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Una donna in gabbia
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E-book186 pagine2 ore

Una donna in gabbia

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Info su questo ebook

Nei cosiddetti anni di piombo (con un arco temporale che va dagli anni settanta agli ottanta del secolo scorso), in piena contestazione giovanile, rivendicazioni studentesche ed estremizzazioni concettuali e politiche, si delineano due figure femminili, molto diverse fra loro, seppur sorelle e con soli quattro anni di differenza. Una è integrata nel sistema e conformista, l'altra sempre in cerca di orizzonti libertari e impegnata a livello socio-politico. L'una coinvolta in una relazione con un francese schivo e riservato tanto da tenere nascosto il suo passato, l'altra libera da legami sentimentali. Le loro storie s'intrecciano e si dividono: ognuna percorre la strada più idonea al proprio temperamento, finché trascorsi degli anni si ritrovano a rivedere il proprio stile di vita e a imboccare percorsi diametralmente opposti, segregando l'una in uno spazio ristretto, scevro da qualsiasi forma di spregiudicatezza libertaria, e portando l'altra ad assaporare la libertà e a perseguire impulsi creativi. Nel romanzo s'innestano anche elementi di suspense e di mistero.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835828730
Una donna in gabbia

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    Una donna in gabbia - Antonella Polenta

    UNA DONNA IN GABBIA

    di Antonella Polenta

    Prima edizione: aprile 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 @BERTONI EDITORE Via Giuseppe Di Vittorio, 104 - 06073 Chiugiana

    Bertoni Editore www.bertonieditore.com info@bertonieditore.com

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Antonella Polenta

    UNA DONNA IN GABBIA

    Introduzione

    Quando una persona si sente prigioniera può fare due cose: soccombere o tentare di fuggire.

    In particolar modo se è donna e se ha sempre vissuto rispettando le convenzioni familiari e sociali. Ma il percorso di ciascuno è frutto anche delle esperienze vissute, non soltanto del voler rientrare in certi schemi al fine di ottenere l’approvazione di tutti.

    È quanto succede ad Alina, la protagonista del romanzo di Antonella Polenta, e ad Agave, sua sorella. Due poli opposti da giovani, due ragazze che vivono un’esistenza propria fino ad arrivare alla consapevolezza di non appartenere alla gabbia in cui volontariamente si sono rinchiuse.

    Certamente l’epoca in cui vivono, quella degli anni di Piombo, le aiuta molto in questo percorso. È un periodo particolare della storia italiana: quello del terrorismo interno, degli attentati che hanno provocato morti e feriti in nome della lotta al potere, della rivoluzione sessuale. Un mix di ingredienti che non può che provocare turbamenti interni in chi sente di vivere un’esistenza che non gli appartiene, anche se si impegna al massimo nel percorso che sta provando ad intraprendere.

    C’è chi preferisce liberarsi dalle catene della società

    dell’epoca che vogliono la donna moglie-madre-casalinga studiando e cercando con ogni mezzo di affermarsi nel lavoro. E c’è chi tenta un approccio alla libertà partecipando attivamente a cortei e volendo fare un mestiere che implica la presenza fisica sui luoghi degli avvenimenti più importanti e più rischiosi. Ma ad un certo punto bisogna fare i conti anche con la realtà. E rendersi conto che quello che si è costruito non basta più. Ed è allora che inizia la vera vita, con la consapevolezza della libera scelta.

    Un libro che vuol raccontare un percorso, non soltanto delle protagoniste e delle persone che ruotano attorno a loro, ma di un’intera generazione: quella che ha vissuto a pieno gli anni di Piombo.

    Lucia Pippi

    Con gratitudine dedico questo libro alla memoria di Franco Zagato, poeta, scrittore, traduttore

    e giornalista veneziano, per aver creduto in me

    e avermi incitata a continuare.

    Armonia, infatti, è sinfonia e la sinfonia un accordo: ma non è possibile un accordo di elementi discordanti, almeno finché rimangono tali, come è impossibile rendere armonico ciò che è discorde e

    non si può accordare.

    Dal Simposio di Platone

    I

    Mi chiamo Alina e non so quale sia l’origine del mio nome. E neppure quando ricade il mio onomastico. Ma a mia madre piaceva così. Molte volte mi sono chiesta come sarebbe stata la mia vita se mi fossi chiamata in un altro modo. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla.

    O forse sì.

    Gli echi dell’amore li percepivo in sordina. Lontani, isolati. Negli attimi in cui coglievo quei suoni, una sensazione strana, quasi di confusione mi s’intrufolava dentro. Mi sentivo smarrita e la paura cresceva nella mia anima, ma proprio in quegli istanti tentavo di coglierne la sinfonia. La sinfonia è consonanza. E la consonanza è quella che cercavo nell’amore. Un decorso lento, sofferto e solo con il tempo, intrecciandosi e sovrapponendosi, quei suoni a poco a poco avrebbero raggiunto l’armonia, o almeno l’armonioso accordo cui tendevo.

    Quel brano mi era entrato nella testa e nel cuore. Tchaikovsky: opera 35, concerto per violino e orchestra in Re maggiore. Alcuni giorni lo ascoltavo fin quasi allo sfinimento. E pensare che prima di quella sera al Conservatorio di Santa Cecilia, dove mi aveva trascinata quasi a forza la mia amica Susanna, non mi ero mai lasciata travolgere dalla musica classica, considerandola roba per vecchi.

    Era un pomeriggio di febbraio. Improvvisamente avvertii quel suono. Ovattato: quasi un richiamo fievole e pacato. Come in un gioco già giocato cercai di non prestarvi ascolto. Del resto, ero dotata di un misurato senso di preveggenza che si era andato diluendo nella discendenza generazionale. A differenza di mia madre e della nonna materna io ne coglievo solo leggeri palpiti.

    La giornata era fredda. Il vento gelido di tramontana mi scompigliava i capelli e fitte lancinanti in mezzo al petto, fra le costole, come lame aguzze mi costrinsero a fermarmi. Pensai che mi avrebbe fatto bene prendere qualcosa di caldo. Una bella tazza di cioccolata bollente, magari con una spruzzata di panna mi avrebbe ritemprata.

    Entrai in un bar, uno dei tanti della Stazione Termini: vecchio, decadente, maleodorante. E il mio sguardo scivolò su un ragazzo seduto a un angolo accanto alla vetrina. La testa reclinata e le mani compresse contro le tempie. Ciuffi di capelli biondi come fili d’erba riarsi dal sole ricadevano giù spioventi sulla fronte spaziosa. Appariva alto e muscoloso, almeno a giudicare dal busto incurvato sul tavolino.

    Non sembrava particolarmente felice. Per evitare di rimuginarci sopra e fare congetture che spesso e volentieri si dimostravano sbagliate, feci l’ordinazione.

    Una voce timida, flebile, dall'intonazione quasi femminile mi colse alle spalle.

    «Vous êtes italienne?».

    Seccata dal quel pedestre tentativo d’approccio, voltandomi e guardandolo di sfuggita, mi limitai a un cenno d’assenso.

    «Je suis français, je suis étudiant en philosophie. Je m’appelle Léon. Et vous?» disse il ragazzo per nulla scoraggiato e alzandosi in piedi.

    In effetti, era proprio un bel tipo: il fisico asciutto, ben proporzionato, il volto ovale, occhi cinerini tendenti al verde e labbra carnose.

    «Aline» risposi pronunciandolo alla francese. Ancora mi domando perché me ne uscii così. Lui mi regalò un largo sorriso.

    Per trarmi d’impaccio feci un gesto vago, pagai la consumazione e uscii dal locale.

    Giunta a casa, mi rilassai sotto la doccia, indossai la mia tuta preferita, dalla libreria estrassi due testi di chimica farmaceutica e sdraiandomi sul letto m’immersi nello studio. Mi mancavano pochi esami per conseguire la laurea in farmacia. Avevo fatto una corsa contro il tempo. E se tutto fosse andato per il meglio, mi sarei laureata in tre anni e una sessione, a soli ventidue anni.

    Era un mattino piovigginoso e freddo di marzo, mia sorella mi aveva pregata di passare in segreteria della sua facoltà a ritirare dei moduli. Se non fosse stata così insistente non avrei messo il naso fuori di casa per nessuna ragione al mondo.

    La fila allo sportello era lunga, anzi lunghissima considerando la scarsa pazienza che caratterizzava la mia indole: tanto da farmi rimpiangere l’incapacità di mostrarmi più risoluta con Agave. C’era poco da fare, su di me lei esercitava una forte influenza.

    Frequentava la facoltà di Magistero ed era impegnata politicamente: ritenendo giusta la negazione del capitalismo, perseguiva sogni marxisti. Sul piano politico e ideologico le nostre idee erano in netta antitesi. Entrambe avevamo letto il Manifesto di Marx ed Engels. Del resto non si poteva non farlo se si voleva evitare di essere tacciate di qualunquismo a scuola e dalle persone che a quei tempi contavano. Mentre Agave aveva abbracciato in pieno le teorizzazioni dei due rivoluzionari, io non credevo nel livellamento dei ceti sociali. Quello strumento non rappresentava il mezzo per giungere a un benessere comune, ma pura astrazione, un’ambizione utopica. Secondo me le distanze fra gli ideali egualitari e le realtà economiche rimanevano incolmabili o comunque non colmabili con l’equiparazione delle classi sociali. Che Marx ed Engels avessero sentito l’esigenza di contrapporre al timore dello spettro comunista, ventilato dallo zar, da Metternich, dai poliziotti tedeschi, dallo stesso papa e da François Guizot, che nel proletariato vedeva una classe pericolosa e instabile, un manifesto chiaro ed esplicito sul loro modo di vedere e concepire la lotta di classe si confaceva in pieno all’epoca reazionaria in cui i due filosofi l’avevano pensato e scritto.

    Una calca di gente premeva da dietro e lungo i fianchi, minando i miei nervi. Nel tentativo di aprirsi un varco fra la folla vociante, alcuni studenti si dimenavano con spintoni e sgomitate irritanti. Tanto da creare ancora più confusione e disagio a chi, seppur controvoglia, restava in fiduciosa attesa.

     Più che un ufficio universitario pare un porto di mare pensai sempre più irritata, confrontandolo con la mia segreteria, organizzata e senza ressa. C’era da dire, però, che la mia facoltà contava meno iscritti rispetto a quella di mia sorella.

    E poi faceva un caldo tremendo. Il cappotto in alpaca e il berretto di lana che avevo indossato al mattino mi toglievano le forze. Sbottonai il paltò. E con un gesto secco tirai via il berretto. I miei capelli neri lunghi e fluenti mi ricaddero scomposti sulle spalle. Avevo bisogno d’aria. Gli alti finestroni, posti sulla parete di fondo, erano tutti chiusi eccetto uno a bocca di lupo. Mi guardai attorno. La coda alla mia destra era più ordinata. Come il solito avevo scelto la fila sbagliata. Con rammarico osservai quegli studenti. Un ragazzo biondo dal volto bello e malinconico spiccava fra gli altri. I nostri sguardi s’incrociarono per qualche istante. Ci scambiammo un sorriso, poi senza un come né un perché anche i numeri telefonici.

    Di lì a qualche giorno Léon mi telefonò per invitarmi ad ascoltare della bonne musique a casa sua. Immediatamente provai un incalzante desiderio di fuggire nel paese delle passioni sublimate, dove gli esseri umani, liberi da vincoli affettivi stretti e opprimenti, vivono in perfetta armonia. Nello stesso tempo, come chi adagiato su un’amaca si abbandona al dondolio senza opporre resistenza, desideravo lasciarmi cullare nelle strette maglie della tentazione.

    Scelsi un vestito sobrio e sensuale al contempo. Mi pettinai con cura, infilai il montone color crema e senza fretta mi avviai. Più volte fui costretta a tornare indietro sui miei passi, sembrava quasi che non ritrovassi la strada, eppure quella via la conoscevo abbastanza. L’avevo percorsa tante di quelle volte. Mille fantasie costruivano immagini da caleidoscopio nella mia testa, pensieri contrastanti prendevano forma e poi si dileguavano con la stessa velocità con cui si erano formati. Davanti al portone tentennai.

    Perché mi trovavo là? Mi chiesi.

    Quel ragazzo lo conoscevo appena. E in genere diffidavo degli estranei. Poi ritrovando il coraggio, delicatamente appoggiai il dito sul campanello. Come se il poggiarlo con delicatezza potesse in qualche modo porre un diaframma fra me e Léon, così da evitare ogni forma di coinvolgimento e rischio emotivo.

    Una donna avanti con gli anni, dall’aspetto sciatto, trasandato mi aprì la porta. Con fare indolente e gesti flemmatici, indicò la stanza di Léon in fondo al corridoio. L’appartamento era buio, disadorno e un odore di chiuso permeava l’ambiente. Il lungo corridoio sconfinava nel bagno dalla cui porta semiaperta s’intravedeva il water. Provai un senso di disagio e nello stesso tempo di disgusto.

    La stanza di Léon era ampia e luminosa ma ossessiva. I disegni geometrici impressi sulla carta da parati parevano convergere verso di me per confondermi i pensieri. Léon era seduto sul letto e mi guardava in silenzio. Non era facile avviare la conversazione: conoscevo solo pochi vocaboli in francese e in ogni caso non volevo essere io la prima a rompere il ghiaccio. Lui, oltre ad avere in italiano le mie stesse limitazioni linguistiche, era poco loquace. Appariva distaccato e schivo, diverso dal ragazzo che avevo incontrato al bar. Forse ci aveva ripensato e si era pentito di avermi invitata. Ero nervosa, come in tutte le situazioni di cui non riuscivo a coglierne il senso. E in ogni caso detestavo gliatteggiamenti ambivalenti.

    Mi chiedevo che fine avesse fatto la spavalderia ostentata al bar? Per quale motivo aveva ceduto il passo alla prudenza?

    Mi rimaneva difficile far collimare quegli aspetti antinomici nella stessa persona, solo la bellezza, agendo da collante, le fondeva in una cosa sola.

    Le note di Johnny Hallyday s’innalzarono nella stanza. Estimatrice del genere pop, e sopportando il rock, ma solo quello di stampo anglosassone, non riuscivo ad apprezzare quella musica, per giunta francese. Dopo una buona mezz’ora, mi dissi che non aveva alcun senso restare ancora. Non avevamo nulla da dirci e da condividere. Indossai il cappotto di montone e lo salutai. Léon mi guardò perplesso, ma non fece nulla per trattenermi.

    Lo rividi una sera: bighellonava davanti al portone. Non sapevo da quanto tempo fosse là, ma non ebbi voglia di approfondire l’argomento. In ogni caso non avrei mai creduto che un tipo assorto come lui avesse potuto memorizzare l’indirizzo che a mezze parole avevo bisbigliato quella volta a casa sua. Se Léon avesse risposto ti aspettavo da un bel po’, avrei provato fastidio. Pur apprezzando i corteggiamenti, non amavo sentirmi pressata.

    Ancora una volta udii una musica aleggiare in lontananza. Lui si avvicinò e mi prese la mano. Premette le dita diafane e affusolate sul mio palmo. All’istante avvertii un fremito, ma cercai di dissimulare, forse malamente, la mia inquietudine. Dovevo sbrigare una commissione per mia madre, nello stesso tempo non volevo rinunciare alla sua compagnia. Con un filo di voce gli domandai se era disposto ad accompagnarmi. Léon rispose che l’avrebbe fatto con piacere. Fino in capo al mondo mi avrebbe accompagnata. Bastava solo che io glielo chiedessi.

    Uno accanto all’altra camminavamo in uno spazio sospeso, remoto. Il paesaggio intorno aveva assunto un’estensione nuova, irreale ed evanescente, come se una fata avesse trasformato un comunissimo viale cittadino in una sorta di bosco incantato, dove i profumi e gli aromi delle essenze boschive riempivano l’aria serale.

    Pensai a quanto fosse piacevole lasciarsi cullare, varcare i confini dell’immaginario, raggiungere e oltrepassare la soglia dell’oblio soprattutto quando la razionalità rappresenta un elemento sostanziale della propria esistenza. Pur presagendo la reale differenza caratteriale fra noi, ma forse era proprio quel modo d’essere diverso che mi

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