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Grazia - Il segreto di una donna
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E-book225 pagine8 ore

Grazia - Il segreto di una donna

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Info su questo ebook

Dopo molti anni, Grazia torna in Calabria, la terra di suo padre, la terra che l'ha vista bambina nelle lunghe e calde estati che, con la famiglia, trascorreva nella grande casa dei nonni a Pianauliveto. La sua non è una visita di piacere, tutt'altro: è lì per partecipare al funerale di Ermes, suo zio. La giovane donna è inquieta, non solo per la triste occasione. Un turbamento, questo, che ha origini lontane ma che da tempo, troppo tempo, le pesa addosso come un macigno dal quale non riesce a liberarsi. In un viaggio nel tempo, che è anche un viaggio nell'anima, Grazia torna a quando, quasi trent'anni prima, lei ed Ermes erano stati protagonisti di un "brutto" fatto, un episodio scabroso che aveva minato dal profondo l'equilibrio di lei, bambina, di lui, uomo maturo, e di una intera famiglia, quella dei Melanca, tanto ancorata alle tradizioni quanto restia a lavare in pubblico i propri panni sporchi. Allontanata subito da quel luogo e da quella mentalità, Grazia cresce apparentemente serena, si laurea in Medicina, vive le sue esperienze; tuttavia sente sempre dentro di sé un qualcosa di irrisolto che le impedisce di essere veramente la donna che vorrebbe e che sente di poter essere.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2023
ISBN9791221452204
Grazia - Il segreto di una donna

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    Anteprima del libro

    Grazia - Il segreto di una donna - Marisa Giaroli

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1

    Mi sono lasciata incastrare!

    Non sarei dovuta venire perché questo luogo ha il potere di farmi tornare bambina. Siamo in Calabria, nella chiesa parrocchiale del paese, per assistere alla cerimonia funebre di zio Ermes. Al primo banco, rigido nel suo abito scuro c’è mio padre, Achille Melanca, fratello del defunto; accanto a lui ci siamo io, Grazia, e i miei due fratelli gemelli, Antonio e Salvatore. Dietro di noi mia cognata Francesca, moglie di Antonio, e i loro due figli, Marco di undici anni e Sandro di nove. Mia zia Dafne, la più anziana dei fratelli, non c’è. Vive negli Stati Uniti con il marito e due figli e, data l’età avanzata e il suo precario stato di salute, ha ritenuto opportuno non mettersi in viaggio.

    Sono ancora pervasa dall’inquietudine che mi ha preso due giorni fa, quando Antonio mi ha telefonato per avvertirmi della morte improvvisa dello zio e sollecitarmi a scendere per la cerimonia, perché: «Ermes ha sempre detto che voleva essere cremato e che una parte delle sue ceneri fosse sparsa in mare da te e l’altra messa nella cappella di famiglia». A sentire lui e mio padre ho l’obbligo di rispettare le sue volontà!

    Questo feretro è qui a ricordarmi che la persona che mi ha tenuta per prima tra le braccia quando sono nata non c’è più. Faccio fatica ad accettare questa morte improvvisa. Con interesse seguo le parole del sacerdote che parlano di una vita oltre la morte e spero con tutto il cuore che un giorno potremo veramente ritrovarci. Avverto un malessere diffondersi in tutto il corpo, una specie di stordimento. Non è facile spiegare ciò che sto provando. Sono gli ultimi giorni di settembre e qui al Sud la canicola non dà tregua. Un ventilatore elettrico ruota e ronza muovendo l’aria, che puzza di fiori e di morto. Mi distraggo e penso con fastidio al pranzo che seguirà la cerimonia e alla cremazione, che avverrà tra una settimana. Sono impaziente che tutto finisca per ritornare ai miei piccoli pazienti e a Giorgio, l’uomo con cui ho una relazione da alcuni anni. Da quando sono arrivata mi sento fuori posto, il mio mondo è altrove; questo è il mondo di mio padre, dei miei fratelli. Io sono soltanto un’intrusa, un’ospite. È triste, ma sento così. In ogni modo credo che con la morte di Ermes cesserà anche l’unico legame che ho con questo angolo della Calabria. Giro lo sguardo, sono consapevole che la mia presenza fornisce ai più anziani l’occasione per chiedersi perché mai non sia più ritornata al paese, e se quelle voci circolate quando ero piccola fossero vere. Che pensino pure quello che vogliono, sono troppo addolorata per soffermarmi su questo.

    Terminata la cerimonia funebre mi trovo seduta sulla panchina sotto la grande quercia di rovere che nonno Gianni fece piantare alla mia nascita e avverto la sensazione che da questa grande pianta sprigioni una forza che m’invade. Una cosa è certa, mi sento in pace. Questo è il punto più spettacolare per vedere il mare. Da qui si può ammirare il Golfo di Sant’ Eufemia e, sulla sinistra, la Costa degli Dei. L’immensa distesa d’acqua che ammiro dall’alto, l’infrangersi delle onde nel loro ritmo senza tregua mi affascinano ancora, mi riportano alla mia infanzia, e provo una sorta di nostalgia.

    Di tanto in tanto un alito di brezza mi raggiunge: questa carezza sembra voglia parlarmi. Il mio sguardo ritorna sulla casa, che alla luce del mezzogiorno appare sempre massiccia. Socchiudo gli occhi per ritrovare un contatto con questa natura che nonostante tutto ciò che è accaduto non ho mai smesso di amare.

    Immersa nella tranquillità della collina, il cui terreno boscoso degrada dolcemente fino al mare, sorge Pianauliveto. Non è un vero paese ma un insieme di abitazioni, con persone che si trasferiscono ogni giorno in città per lavoro o lavoranti della masseria di proprietà dei miei nonni paterni; ci sono una cappella, dove alla domenica viene celebrata la messa, un cimitero e un negozio di generi alimentari che vende un po’ di tutto. Un vecchio cancello di ferro tra due imponenti colonne di pietra poste sulla strada provinciale immette nel viale alberato che conduce alle abitazioni dei dipendenti, alla scuderia, alle stalle e altri fabbricati. Questo viale privato si ferma davanti a un altro cancello oltre il quale c’è un bel prato e in fondo la dimora storica dei genitori di mio padre che risale al diciottesimo secolo. Una costruzione su due piani, con ampie terrazze. Anni fa zio Ermes ha provveduto alla ristrutturazione della casa restituendole il fascino di una volta. Al piano terra, sotto il portico, s’affacciano uno studio-salotto, l’ambulatorio di nonno Gianni, che ora è utilizzato da mio padre, la grande cucina con una portafinestra che dà sul prato, dalla quale si può vedere chi arriva, la sala da pranzo e un bagno. Dalla cucina si passa alla dispensa, che ha una porta che si apre sul retro. Al primo piano si arriva salendo un’ampia scala in legno che immette in una stanza con due divani accostati alle pareti. Da qui si accede alle stanze da letto, quattro matrimoniali, riservate ai figli e alle rispettive mogli e agli ospiti, che un tempo non mancavano mai. Le stanze sono tuttora arredate con mobili di famiglia.

    La casa era sempre molto affollata durante il periodo estivo. Ai miei fratelli e cugini erano riservate le stanze del secondo piano. In quel periodo lo zio Ermes si univa a loro e cedeva la sua a me, l’unica femmina: la creatura, ’a picciridda. Mi pare di rivedere nonna Assunta, con i suoi lunghi capelli biondi raccolti a crocchia, sempre molto indaffarata a dirigere la masseria: conosceva tutti i segreti di Pianauliveto e non solo quelli… Da giovane doveva essere stata molto bella, aveva due gambe da sballo, i suoi occhi grigi erano vivaci, mutevoli, e quando si arrabbiava diventavano lampi di collera. Anche nonno Gianni era un bell’uomo, molto stimato; alto più di un metro e ottanta, aveva la carnagione bruna come mio padre e me e le sue sopracciglia erano cespugli su occhi scuri. La sua cultura era enorme! Sapeva essere vivace e disinvolto con un innato senso dell’umorismo. La sua voce tonante, sempre affettuosa con me, poteva diventare terribile. Quando era libero dal lavoro amava sedermisi accanto sulla panchina di legno al limite del prato, dove la terra incomincia a degradare verso il mare. Nelle giornate di bel tempo a un certo momento si alzava e con passo lento e misurato si avviava. Io, con il cuore che mi batteva forte, rimanevo in attesa che lui si voltasse e con la mano o il capo mi facesse segno di seguirlo. Poi mano nella mano, a volte in silenzio a volte chiacchierando, scendevamo lentamente il sentiero che si snodava tra alberi e cespugli e arrivavamo al mare. Ogni tanto si fermava per riprendere fiato, soffriva già di un disturbo al cuore ma io non lo sapevo. In quel nostro attardarci, il nonno m’invitava a osservare attentamente ciò che ci circondava, ad ascoltare la voce della natura, poi ripartivamo e mi esortava a fare attenzione a dove mettevo i piedi per non scivolare. Strada facendo mi raccontava storie bellissime di eroi greci, di Ulisse, di Achille, del cavallo di Troia: oltre agli studi di Medicina, il nonno amava la musica e aveva una formazione di storia antica greca e romana. I miti che mi raccontava scendevano dentro di me, nella mia testolina, e alimentavano la mia fantasia. A un centinaio di metri dal mare il nonno mi lasciava la mano e, libera, correvo sulla battigia lasciando che le onde calde mi accarezzassero i piedi. Poi mi raggiungeva e camminavamo sulla spiaggia girando gli occhi alla ricerca di nuove conchiglie, di sassi particolari e altri oggetti che la corrente trascinava sulla spiaggia. A volte si univano a noi i miei fratellini e i cugini Andrea e Umberto, figli di zia Dafne. Facevamo il bagno sotto l’occhio attento di zio Ermes, del nonno e di tata Maria, una ragazza sui vent’anni che si occupava dei gemelli per lasciare libera mia madre.

    Il ritorno era una vera festa! Dalla casa padronale arrivavano due garzoni con due muli sui quali salivamo io e il nonno. Solo queste bestie riuscivano ad arrancare senza fatica sul sentiero che conduceva alla masseria. A volte, nei giorni di cattivo tempo, il nonno m’invitava nel suo studio e mi raccontava la storia dei suoi antenati attraverso i quadri appesi alle pareti. Mi piaceva moltissimo ascoltarlo: ero brava ad assorbire i valori e le usanze della terra di mio padre. Nulla di tutto quell’apprendere andava perduto. Ogni estate, per i primi miei sette anni di vita, sono venuta qui in vacanza con tutta la famiglia. Ho rincorso le galline, visto nascere i pulcini, le mucche con i vitellini, le caprette, e nella scuderia ammirato i cavalli del nonno e i somarelli. Ricordo che l’animale che più mi incuriosiva era il pavone con la sua splendida coda. Prestissimo ho imparato a cavalcare. C’erano anche tanti animali da cortile che spesso litigavano con i gatti e i cani da caccia.

    Le giornate scivolavano veloci, c’era tanto da fare e da vedere. Un tutto che si offriva al mio sguardo curioso di bambina di città. Durante quelle vacanze, senza avvedermene, arricchivo il mio italiano con la parlata meridionale e al mio ritorno a Parma il modo curioso di mescolare le parole del Sud con quelle del Nord divertiva molto l’insegnante. Ero bravissima nell’afferrare le nuove parole anche se a volte ancora non ne capivo il significato.

    In questo momento, il parco alberato poco distante dall’imponente casa padronale prende vita. La servitù sta preparando il pranzo per quanti hanno condiviso la cerimonia funebre. Sotto il portico i camerieri stanno sistemando un tavolo per le vivande, mentre i garzoni vanno su e giù dal parco alla casa portando tavoli e sedie; altri sono impegnati con il barbecue. Il prato antistante all’abitazione è ben rasato e pulito come voleva sempre fosse nonna Assunta. Da bambina vi correvo inseguita da Lucy, il labrador della nonna, il cui abbaiare festoso si confondeva con i miei strilli, la mia risata gioiosa. Ricordo quando a sera nonna chiamava i figli più grandi dei contadini e imponeva loro di rastrellare bene il prato e dintorni, poi gli sterpi e i vari rimasugli venivano portati dietro la stalla per essere bruciati. Un bel fuoco che s’innalzava a illuminare la sera. Già… nonna Assunta, la depositaria di tutti gli avvenimenti e segreti della famiglia: nessuno osava mettere in discussione la sua autorità.

    Sospiro e seguo con distacco i preparativi che si svolgono sotto l’occhio attento di mia cognata Francesca. Non la ricordavo così graziosa. A mio parere ha qualche chilo in più, ciò nonostante la sua figura è armoniosa. È una tipica donna del Sud, spesso indossa abiti neri e non si trucca. Sposto lo sguardo su di una finestra al primo piano della casa, quella della camera dei nonni, dove lo zio Ermes ha vissuto i suoi ultimi anni. Rimango immobile per alcuni minuti perché c’è movimento nella stanza; sicuramente qualcuno sta togliendo dal comodino fette di pane e acqua che sono servite al defunto nel suo viaggio: un’antica usanza ancora in uso da queste parti. Per un attimo sono tentata di salire e vedere, ma poi distolgo lo sguardo con fermezza e cerco di dominare il dolore acuto che sento salire allo stomaco, stringo gli occhi. Riaffiorano ricordi dell’infanzia: questo luogo ha lasciato un’impronta indelebile nella mia vita. Con un movimento brusco mi alzo, sposto lo sguardo e rimango a fissare l’immensa distesa del mare fintanto che non mi sento più calma. Mi frego gli occhi umidi e faccio un lungo respiro. L’aria profuma di mosto novello, la vendemmia è finita da pochi giorni e insetti golosi volano ronzanti verso la parte della masseria nella quale si è svolta la pigiatura, dove il loro frinire è più fastidioso. Qualcuno di loro m’infastidisce e lo allontano con un gesto brusco del capo o della mano. D’improvviso mi trovo Francesca accanto. Mi abbraccia senza dire niente, vicine raggiungiamo i parenti che stanno occupando i posti ai tavoli. Quando Salvatore ci scorge, mi fa cenno di sedere tra lui e papà. Gli ho sempre voluto molto bene. Da piccoli giocavamo spesso assieme, lo coccolavo quando papà lo sgridava e gli mostrava la cinghia, crescendo ci confidavamo i nostri segreti; voglio bene anche ad Antonio, ma il nostro rapporto non è mai stato sereno. Mamma diceva che era colpa del suo carattere introverso e musone, come quello di papà.

    A pranzo i miei occhi vagano qua e là sui commensali. In chiesa non ho fatto molta attenzione alle persone presenti ma ora ho l’opportunità di osservarle e mi rendo conto di conoscerne poche. Percepisco la loro attenzione su di me. Sono parte della loro curiosità, di pensieri che non osano tradurre in parole. Quando alzo lo sguardo molte teste si abbassano. Sorrido anche se mi sento ribollire dentro. Possiedo una grande capacità di resistenza ma sotto lo sguardo di queste persone anziane mi sento denudata. Ipocriti, so a cosa state pensando! Mi giro verso mio padre. L’ultima volta che ci siamo visti è stato in occasione del matrimonio di Antonio e Francesca.

    «È stata una bella cerimonia, con tante persone. Stava bene, non capisco, morire così all’improvviso…» mi sussurra. Annuisco.

    «Papà, mi sorprendi! Sai benissimo che difficilmente si supera un infarto se non hai accanto qualcuno pronto a intervenire».

    Le mie orecchie ora sono tese all’ascolto di ciò che si sta raccontando su zio Ermes, della vita da eremita che conduceva, della sua bravura nel dirigere l’azienda. Qualcuno si chiede come mai non si sia mai sposato. Quando ci alziamo da tavola e ci dirigiamo all’angolo dove viene servito il caffè, papà dice: «Mio fratello ha lasciato a te la sua parte di eredità. Prima della tua partenza dovremmo andare in città dal notaio».

    Gli rispondo che non sono interessata. Mentre sorseggio il caffè, riconosco le belle tazzine di porcellana che mia madre regalò alla nonna. Mi sorprendo che ci siano ancora e mi propongo di chiedere a mia cognata di darmele. Poi papà m’invita a seguirlo per salutare i parenti. Stringo le mani, ascolto e sorrido un po’ a disagio alle persone che ci porgono le condoglianze. Mi rendo conto di non aver avvertito nessuna delle mie vecchie amiche della mia presenza al funerale… Magari qualcuna sarebbe stata felice di rivedermi, ma forse no, eravamo troppo piccole. Mentre il personale di servizio sgombera i tavoli, io e papà c’incamminiamo verso lo spazio aperto. Adeguandomi al suo passo lo seguo e senza parlare raggiungiamo la panchina. La leggera brezza che viene dal mare fa stormire i rami della grande quercia, l’aria si è fatta più fresca. Per un po’ rimaniamo in silenzio osservando il tramonto dipingere l’acqua del mare in strisce rosse. Ci sentiamo tutti e due spersi: ci sono vuoti fra noi che non siamo mai riusciti a riempire. Ciò che ha determinato il nostro allontanamento è ancora ben presente e motivo di sofferenza nella nostra vita.

    È lui a prendere la parola: «Non ho mai smesso di sperare che un giorno saresti ritornata per svolgere la professione qui».

    Sorpresa, rispondo decisa: «Scordatelo! La mia vita è a Parma. Poi c’è mamma».

    «Potrebbe tornare anche lei». Incredula lo guardo. L’anzianità del suo viso, le rughe che gli si sono disegnate attorno agli occhi mi provocano dolore. Sono cosciente che non potrò mai essere la sua figlia prediletta. Questo desiderio mi ha accompagnata per anni ma non si è mai realizzato. Attendo che il battito del mio cuore si calmi per rispondere.

    «Sai che non è possibile».

    «Mi manca molto».

    «Il mio posto è accanto a lei, ha solo me. Tu hai la tua vita. Ci sono Antonio con la sua famiglia e Salvatore quando non è in giro per il mondo o a Parma da noi». Non me la sento di chiedergli che fine abbia fatto la donna che tanti anni fa ha preso il posto di mia madre nel suo cuore. Nel corso degli anni spesso mi sono chiesta perché papà e mamma non abbiano divorziato. Si erano solo separati e mamma lo aveva lasciato libero di ritornare in Calabria.

    «Come sta?» mi chiede di nuovo con un fil di voce.

    «Sai benissimo che di Alzheimer non si guarisce! È seguita da un mio collega, un bravo neurologo. Tata Maria si prende cura di lei. È ancora molto efficiente ma sono passati anche per lei gli anni, ho assunto una donna per i lavori più faticosi». Lui annuisce con il capo in un sorriso stanco e si alza. Rimango a osservare la

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