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Involontariamente
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E-book147 pagine2 ore

Involontariamente

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Info su questo ebook

Una bambina assetata d’amore non compreso dai genitori che “involontariamente” le faranno molti danni. Una violenza a tredici anni che le segnerà la vita. Un malessere crescente con episodi di perdita di sé, di smarrimento totale. E poi il percorso di salvezza: l’amore, la psicoanalisi, il Buddhismo. Il tutto raccontato con linguaggio diretto ed efficace.

Luisa D’Elia Riviello, nata a Bologna, ha vissuto a lungo a Dublino. Si è dedicata allo studio della lingua cinese e al canto, ma la sua più grande passione è la scrittura.
 
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2019
ISBN9788835374329
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    Anteprima del libro

    Involontariamente - Luisa D’Elia Riviello

    133.

    I

    Sono nata a Bologna nella notte del 5 novembre del 1966, sull’onda dell’alluvione di Firenze. A Bologna c’era un metro d’acqua, così dice mia madre, la quale una volta se ne uscì con una questa frase: «Eh pensavo che chissà chi dovesse nascere invece sei nata tu».

    Ho creduto erroneamente che lei volesse un maschio! Prima figlia femmina, seconda figlia femmina, terzo figlio naturalmente maschio… E invece no: terzo figlio ancora femmina, e nasco io.

    Luigi, nonno materno, era buono, ma il nome Luigia non piaceva e mi hanno chiamato Luisa.

    A mia madre era morta la prima figlia di due anni, per una grave malattia contagiosa, perché le persone, anziane, a cui era stata affidata una sera non dissero – particolare tutt’altro che irrilevante – di esserne affetti. La piccina si ammalò e morì!

    Mio padre, precursore dei tempi, era molto indaffarato nel suo bunga-bunga, lui però non pagava le donne che non erano minorenni, e lui non era Presidente. Era agente in un importante gruppo editoriale e diventò presto il responsabile di tutti gli agenti in Italia. Girava con una Jaguar verde. Era giovane e bello ma superficiale e del tutto assente. Mia madre aveva sofferto da ragazza, non si amava e si vedeva brutta, anzi un mostro. E non furono i buoni voti a scuola a farle cambiare opinione di sé, o il corteggiamento dei tanti spasimanti. Confessò tutto ciò alla luna, unica a sapere della sua profonda inquietudine, si sentiva sola nonostante gli affetti.

    Mamma si ritrovò a Bologna con due bambine piccole e il pesante lutto della prima figlia, Elisabetta, che era così bella da non sembrare vera. Questo dolore pesava gravemente anche su me e mia sorella, sulla nostra infanzia, sulla nostra vita. In mamma questo tremendo dolore si mescolava con la sua antica sofferenza e, quando il suo matrimonio fallì, il suo strazio divenne un urlo silenzioso, un suicidio tentato, ma fallito. Ci prese e ci portò a Potenza, dove c’era mia nonna.

    Mamma aveva un tesoro: la sua curiosità per le cose del mondo.

    Amava la filosofia, la storia, la liberazione delle donne, la giustizia sociale, la Pace. Si aggrappò a esse e non mollò la presa per tutta la vita senza prestare ascolto a nessuno. Seguirono letture, lotte, dibattiti, manifestazioni. Ricordo mamma con un grosso megafono e un cappottino a quadri in una manifestazione con l’Unione donne italiane. Poi con il PCI. Mi ha fatto amare Berlinguer e ho per molto tempo sperato che si realizzasse la terza via di cui egli parlava come alternativa tra il Comunismo e la Socialdemocrazia. Quei luoghi, quelle riunioni, si coloravano dell’affetto immenso che io nutrivo per lei e diventavano i miei banchi di scuola. I suoi inni, le mie canzoni preferite.

    Io arrivai nel momento non giusto.

    La gravidanza fu un disastro. Mamma non mi voleva, nessuno è stato capace di sostenerla, tra echi abortisti ed echi opposti punitivi moralistici nessuna voce fu capace di conforto. In questa confusione mia madre decise di portare a termine la gravidanza.

    Quando mi allattava le succhiavo i capezzoli così forte da farle uscire il sangue, tale era il mio bisogno di lei, in risposta al suo di fuggire da me e sprofondare nelle braccia di Hegel.

    In tanta confusione, ho capito male la teoria hegeliana e ho creduto che la libertà fosse nell’antitesi. E ho fatto, ahimè, da allora tutto il contrario di quello che faceva mamma: lei studiava io no, lei leggeva io no. Questo errore mi è costato caro, ha salvato la mia identità, ma l’ha ridotta a metà: una principessa dimezzata che si finge serva.

    Avevo due anni, circa, quando la segretaria di papà si presentò a casa con il marito per lamentarsi con mamma della cattiva condotta di papà.

    Ho un ricordo di me nel seggiolone in cucina: i miei genitori si rincorrevano gridando e dicendomi: «Non preoccuparti perché mamma e papà giocano».

    E continuarono a farlo per tutta la vita, incuranti dei figli.

    Ricordo che un giorno, avevo forse un anno, giocando con papà, disteso sul letto, feci un balzo e gli caddi addosso proprio sulle palle. Mi colpì violentemente con due schiaffi. Non aveva capito che stessi giocando. Mi punì come l’avessi fatto apposta.

    Ricordo ancora io e mia sorella con papà. Ero piccola, non so l’età e nemmeno se fossimo a Bologna o a Roma, ma ricordo.

    Eravamo tutti e tre nella vasca da bagno, lui ci chiedeva di giocare con i suoi genitali, rideva, perché lui credeva di giocare. Ma non era un gioco, come non lo era quel loro rincorrersi gridando.

    Quella di papà è l’ingenuità di una generazione, di molti di quelli che hanno fatto il ’68, che credevano che con la libertà sessuale si potesse risolvere tutto. Se non proprio tutto, molto. Ma ci hanno creduto e alcuni di loro hanno fatto errori con i loro figli. E io, a subire i limiti dei miei genitori, ero predisposta. Il gioco è il gioco. Io certo non potevo spiegargli le cose, aspettavo che lo facessero loro. Ho aspettato invano e ho iniziato a camminare da sola, sono caduta e mi sono fatta molto male.

    Così capii da sola ciò che è gioco e ciò che gioco non è!

    Una volta, avevo poco più di un anno, nonno Luigi voleva farmi smettere di guardare la tv e staccò la spina della corrente del televisore, credendo di ingannarmi. Ma io, stupore dei suoi occhi, andai a prenderla, rivelando il suo trucco e sventolandola in mano. Lo guardai con un sorriso e lui disse: «È curiosa! Piccerella ma intelligente».

    Dopo che ci eravamo trasferiti a Potenza trovai un altro affetto. Un amico di mio zio Vito. Quando mi vedeva mi prendeva in braccio e mi chiamava ridendo: «Ehi, procchio», che stava per pidocchio. Un nomignolo affettuoso. Era un pittore di molto talento. Molti anni dopo, quando gli dissero che era malato, dopo aver telefonato tra gli amici a quelli che credeva di aver offeso per chiedere loro scusa e fare pace e dopo aver sistemato tutti i suoi conti, si sparò con un fucile da caccia.

    La Basilicata è un posto piccolo, Potenza una cittadina di provincia. Una donna divorziata era scomoda, mamma però, di buona famiglia, laureata in filosofia era sostenuta dal sogno della madre che ne esaltava la grandezza, riflesso dei suoi stessi sogni, realizzati al di là delle mete che la nonna potesse mai sperare di raggiungere. La figlia e ancor di più il figlio maggiore erano una proiezione legittima delle sue aspettative, legittima ma parziale, perché questo suo ideale non contemplava il figlio minore.

    Mia madre ripeté lo stesso schema tra me e mia sorella. Le era familiare, lo aveva fatto sua madre e quello che fanno i genitori è giusto, è naturale. Ho imparato nel tempo che mia madre era restia a capire le cose che avrebbero fatto male agli altri.

    Appena se ne accorgeva, le scattava un senso di colpa così forte, che doveva rimuovere, in un processo involontario perpetuato all’infinito.

    Così a mia sorella è toccato il successo, a me il fallimento.

    Dopo il divorzio da mio padre mamma sposò un uomo giovane che la voleva tutta per sé. Come poteva tollerare una bambina devastata da questa storia che chiedeva ascolto, accoglienza, attenzioni? Dunque io che sottraevo tempo, spazio, energie alla sua realizzazione ero spesso dalla nonna e mamma si proteggeva da me dietro quest’uomo.

    Dei giochi a parco Montereale a Potenza con mia sorella ricordo le nostre corse e i nostri sorrisi. La seguivo spesso come per cercare di sottrarle i suoi segreti. A otto anni le presi il diario e glielo distrussi. Non so perché. Certo era un gesto grave. In quel periodo giravo per casa tutta nuda semplicemente per fare un dispetto alla madre del mio patrigno, a cui volevo peraltro un gran bene. Ai dispetti io mi ero disperatamente aggrappata per gridare a mia madre il mio bisogno di lei e delle sue attenzioni. Lei sembrava non vedere e non sentire e soprattutto non capire.

    Al parco Monreale dei ragazzini gridavano a me e mia sorella che nostra madre era una puttana. Mia sorella piangeva e io volevo fare a botte, ma ero troppo piccola.

    E lì un’altra volta alcuni ragazzini ci rincorrevano perché frequentavamo dei bambini poveri. Io ero la più piccolina e rimasi indietro e mi spiaccicarono la testa contro un cancello: tornai a casa piena di sangue.

    Quel modo di giocare con la sessualità, non che ci sia mai stato sesso tra noi, restò vivo tra me e papà. C’era complicità e una intimità che lui credeva fosse un gioco. Ma non lo era affatto per me, perché con i miei comportamenti con gli uomini cercavo di compiacere papà. Glieli raccontavo, si divertiva, e diceva che poteva seguirmi meglio ora che abitavamo in città diverse.

    Una grande confusione! Volevo a tutti i costi piacere a papà e in me quel verbo acquistava connotati sbagliati insani e innaturali.

    Quando tredicenne, al mare, una coppia di conoscenti, lei psicologa di 24 anni, lui di 37 anni, mi offrì di rimanere a dormire da loro mi venne un forte mal di stomaco, un forte senso di colpa perché non potevo deluderli. E nel disagio e nell’angoscia dissi di sì. Io e lei andammo a chiedere il permesso a mamma, che disse di sì. Sulla strada del ritorno in macchina la donna mi baciò. Mi fece molto schifo. Fecero l’amore davanti a me, mi toccarono e mi leccarono, ma lui non mi penetrò. Non avevo mai fatto l’amore e l’urlo di lei mi spaventò (credevo la stesse scotennando) ma provai anche piacere e provavo colpa per questo. Cercai una ragazzina che era anche lei in quella villa, in un’altra stanza, e cercai toccandole i seni di sentirmi padrone e non vittima… il nostro sguardo, qualcosa, tolse il falso incanto e ci ritrovammo nude con la nostra miseria… bambine!

    Per fare l’amore la prima volta cedetti all’insistenza di un ragazzino che non mi piaceva, avevo 15 anni e mezzo. A 17 fui avvicinata da una coppia di giovani sposini e io volevo vedere se mi piacevano le donne, dopo quel bacio che mi aveva fatto schifo e la tremenda confusione che mi portavo dietro. Scoprii che le donne non mi piacciono affatto, e stetti con lui davanti a lei, lui mi chiedeva di coinvolgerla, ma io non ci riuscivo. Parlai a mia madre della violenza subita quattro anni prima, solo verso i 17 anni.

    In quinta elementare alla recita cantammo Va’ pensiero. In quei giorni una mattina all’uscita di scuola tutti i ragazzi della classe mi saltarono addosso e mi misero le mani dappertutto. Così senza preavviso, senza che ci fosse stato nulla che preannunciasse questa aggressione, non uno sguardo, non un episodio, un particolare.

    Di quella scena mi fece male la mia impotenza e la voce di una bambina della mia classe, che invece di aiutarmi, additandomi gridava, che ero una puttana perché non reagivo. La rabbia e l’umiliazione mi salivano dentro: come avevano potuto fare questo a me che non gli avevo fatto niente di male. Impedii a mia madre di venire a scuola a fare un macello. Dovevo difendermi da sola.

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