ero appena arrivato, dopo ore di viaggio, non avevo dormito né mangiato. Non sarà stato molto elegante, sbocconcellare del cibo in salotto».

    «L’ho notata perché sorrideva immobile ai muli, ma come se non li vedesse» raccontò Giuseppe.

    «Pensavi che mi stessi per buttare?» chiese Antonio con una risata.

    «Avevo capito che era assorto nei suoi pensieri, però non riuscivo a immaginare cosa nei muli potesse catturarla così».

    Era vero, ne era stato quasi ipnotizzato. Il suono degli zoccoli risultava cadenzato con un ritmo in controtempo su quello degli scarponi. Sulle assi di legno del ponte, risuonava un'eco più rotonda di quella prodotta sulla strada e la vibrazione si ripercuoteva sulle capriate quasi accarezzandole. Carichi, distanziati, tirati ognuno per le cavezze, sbuffavano; il loro fiato caldo avvolgeva tutto in una nube, dalla quale sbucavano le punte delle penne nere e il pelo sensibile delle orecchie. C'era, nel loro andare, qualcosa di restio, diverso dalla proverbiale cocciutaggine; si muovevano sicuri, lasciando dondolare le pance tonde, con l'indolenza di chi va controvoglia dopo aver abbandonato ogni inutile tentativo di dissuasione. Al vederli, Antonio aveva provato una tenerezza immediata, poi una disperazione struggente come se gli avessero suggerito che qualcosa di irreparabile stava per afferrarlo. Il presentimento di dover affrontare la sorte senza armi adeguate gli aveva stretto la gola, l’ansia quasi lo aveva paralizzato ma lo zoccolo di Ufinta battuto sul legno e un raglio improvviso, per quanto sommesso, lo avevano scosso.

    «Mi ero proprio incantato, Ufinta mi ha riportato alla realtà – disse, dandole l’ultimo pezzo della sua fetta di castagnaccio – e tu, Giuseppe, mi hai dato il primo insegnamento».

    «Quale?»

    «Volevo accarezzarla sul muso, ma lei si era girata nella direzione di marcia, verso la caserma. Allora, le ho dato una pacca leggera sul dorso. Ricordi?»

    «Ricordo che la stava seguendo».

    «Davanti ai muli e dietro ai cannoni, mi hai detto».

    «I muli scalciano e i cannoni sparano. Mi scusi, ma quel giorno lei era in borghese, non era ancora un mio superiore».

    «Non ti scusare. Mi sembra ieri. Invece, i campi estivi sono già terminati e si avvicina l’inverno».

    Cambiarono passo perché la strada iniziò a salire.

    Antonio si girò ogni tanto a guardare Ufinta: era un mulo di prima classe, addetta all’artiglieria da montagna, più alta degli altri in dotazione alla caserma, il collo robusto, la testa fiera che raramente si abbassava. Così, riusciva a fissare gli alpini diritto negli occhi.

    Gli facevano la stessa gran tenerezza del primo giorno, lei e gli altri muli, carichi come muli; ma soprattutto lei che era così speciale: per il pelo chiaro sulla pancia, per il muso vellutato, perché in marcia allungava ad ogni passo il posteriore destro con un gesto quasi vezzoso, perché non aveva mai preso a calci nessuno senza prima avvertirlo. Infatti, si impuntava, girava le orecchie all'indietro, ragliava e solo allora lasciava partire un calcio preciso e assestato.

    Quando Antonio andava a salutarla nella scuderia, l’accarezzava, le si appoggiava addosso e le raccontava di sé. Solo a lei aveva confidato che era riuscito a superare la visita medica per un soffio, perché da un occhio non ci vedeva proprio benissimo, quindi, in marcia, lei, il suo intuito e il suo equilibrio, gli erano di aiuto.

    Mentre lo sentiva parlare, Ufinta si immaginava libera: senza basti, senza pesi, senza recinti, su prati da brucare durante pomeriggi assolati, stesa all’ombra ad ascoltare ciò che Antonio, lontano dalla sua vita, anche solo pensava: la propria casa, le occupazioni quotidiane e gli occhi chiari della donna appena conosciuta, nascosti sotto le onde bizzose dei capelli neri. Era troppo presto, pensava Antonio. O troppo tardi, forse, per entrare nei dettagli di un progetto di vita abbozzato. Di certo, non poteva più tornare indietro; quindi, andava: di fianco alla sua mula, sui treni, sui carri, a piedi, dall'altopiano ai passi lungo le valli del Brenta e dell'Adige.

    Ufinta era sempre in testa alla colonna. Di fianco a lei, Giuseppe che sapeva parlarle, davanti a lei, tese, le penne degli alpini che non perdeva mai d'occhio. Le seguiva come una bussola, attenta a sua volta perché non sbagliassero strada.

    «Aria di neve» disse Marcello.

    «La sente anche Ufinta, guardi che naso» aggiunse Giuseppe. Le froge vibravano ritmiche, sempre più affannate.

    «Sarà meglio rientrare». Antonio ordinò il dietro front.

    Di notte, scese una bruma gelata e il mattino seguente, le strade erano infide lastre di ghiaccio sottile. Ne trovarono a tratti anche lungo i sentieri per raggiungere il campo invernale; dovettero rallentare il passo, poggiare gli scarponi al sicuro, controllare i percorsi dei muli.

    Il sentiero si strinse. Brulli cespugli di sterpi secchi delimitavano un margine oltre il quale si intravedeva una scarpata. Giuseppe si voltò ad esaminare la fila dietro di lui, scambiò con Antonio un cenno d’intesa, una silente frazione di secondo, poi sentì nella cavezza una tensione diversa: guardò, vide il posteriore destro di Ufinta slittare, Ufinta sparire. Trattenne il fiato, fino al tonfo sordo di Ufinta caduta. Urlò un alt strozzato dalla paura.

    Antonio si girò: non vide la mula. Vide Giuseppe proteso sull'orlo del sentiero, capì e si sentì perso mentre immaginava ferite incurabili, la necessità di non farla soffrire, di doverla abbattere. Corse a guardare. Si notava il posteriore destro in una posizione innaturale, si sentiva un lamento, un soffio che pareva un rantolo. Si scosse. Ordinò il recupero dell'animale e del suo carico. Mandò Giovanni a trovare un carro, dove voleva, dove sapeva. Gli alpini intanto si calarono, raggiunsero Ufinta, ferita ma viva. Le si affrettarono intorno, veloci, precisi, esperti. La imbragarono rapidamente. Era immobile: solo lo sguardo si aggirava stranito e le orecchie palpitavano appena. Il posteriore destro ciondolava inerte. Glielo steccarono.

    Li osservò sofferente, fissò i loro cappelli, le penne tese non erano le stesse che aveva davanti prima di cadere; voltò il muso in su, verso l'orlo della scarpata e tutte le altre penne radunate a guardarla le diedero le vertigini. Perse bava dalla bocca. Gli alpini si affrettarono. Ufinta li vide sbiaditi, li sentì parlare un'altra lingua. Vide Antonio lontano: il volto nascosto da un intrico confuso, una barriera lacerante di fili spinati, poi spari, raffiche, un rumore secco, metallico, catene, porte, serrature, rotaie. Vide Giuseppe dare di nascosto delle patate ad Antonio, pallido, macilento e tanto più alto di com'era. E poi la neve sui fili, sulle penne, e il freddo acuto.

    Svenne.

    La cordata la issò. Si affrettò il ritorno in caserma. Durante il tragitto, Ufinta rinvenne e si agitò, tentò di tirare calci senza riuscirci, le orecchie tremarono, il raglio le si strozzò in gola. A Giuseppe sembrò volesse avvertirli di qualcosa, ma gli parve un'idea assurda. Pensò delirasse per il dolore.

    Bassano del Grappa, ottobre 1939

    La curarono. Rimase a lungo avvolta in un'imbragatura appesa al soffitto della scuderia, in attesa che la zampa potesse reggere il peso. Quando riprese a camminare nel cortile della caserma, il posteriore destro era di nuovo saldo e forte: era pronta a tornare in servizio. Quello di Antonio, invece, era terminato.

    Prima di partire, andò a salutarla. Si aspettava un incontro triste ma complice, addolcito dal castagnaccio che le aveva portato; invece, Ufinta soffiò, si scostò dalle sue mani scontrosa, scorbutica. Sembrò volesse mandarlo via, finché lo guardò diritto negli occhi mentre le tremavano le orecchie e con un raglio sommesso lo salutò. Lui rispose: «Ciao bella; mi raccomando: prudenza».

    Cuneo, 23 dicembre 1942

    Poco prima di Natale, Antonio richiamato alle armi arrivò a Cuneo, dove ritrovò Giuseppe che si rese prezioso perché riuscì a scovargli una stanza in affitto, si preoccupò dell’acquisto dei viveri per le mense da organizzare, trottò sopportando gli umori ballerini del suo tenente, esasperato e preoccupato: mentre il loro mondo

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