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Dimenticati alle Canarie
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E-book141 pagine1 ora

Dimenticati alle Canarie

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Info su questo ebook

Una breve vacanza a Fuerteventura si trasforma in una situazione angosciosa In breve tempo un idillio si tramuta in ansia e paura. Corrono le prime voci su un certo virus che aggredisce i polmoni. Gli ospedali sono presi d'assalto. Spuntano i primi morti in tutte le isole dell'arcipelago. I turisti si riversano verso l'aeroporto. Su tutta l'isola la libertà di movimento è ridotta drasticamente. Il cerchio si stringe: È vietato lasciare la propria provincia…è vietato uscire accompagnati…è vietato allontanarsi più di 1 km dall'abitazione e infine… è vietato camminare per strada. La Guardia Civil è presente ovunque e blocca qualsiasi tentativo di evadere dalla "prigione". In questa situazione un pensiero sempre più insistente riaccende la speranza: "Se un problema non può essere risolto, bisogna accettarlo, conviverci, farselo amico; è da qui che possono nascere nuove opportunità". Questa conoscenza acquisita apre la porta a una valutazione nuova della situazione e infonde forza e coraggio fino a quando, dopo 5 mesi e 3 giorni, un aereo partito da Fuerteventura atterra all'aeroporto di Stoccarda.
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2021
ISBN9791220379595
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    Anteprima del libro

    Dimenticati alle Canarie - Giuseppe Luigi Leone Terracciano

    Biografia

    Giuseppe L. L. Terracciano nasce a Casoria (Na) nel 1940 come ultimo di sei figli. Dopo aver frequentato la scuola di avviamento industriale ed aver svolto l’apprendistato meccanico a Napoli, nel 1957 si trasferisce in Germania risultando vincitore di diciotto mesi di istruzione gratuita. Studia la lingua tedesca e consegue l’attestato di specialista per le macchine contabili presso la ditta Kienzle che lo assumerà come tecnico a Parigi. A 19 anni è a Parigi prima come tecnico, in seguito come istruttore per l’azienda Totalia Lagomarsino di Milano. Nel 1961, a 21 anni tornerà in Germania e farà il suo ingresso nella Olivetti.

    Lavorerà nell’azienda un ventennio fino al 1980. In questo tempo, tra altro, scrive un nuovo sistema d’insegnamento per l’istruzione dei tecnici, fonda e guida la scuola elettronica per l’insegnamento della tecnologia dei computer. A 32 anni realizza il sistema Duty Free per l’aeroporto di Francoforte, a 34 anni è responsabile per lo sviluppo del software tecnico-scientifico. A 40 anni, nel 1980 verrà assunto dalla Martini & Rossi in qualità di System Analyst Manager e successivamente di Direttore dell’Organizzazione. Nel 1982 tornerà a lavorare per la Olivetti in qualità di Direttore della consociata austriaca. Nel 1984 ricopre la figura di Area Manager per l’Area Europea e scandinava occupandosi di International Business Development.

    A 48 anni, nel 1988 si ritira a vita privata in Toscana, dove è rimasto fino al 2007, anno in cui si è trasferito nei pressi del Lago di Costanza, in Germania, dove risiede tutt’ora.

    INTRODUZIONE

    Dal libro di Giuseppe L. L. Terracciano

    Le stelle che non cadono

    In uno dei tantissimi viaggi in Germania, dove vivevano le due figlie, Traudel mi ha fatto conoscere una delle montagne delle Prealpi.

    La cabinovia ci ha portati a quota 1320 m. Una montagna dolce con una vegetazione rigogliosa. Questo è stato il mondo di Traudel prima di sposarmi. Conosceva ogni sentiero, ogni angolo, da dove ammirare il panorama.

    Appena arrivati alla stazione in quota, ci siamo avviati subito per un sentiero abbastanza largo da poter camminare uno accanto all’altra, così non c’era il pericolo che a Traudel venisse il torcicollo a ogni curva. Dopo circa mezz’ora siamo arrivati a un piccolo piazzale, da dove si ammirava un paesaggio spettacolare, con montagne vicine e lontane, paesini con i loro tetti rossi, sparsi qua e là, che Traudel mostrava di conoscerli tutti.

    Quando Traudel intravede un sentiero sulle montagne dirimpetto, che aggira la montagna, entra nella foresta, ne esce poco dopo e disegna delle curve fino alla cima, si trasfigura e non riesce a contenere il suo entusiasmo.

    C’era una panchina e, accanto sulla destra, un vero piccolo paradiso formato dalla natura. C’erano margherite, orchidee selvatiche, arnica, genziana gialla, qualche scarpetta di Venere e poi piantine di menta in fiore, dei fili di erba con una struttura di filigrana in cima. Più in là s’intravedevano, ai lati del sentiero ancora da percorrere, rododendri ferruginosi e felci in tutte le grandezze.

    Ero sorpreso e affascinato da questa montagna. Sentivo salirmi dentro una grande gratitudine verso la natura, che mi offriva, rivestito con i colori più belli, tutto ciò che aveva. Ogni singolo fiore emanava un profumo tenue, quasi impercettibile, ma tutti insieme, creavano una fragranza per me nuova. Sentivo una pace interiore, rassicurante. A poco a poco stavo scoprendo un altro mondo, un’altra gratuita ricchezza della generosa natura, la quale, come compenso, chiede solamente di non essere ignorata del tutto e che si accontenta di un solo sguardo, anche se distratto. Mi stavo innamorando della montagna e della sua natura, così diversa da quella a valle. Mi faceva bene il distacco dalle mille cose giornaliere, che affollano la mente e impediscono di scoprire il grande dono della vita e di tutta la sua grandiosità, anch’essa, donata senza richiesta di ricompensa alcuna, se non quella di essere accettata e vissuta con dignità fino alla fine.

    Riprendemmo a camminare ma non ero più lo stesso. Guardavo con attenzione tutto ciò che cresceva ai lati del sentiero. Traudel mi mostrava i frutti delle piante che incontravamo e mi indicava quelli che si possono mangiare e quelli che bisogna assolutamente evitare, anche se sembrano innocui. Specialmente quelle palline rosse luccicanti che assomigliano ai ribes, oppure quelle palline nere luccicanti, che assomigliano alle bacche di sambuco, non bisogna toccarle! Camminavo sempre più leggero; non volevo ancora tornare indietro.

    A un certo punto del sentiero, Traudel si fermò e cominciò a cogliere frutti dal colore rosa, tendente al rosso, dalla forma di una pigna in miniatura, ma molto morbida. Me li offrì tutti nel palmo della mano aperta. Mangia mi disse, sono lamponi, sono frutti di bosco profumati e pieni di vitamine Ne assaggiai un paio. Da quel momento i miei occhi erano rivolti non più avanti, al sentiero ancora da percorrere, ma ai lati, all’individuazione di lamponi.

    Che bello cogliere quei lamponi così, en passant e lasciarli sciogliere lentamente in bocca; è una vera delizia. Non avevo tempo di lasciarli sciogliere lentamente in bocca, perché Traudel mi porgeva una mano piena dopo l’altra mentre io, nello stesso tempo riuscivo a coglierne appena tre o quattro. Ai lati del sentiero, in basso, c’erano anche delle fragoline di bosco ma Traudel mi diceva di non mangiarle, anche se sono molto saporite, perché possono essere state toccate dalla volpe, e noi non sappiamo che malattia possa avere avuto la volpe. I lamponi, invece, sono troppo alti perché possano essere toccati.

    Gli alberi nel nostro giardino di Caprese Michelangelo erano cresciuti tanto, che ogni anno avevano bisogno di essere potati. I quattrocento cespugli che inondavano l’aria di profumi, man mano che il sole del mattino li riscaldava e svegliava con delicatezza i loro fiori, avevano bisogno continuamente di essere curati. Le statue sparse nel giardino avevano ricevuto una patina dal tempo, che, con un alito di vento, impercettibile, ci portava con sé sempre più avanti negli anni.

    Avevamo festeggiato molti compleanni nel nostro nido meraviglioso, avevamo molti amici, che ci regalavano affetto e compagnia.

    Avevamo fatto ancora tanti viaggi, vissuto tantissime emozioni. Dicono che quando si è vecchi, si vive di ricordi; ebbene, noi avevamo costruito tanti ricordi da poter riempire una lunga vecchiaia, ma non eravamo vecchi e non avevamo nessun desiderio di diventarlo. Il nostro futuro doveva continuare a essere il nostro presente.

    Non volevamo rassegnarci alla vita che continua per la sua strada.

    Siamo noi che le prepariamo la strada e ne disegniamo il percorso. È nelle nostre facoltà, virtù che ognuno di noi possiede per natura, decidere, di fare della propria vita una strada deserta, senza curve, arida, che all’orizzonte appare, come le rotaie di un treno, sempre più stretta, per poi sparire nel nulla.

    Noi volevamo che la nostra vita fosse un giardino rigoglioso, con una grande varietà di piante e fiori, prati di orchidee, felci accanto a melograni meravigliosi, ruscelli e cascate, stagni con immagini riflesse del volo delle libellule: un piccolo paradiso che potesse ancora estendersi, con piante e fiori che sarebbero cresciuti insieme a noi, ogni giorno, di nuovo. No, non eravamo vecchi; eravamo solo un po’ stanchi.

    A volte qualche pensiero si liberava dal mio controllo e si addentrava in una giungla di visioni confuse e nebulose, che insistevano nel voler rappresentarmi un futuro buio e doloroso, al quale saremmo andati incontro.

    Il realismo ci convinse a fare una scelta non più procrastinabile: Vendemmo la casa.

    Per non sottopormi a uno stress che nasce quando bisogna lasciare una casa con tutti i mobili e l’altra casa dove traslocare non è ancora pronta, portai mobili e cartoni in una casa di transito, mai stata abitata prima, che persone a noi care ci avevano messo a disposizione. Con molta calma avremmo deciso, dove costruire il nostro prossimo nido. La casa, con muri molto spessi, interamente di pietre, si trovava in una zona deserta, a una decina di chilometri da Caprese Michelangelo, ai piedi di un’antica Rocca, dalla quale aveva preso nome. Vi si arrivava costeggiando il lago di Montedoglio e percorrendo gli ultimi tre chilometri su una stradina bianca che terminava nel nulla.

    La posizione della casa offriva una vista mozzafiato sulla collina di Caprese.

    Una casa dove ci sentivamo felici e liberi come Tarzan e Jane; solo con le liane dovevo essere prudente,

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