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Un angelo a quattro zampe: Una storia di libertà, resilienza e crescita spirituale
Un angelo a quattro zampe: Una storia di libertà, resilienza e crescita spirituale
Un angelo a quattro zampe: Una storia di libertà, resilienza e crescita spirituale
E-book346 pagine5 ore

Un angelo a quattro zampe: Una storia di libertà, resilienza e crescita spirituale

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Info su questo ebook

Gaia, il mio cane guida, ha riempito le mie giornate di libertà e gioia, ma anche di fiducia, orgoglio e gratitudine. Da aiuto nei miei spostamenti, è diventata prima un’amica insostituibile, poi una guida di vita, ovvero un esempio di pazienza, coraggio e stabilità. Attraverso la sua infinita empatia, mi ha accompagnata non solo per tanti chilometri, ma anche nei miei percorsi di crescita personale, proteggendomi nei momenti di paura e tristezza, come fa una guida angelica, e facendomi da specchio, perché io potessi curare le mie ferite. La nostra esperienza insieme è stata un incontro tra due anime che, unite da una profonda connessione, hanno affrontato sfide, allenato la resilienza e coltivato l’accettazione, giungendo a un amore smisurato, fatto di contatto, magia, presenza e compassione, fino all’ultimo istante, anzi, anche oltre, perché un sentimento così puro non può che trascendere la morte. Allora, grazie Gaia, per aver illuminato la mia visione interiore e per avermi fatto comprendere che la mia alta sensibilità è un dono e che si può essere felici solo difendendo i propri valori con determinazione, come fa un vero guerriero di luce.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2024
ISBN9788863657005
Un angelo a quattro zampe: Una storia di libertà, resilienza e crescita spirituale

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    Anteprima del libro

    Un angelo a quattro zampe - Paola Pocaterra

    © Anima Edizioni, 2024

    © Paola Pocaterra, 2024

    Immagine di copertina: Beatrice Bortoli, Ovunque e per sempre

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Per i diritti di utilizzo contattare l’editore.

    Direzione: Jonathan Falcone

    Redazione: Rossana Saullo

    Amministrazione: Loredana Brondin

    Impaginazione: Emanuele Bellisario

    Editing: Federica Pizza

    ANIMA s.r.l.

    C.so Magenta, 83 – 20123 Milano

    e-mail: redazione@animaedizioni.it

    www.animaedizioni.it

    I edizione Anima, giugno 2024

    Ristampe:

    ISBN: 9788863657005

    Versione digitale realizzata da Streetlib srl

    PREFAZIONE

    Questo libro nasce, in primis, da un patto uomo-animale e, in secondo luogo, dal piacere di esprimere la mia gratitudine a Gaia, un cane che non è stato solamente una guida in tutti i miei spostamenti, capace di aggirare ostacoli, evitare buche, trovare la via più semplice e salvarmi da sbadati o selvaggi conducenti di veicoli, ma una compagna di vita, con la quale ho vissuto esperienze indimenticabili, che è stata presente in traguardi molto importanti, ma anche che è stata la custode dei miei segreti, dei miei sogni, dei miei momenti di vulnerabilità e che ha saputo capirmi fino alla fine. Ogni capitolo ha l’obiettivo di raccontare come Gaia sia stata un angelo per me, perché mi ha regalato affetto, incorag- giamento, ispirazione e protezione. Non solo, mi ha donato pace e mi ha dato la possibilità, specchiandomi in lei, di cominciare un percorso di guarigione personale e spirituale e di scoprire le gemme nascoste nella mia anima.

    Le pagine a seguire non sono un decalogo del cane guida, non de- scriveranno nel dettaglio come funziona l’addestramento, quali sono le scuole in Italia, come ci si comporta quando si incontra un cane che ha tale ruolo; tutti questi argomenti verranno affrontati perché sensibilizzare è sempre un buon proposito, ma non è scopo di questo testo diventare un manuale di istruzioni ed essere esaustivo in tal senso.

    Leggerete, nel mio racconto, la storia di un amore incondizionato tra un cane e la sua conduttrice, un amore senza confini, capace di dare forza nei momenti difficili, di insegnare il valore del coraggio, di trasmettere il piacere di stare insieme, di esserci l’una per l’altra, di donarsi l’una all’altra, di evolvere insieme.

    Non è mia intenzione dire con questo libro che ogni coppia cane-non vedente deve vivere il proprio rapporto in questo modo, ciascun cane, così come ogni soggetto umano, è diverso dall’altro e, proprio per tale ragione, ogni relazione animale-uomo sarà speciale e unica. Questa storia, quindi, non è un modello o un esempio da seguire e non è detto che vi troverete d’accordo con tutte le mie scelte e tutte le mie affer- mazioni, ma vorrei raccomandarvi di approcciare alle prossime pagine con mente e cuore aperti.

    Forse a qualcuno sembrerà che i miei racconti siano ricchi di antropo- morfizzazione, di idealizzazione o di poesia, allora ci tengo a sostenere con decisione che Gaia non è stata un umano, né un amore platonico, è stata molto di più di tutto questo, per me lei è stata un vero angelo a quattro zampe. La parola angelo deriva dal greco "angelos" e significa ‘messaggero’. Provate a cercare sul vocabolario una definizione… Ot- terrete più o meno questa: essere di natura superiore a quella umana. Già, perché prima di Gaia non credevo potesse esistere qualcuno capace di così tanta empatia, sensibilità e sesto senso, tutte qualità che noi cerchiamo sempre nell’altro, ma che a volte abbiamo paura di donare, se non siamo mossi da sentimenti veri. Invece, un cane ci ama, ci ama sempre, senza giudizio, per come siamo, non per chi siamo. Un cane non ci abbandona se sbagliamo, non si prende gioco di noi, non ci disdegna mai, perché sa guardare nella nostra anima e la ammira. Gaia è stata un angelo, perché ha arricchito la mia vita, mi ha donato energia e, con le sue azioni quotidiane e il suo modo di essere, mi ha portato chiari messaggi, che mi hanno permesso di accrescere la coscienza di me stessa e far emergere le mie qualità e i miei valori.

    All’inizio di ogni capitolo scoprirete un componimento poetico, che non ha nessuna pretesa letteraria, ma che rimarca l’essere state due anime legate da una profonda connessione, che sarà indelebilmente eterna. Si tratta di un acrostico continuo, dove i nomi Gaia e Paola resteranno sempre uniti. Mi piaceva l’idea di introdurre ogni tema con alcuni versi, versi che vengono dal cuore, scritti nelle due settimane successive alla perdita di Gaia, con una naturalezza tanto immediata quanto consolatoria. Ci sarà sempre, in ogni poesia, una serie di parole chiave, che ritroverete in tutto o in parte nel testo in prosa.

    Un’ultima precisazione: tutti i nomi dei protagonisti di questo libro, a parte il mio, quello dei miei familiari, dei miei animali, dei cani amici di Gaia e dei personaggi famosi, sono di pura fantasia, per rispetto delle norme sulla privacy.

    Fatte queste premesse, non mi resta che augurarvi buona lettura ed esservi grata per dedicare il vostro tempo a rivivere con me le mie avven- ture con Gaia; sarà un testo intriso di emozioni toccanti, con la speranza che il nostro affetto reciproco sia palpabile e che possa arrivarvi il mio sentito ringraziamento alla mia cagnolina e al suo animo meraviglioso.

    CAPITOLO 1

    Da spavento a scelta

    18 LUGLIO 2006

    Non credevo che sarei mai arrivata a valutare l’idea di richiedere un cane guida. Da un anno vivo a Firenze, essendo riuscita a superare il test d’ingresso del corso di laurea in Fisioterapia, anche se ho mantenuto la residenza nella casa di campagna in provincia di Ferrara, ad Ambrogio City, dove risiedono ancora mamma Iole, papà Riccardo e mia sorella Barbara e dove un tempo abitavano anche i nonni paterni, Romeo e Luisa. Il mio rapporto con gli animali e la natura è sempre stato molto profondo, a tratti semplicemente piacevole e giocoso, a tratti amorevole ed empatico. Durante l’infanzia ho avuto pesci, tartarughe, galline e con queste ultime, nei momenti di birboneria, mi divertivo, dapprima nutrendole con l’insalata, raccolta dall’orto, di nascosto dalla nonna, e poi facendole fuggire negli angoli più remoti del pollaio, poiché spruzzate con pistole d’acqua. Altre volte, mi trasformavo in eroe, proteggendo mia sorella dalle lucertole che le facevano tanta paura, inducendole a scappare, senza vederle, con rumorosi salti e battendo i piedi a terra. La mia passione però sono sempre stati i gatti. Pucci, il mio gatto tigrato, la cui terribile e ingiusta morte per avvelenamento ancora mi distrugge, era il mio migliore amico felino: quando avevo freddo lo posizionavo sulla mia pancia, quando avevo bisogno di coccole ascoltavo le sue fusa e, ogni volta che era possibile, silenziosamente, lo portavo nel letto a dormire con me. Ogni tanto gli pestavo la coda, in altri casi gli schiacciavo una zampa quando mi finiva in mezzo ai piedi, altre volte inciampavo dandogli involontariamente un calcio, ma lui mi perdonava all’istante ed era sempre vicino a me. Mici, una gattina che ha avuto la sfortuna di nascere bianca e nera, i colori di una squadra di calcio che non amo particolarmente, è comparsa improvvisamente nel nostro giardino, qualche anno dopo l’arrivo di Pucci: era magra, triste e poco pulita. Ricordo la raccomandazione di nonna Luisa di non toccarla, di lasciarla in pace, di non darle da mangiare e la mia immediata prontezza a disubbidire, proponendole la scatoletta più gustosa che avevo in casa. Dopo alcune battaglie territoriali, era diventata una sorella acquisita per Pucci e, con lui, aveva condiviso la stessa infame sorte finale, che ancora continua a farmi piangere. Dunque, se con i gatti ho sempre avuto feeling, i cani mi facevano paura: niente panico, niente terrore, però non ero io a cercare un contatto con loro. Avevo tre anni quando mi aggiravo sul mio triciclo rosa nel cortile di casa, sotto lo sguardo attento di nonno Romeo, che ogni tanto mi urlava di curvare per evitare che mi schiantassi contro il cancello o il portone del garage, dato che la mia cecità parziale non mi permetteva di muovermi con spontaneità. Il mio cervello aveva mappato le distanze e quindi anch’io potevo andare sul tre ruote, ma quello che la mia mente non aveva messo in conto era la possibile presenza di Foca, il cane da caccia dei vicini, che un giorno, infilando il muso in un buco del muretto confinante con il nostro cortile, ha deciso di abbaiarmi improvvisamente e qui, la mancanza della vista, ha fatto la differenza, perché il non poter definire a che distanza si trovasse esattamente e che intenzioni avesse ha ingigantito lo spavento e anche perché, ma questo vale per tutti, il nostro cervello non fa distinzione tra pericolo reale e immaginato. Ricordo di aver pianto, di aver lasciato immediatamente il triciclo e di aver conservato nella mia memoria e nel mio cuore il timore dei cani per tanti anni.

    Sono seduta sul divano del mio appartamento fiorentino e sto compilando assieme alla mamma il modulo di richiesta per ottenere un cane guida. Al di là dei dati anagrafici, mi chiedono il mio peso e la mia altezza, se ho altre menomazioni e il grado di cecità. Vanno indicate poi le caratteristiche della mia casa, la metratura, se è a piano terra o se presenta scale, se ha un giardino privato o no. Inoltre, devo descrivere se vivo da sola e se possiedo altri animali da compagnia. Infine, viene domandato il tipo di strade che devo percorrere abitualmente (cittadine o periferiche), la tipologia della mia andatura (lenta, normale o veloce) e il tipo di traffico che quotidianamente devo affrontare (intenso o meno).

    Rispondo che abito da sola a Firenze e sono in affitto in un bilocale con un giardino condominiale sul quale non potrò contare, ma ho la fortuna di avere un parco pubblico adiacente al cortile. L’abitazione è piccola, al primo piano, ma il palazzo è dotato di ascensore. Chiariamo subito, una persona non vedente non è che non può fare le scale, però, dal mio punto di vista, meno barriere architettoniche ci sono nell’ambiente, meglio si vive! Aggiungo anche che non ho altri animali domestici con me, ma, ogni volta che tornerò a casa dai miei genitori, il mio cane dovrà frequentare i gatti dei vicini e, chissà, magari, prima o poi, anche un nostro nuovo felino.

    Le domande più difficili però sono le ultime…

    Perché hai scelto di prenotare un cane guida?

    Cosa ti aspetti dal cane guida?

    Esatto, si tratta di una vera e propria prenotazione; immaginate di chiamare il CuP della vostra azienda sanitaria, solo che invece di sentirvi dire che dovete aspettare qualche mese per effettuare la visita medica della quale avete tanta necessità, scoprite che potreste dover attendere da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni per accogliere tra le vostre braccia un cane guida. Purtroppo c’è una lista d’attesa alla quale attenersi, per cui occorre armarsi di santa pazienza e, nel frattempo, proseguire in qualche modo nella propria vita, avvalendosi di altri strumenti o supporti, come il bastone bianco o il servizio civile volontario.

    Partiamo con il dire che la pazienza non è una delle mie qualità più spiccate: tutto nasce dalla mia infinita curiosità, voglia di conoscere ed esplorare il mondo, che a volte mi rendono impaziente, entusiasta e ansiosa. Mi dico spesso che più esperienze facciamo, più persone incontriamo, più ci confrontiamo con il resto del pianeta, più il nostro mondo interiore cresce, più comunichiamo alla nostra corteccia cerebrale che avrà tanto lavoro nella sua vita, più costruiamo percezioni, sensazioni e sogni, insegnando anche ad occhi malati a vedere senza vedere. Fuori dalla porta c’è un universo di cose da scoprire e da sperimentare, quindi perché aspettare?

    Mi sembra incredibile che si debba attendere per ottenere un cane capace di migliorare la propria qualità di vita, ma purtroppo o per fortuna non tutti gli avvenimenti sono sotto il nostro controllo o sotto la nostra volontà, e così non resta altro da fare che allenare l’accettazione, ovvero quell’abilità tanto difficile da interiorizzare e mettere in pratica, che consente di riconoscere che ci sono situazioni che non dipendono da noi e sulle quali non abbiamo un potere diretto e condizioni sulle quali, al contrario, possiamo intervenire. Accettazione non è rassegnazione o passività, ma è accogliere le esperienze come accadono, lasciando fluire la vita. Accettazione è dare il benvenuto alle proprie emozioni, ascoltarle e non restare intrappolati nella loro negatività. Mi è capitato spesso di incontrare persone che mi hanno detto che ho accettato bene la mia malattia. Se accettare non significa essere d’accordo con quanto successo, ma piuttosto evitare di attivare una massacrante lotta interiore, allora sì, possiamo dire che ho accolto la mia realtà, ma non l’ho fatto di certo a braccia aperte, bensì con molta fatica, molta sofferenza, molta gradualità e un grande lavoro su di me. Non è stato facile, non nego che momenti di disagio di tanto in tanto siano ancora presenti, così come non nascondo che il cammino non è stato e non sarà mai lineare e privo di intoppi o passi indietro, ma l’importante è aprirsi a tutto ciò che accade, comprendere come agire per migliorare ogni giorno la propria vita e poi fare tutto ciò che è nelle proprie possibilità per mettere in atto i propri intenti. Del resto, i meccanismi di difesa, come fare finta di niente, negare, rifiutare o evitare una situazione, alla lunga, non fanno altro che costituire un limite. L’accettazione è un percorso, che a tratti è rettilineo, a tratti presenta curve e fermate e che può essere più o meno veloce. Le emozioni non vanno represse; accettare non vuol dire non provare momenti di paura, rabbia, senso di ingiustizia, frustrazione, ma poi bisogna trovare un modo affinché possano fluire, senza aggrapparsi a essi, senza legarsi o addirittura identificarsi con gli eventi che si verificano, nella certezza che si può lasciare andare solo se si è disposti a farlo. Le emozioni soffocate si scaricano a livello corporeo, provocando la comparsa di sintomi, o a livello comportamentale, ad esempio rendendoci irascibili o facendoci avere improvvisi scatti d’ira. Non dare loro attenzione per paura non significa non sentirle, anzi, vuol dire sperimentarle in modo inconsapevole e dare loro l’opportunità di divenire sempre più intense. Il processo di accettazione richiede quindi anche un lavoro sulle emozioni, imparando a stare con quello che c’è, accogliendo le esperienze così come sono e affrontando ciò che si manifesta, per evitare di cadere in meccanismi di compensazione o in fenomeni di evitamento e chiusura.

    La richiesta di un cane guida è un’avventura del tutto nuova per me, per questo, ancora una volta, dovrò attingere alla mia forza personale e iniziare un nuovo training interiore per aumentare la mia consapevolezza, la mia accoglienza e la mia pazienza; tuttavia non voglio abbandonare l’idea che le dinamiche in futuro possano cambiare e, quindi, mi auguro che prossimamente ci siano maggiori fondi economici a disposizione delle scuole di addestramento, e che quindi sia possibile consegnare un maggior numero di cani guida all’anno. Nel frattempo, cerco di cambiare la prospettiva con la quale guardo questa situazione, visto che ciò che conta non è quello che ci accade, ma come noi reagiamo a ciò che ci accade, o meglio come noi agiamo intenzionalmente su quanto ci accade. Penso che in attesa del cane, muovermi con il bastone bianco, trovare il coraggio di chiedere aiuto se in difficoltà o cercare con le mani un appiglio sull’autobus mi permetteranno di allenarmi a elaborare i momenti di vergogna. Non solo, potrò utilizzare il mio tempo per migliorare la mia capacità di prestare attenzione a tutti i rumori incontrati per strada e imparare a prendere riferimenti utili per sapere sempre dove mi trovo. D’altra parte, ricevere l’aiuto dai ragazzi del servizio civile significherà stare in compagnia di persone giovani e, magari, avere l’occasione di creare belle amicizie.

    Tornando al modulo di richiesta da compilare, l’ultimo quesito, ovvero quello che indaga da dove nasce la motivazione a prenotare un cane, è piuttosto profondo. La mia risposta mescola praticità e bisogno di sostegno. Così esprimo alla mamma il mio pensiero.

    «Vorrei un cane per potermi spostare liberamente, con movimenti sereni e armonici, perché quando sbatto con il bastone contro macchine parcheggiate sulle strisce pedonali o contro pali della luce, mi spavento. Vorrei un cane perché mi protegga, perché attraversare la strada in due è più bello che farlo da soli, perché sono consapevole di avere bisogno anche di una sicurezza psicologica al mio fianco».

    Lo penso, ma non lo dico, vorrei un cane perché a vent’anni, a volte, mi sento in imbarazzo a farmi accompagnare da mamma e papà, perché non è detto che i volontari siano sempre disponibili e perché voglio sentirmi libera di frequentare chiunque, senza che sia necessario far combaciare gli impegni altrui con i miei. Vorrei un cane perché ho bisogno di indipendenza e autonomia. Essere libera per me non significa fare ciò che mi pare, significa avere sempre la possibilità di scegliere il meglio per me in una determinata situazione. Allora ci sarà la volta nella quale desidererò muovermi solo con il mio cane e quella nella quale chiederò un supporto a mamma, a papà, a un amico o a un volontario. Nella vita c’è sempre una scelta: capiamoci, io non posso decidere se vedere o no, almeno finché la scienza non creerà le condizioni per valutare una cura sicura ed efficace, ma posso scegliere come vivere la mia disabilità visiva. Ricordo che, fin da piccola, l’assistente sociale, che ci seguiva, insisteva con i miei genitori affinché mi stimolassero a essere autonoma e non dimenticherò mai la dura frase che disse loro una mia insegnante alle scuole medie, sostenendo che avrebbero dovuto lasciarmi sbattere i denti a terra perché io imparassi a mettere le mani avanti quando mi muovevo. «Alla faccia delle moderne tecniche pedagogiche» avevo pensato! Il tema dell’autonomia, quando è presente una disabilità, è sicuramente centrale: lo dico chiaramente, per me essere indipendenti non significa non chiedere mai aiuto, perché questo atteggiamento sarebbe sinonimo di arroganza, mentre nella vita bisognerebbe perseguire l’umiltà, ovvero quella qualità legata alla consapevolezza, che consente di valutarsi con equilibrio e sincerità. Va detto, fra l’altro, che spesso dietro alla superbia si nasconde una grande insicurezza e la necessità di mascherare la vergogna. Conosco persone, disabili e non, che sfociano facilmente nel vittimismo, altre che hanno sempre bisogno di dimostrarsi forti, ma, a mio avviso, la forza deve essere interiore, non esteriore e non dev’essere scalfita dal rendersi conto di avere qualche debolezza. Come in tutte le cose, ci vuole bilanciamento: non è opportuno domandare sempre aiuto perché si rischierebbe di sfociare nel pretendere, ma è sbagliato non chiedere mai, perché si vive questo atto come un’umiliazione. Si può apprendere come mettere insieme gli opposti: voglio essere autonoma, ma non mi vergogno di domandare quando sento di avere poche risorse o quando mi percepisco in difficoltà. Voglio sapermela cavare da sola, ma non voglio aver paura di chiedere aiuto. Quanto ai miei genitori, hanno indubbiamente avuto un arduo compito, ma mi hanno cresciuta nella consapevolezza di non poter vivere in eterno, spronandomi, con dolcezza, a conquistarmi, passo dopo passo, gli strumenti, pratici ed emotivi, necessari perché io raggiungessi un buon livello di indipendenza. Una mamma o un papà che hanno un figlio con una disabilità sono chiamati e portati a dare molto di più rispetto ai genitori di figli normodotati, ma quello che dico sempre alle famiglie che hanno un bambino con una particolarità, quando vengo coinvolta in incontri di mutuo aiuto, è, nella complessità della situazione, di ricordarsi anche di se stessi: dare più tempo, più energie, più dedizione di quante se ne abbiano a disposizione crea disequilibrio, perché porta a dimenticarsi dei propri bisogni e a non ascoltarsi più. Gesù stesso diceva: «Ama il prossimo come te stesso», non più di te stesso. Non è possibile far star bene gli altri senza prima occuparsi del proprio benessere, è fondamentale amarsi per poter amare, è necessario prima aiutarsi per poter aiutare serenamente e, questo può richiedere di saper dire qualche no, di essere in grado di prendersi degli spazi per sé, di esserci non per senso di colpa o per mancanza di rispetto verso se stessi, ma per il piacere di esserci. Un bravo genitore o, per meglio dire, un genitore consapevole non è quello che, per paura, impedisce al figlio di fare esperienze o che fa le cose al posto suo, ma è quello che sostiene dove si accorge che ci sono limiti o potenzialità ancora da sviluppare, è colui che è presente, senza diventare invadente e sa, quindi, dargli la possibilità di crescere e, eventualmente, di sbagliare, donandosi nella giusta misura. Allo stesso tempo, un bravo figlio o, per meglio dire, un figlio consapevole sa essere riconoscente e manifesta con gioia la sua gratitudine. Quest’ultima è una potenzialità che deve essere mantenuta in equilibrio, non deve quindi essere né carente, perché porterebbe a risultare ingrati e a non valorizzare l’affetto, lo sforzo o il sacrificio altrui, né eccessiva, perché condurrebbe a sentirsi sempre in debito, in obbligo di ricambiare, nascondendo magari dietro a questo atteggiamento la paura di non essere accettati. Dunque, sia nell’amore che nella gratitudine serve coraggio.

    I miei pensieri continuano a viaggiare, senza però che escano altre parole a voce alta. Vorrei un cane perché i miei occhi mi stanno lasciando sempre più e so che anche la percezione di luci e ombre, che già da tanti anni mi fa classificare come cieca assoluta, potrebbe essere cancellata dal buio.

    La mia compagna di vita è una distrofia retinica ereditaria, causata dalla perdita dei fotorecettori e caratterizzata da depositi retinici di pigmento, visibili con l’esame del fondo dell’occhio. Tale malattia si è manifestata già pochi mesi dopo la mia nascita, per darmi l’opportunità di adattarmi passo dopo passo a questa condizione. Lo dico senza ironia e con molta sincerità: meglio avere il problema fin dall’inizio, invece di diventare un’adulta vedente che si trova nell’oscurità dall’oggi al domani, vivendo uno shock devastante e rischiando di sentirsi, per lungo tempo, arrabbiata con tutto e tutti per l’ingiustizia subita. Non ho esperienza visiva di profondità, tridimensionalità, visione di insieme, ma tutti gli altri sensi hanno sopperito a questo, permettendomi comunque di costruirmi un’idea del mondo. Giorgio, il mio oculista, che per me è come un secondo padre, mi ha cresciuta senza illusioni. La retina è considerata un organo tanto nobile quanto complesso, quindi perché creare false speranze? Non c’è niente che faccia soffrire di più delle grandi aspettative disattese. Anche a dodici anni, quando già entravo nel suo ambulatorio da sola, non ho mai avuto timore di fare domande, anche scomode, che mi riguardavano. Inutile scappare dalle cose che ci fanno paura, perché continueranno a farci paura. Non solo. Si manifesteranno sempre più spesso e con maggiore forza. La genetica mi ha sempre affascinata, ma faccio fatica a farci amicizia: credo abbiano provato a spiegarmi già mille volte la differenza tra forme autosomiche dominanti, recessive e legate all’X, ma anche se sto studiando materie scientifiche all’università, vista la facoltà che frequento, non chiedete a me informazioni di questo tipo. Anche perché sarà tanto importante fare ricerche genetiche, ma non dimentichiamo che esiste tutta la sfera dell’epigenetica, ovvero di quella scienza che rappresenta un ponte tra psiche e corpo e che studia come l’età e l’esposizione a fattori ambientali, quali dieta, attività fisica, farmaci e stress, possono modificare l’espressione dei geni. I geni raccontano di noi, ma il contesto in cui viviamo, le scelte che facciamo, i pensieri che abbiamo e le emozioni che proviamo possono avere una certa influenza. Non ho problemi a riconoscere, ad esempio, che i miei più evidenti peggioramenti visivi si sono verificati in periodi di passaggio o di forte stress. So che a volte le persone si sentono a disagio e hanno paura di ferirmi quando mi chiedono di descrivere la mia patologia: io in realtà ne parlo tranquillamente, anzi credo sia da apprezzare chi mostra interesse e chi cerca di capire la mia condizione, per potersi sintonizzare maggiormente con il mio universo. In questo primo anno di università, dove mi sono ritrovata lontana dalla mia famiglia e nel quale ho iniziato il mio primo corso di mobilità e orientamento, ho realizzato che un cane mi aiuterà anche a fronteggiare la vergogna, un’emozione che si manifesta quando si avverte una mancanza di dignità e di valore. È come se, per tutta una serie di episodi vissuti nell’infanzia e per un senso di inferiorità dato dal confronto con la cosiddetta normalità, non ci si sentisse degni di esistere e si preferisse quindi nascondersi, non esporsi, restare nell’ombra. Prima parlavo di accettazione: un altro grande lavoro da fare è l’accoglienza di se stessi, con le proprie ferite, le proprie inadeguatezze, le proprie vulnerabilità. Su questo so che devo scavare ancora molto dentro di me: accettare la malattia è un conto, accettarsi come persona è un altro. Posto che solo io posso autorizzarmi a uscire dal guscio, solo io posso gestire la mia timidezza, solo io posso fare pace con le mie emozioni e solo io posso convincermi che mi merito di vivere una vita piena, sicuramente, il corso di mobilità che sto svolgendo e il futuro arrivo di un cane rappresenta e rappresenterà un importante stimolo. Altro aspetto su cui ho meditato in questo periodo è che, se nel tempo la luce, che vedo e che ancora mi dà qualche riferimento, dovesse affievolirsi o scomparire del tutto, un cane potrebbe rappresentare i miei occhi in ogni momento e in ogni luogo. Il cane guida è, infatti, tutelato dalla legge, ha diritto di entrare in tutti i locali pubblici, negli ospedali e nelle scuole, può salire su qualsiasi mezzo di trasporto senza pagare un biglietto aggiuntivo e può soggiornare in qualsiasi hotel, indipendentemente dal fatto che in esso siano accettati o meno animali da compagnia. Insomma a questo cane è concesso di essere sempre presente al fianco del suo amico non vedente, perché ha un ruolo prestigioso, onorabile e di grande responsabilità, una responsabilità che a volte gli umani stessi fanno fatica ad assumersi o che, ironicamente, dico che è meglio non si assumano. Dovete sapere infatti che tra le varie tecniche spontanee di accompagnamento di una persona cieca esiste la modalità sacco di patate. Potete visualizzarla più o meno così: l’accompagnatore afferra entrambe le mani della persona disabile e la trascina, ponendosi di fronte a lei, camminando all’indietro come un gambero. Ecco no, capisco che non tutti possono essere accompagnatori esperti, ma giuro che quando qualcuno cerca di trasportarmi in questo modo, faccio davvero fatica a restare calma e, dato che un cane non potrà mai condurmi in questa maniera, ma anzi, sarà sicuramente un’ideale accompagnatrice, mi sembra un simpatico motivo in più per farne richiesta! Non conosco non vedenti che amino farsi guidare attraverso l’opzione sacco di patate, ma vorrei sottolineare che ogni persona è diversa dall’altra: l’aiuto che fa piacere a me non è detto che sia gradito a un’altra persona o, in generale, quello che potrebbe fare bene a me potrebbe non generare lo stesso beneficio per un altro. Una volta ho letto una storia che aveva come protagonisti una scimmia e un pesce. Un giorno una scimmietta vide un pesciolino e lo tirò fuori dall’acqua per paura che annegasse e lui, ovviamente, dopo poco morì. Qual è la morale? La scimmia ha proiettato i suoi bisogni sul pesciolino, che però aveva necessità completamente diverse. Dunque, ciò che rappresentava un pericolo per lei era vitale per lui. Questo per dire che ogni essere vivente è unico, quindi se si vuole aiutare bisogna prima capire quali sono i reali bisogni dell’altro,

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