Patrie interiori
Di Ana Danca
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Info su questo ebook
Volendo usare una metafora per esprimerne la portata, diremmo che si avverte la presenza del padre Zeus e della figlia Atena, nata dal capo del padre stesso che la inghiotte prima che nasca. E qui la parte di Atena, che nella mitologia greca difende gli eroi che compiono il bene e parteggia per le donne, la fa la protagonista del romanzo: una madre e una creatura generosa che viaggia come Ulisse per ritrovare, appunto, la sua “Patria interiore”.
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Anteprima del libro
Patrie interiori - Ana Danca
Mantova.
Le carezze della terra
Camminando raccolgo le piante fiorite e ammiro i pesciolini che trafficano sotto l’acqua cristallina. All’improvviso imbocco un sentiero che porta fuori strada. Scendendo a pochi metri dal fosso davanti a me si apre un luogo mai visto prima. Affondando in questo spazio verde, oltre al canto dei passeri, il silenzio domina l’intera foresta. La miscela dei profumi che si respira nel bosco, unito a quello dei fiori raccolti, mi danno una sensazione di benessere. Tutto intorno a me è meraviglioso, tanto che ho voglia di sentire le carezze della terra, proprio così le carezze della Terra. Allora mi tolgo le scarpe e proseguo scalza.
… Gli uccelli, spaventati, volano nel cielo, il vento sussurra tra le foglie delle piante ondeggianti, i vestitini larghi ballano rinfrescando il corpicino piegato intorno al manico troppo lungo della zappa, che a fatica trascina della terra secca e impolverata. Intanto che il buio toglie la luce del sole cocente, oscurando il cielo, le persone di tutte le età che si trovano a lavorare la terra corrono a raggiungere le prime abitazioni costruite ai piedi della collina, che divide il paese dai campi agricoli. In famiglia si era in tanti e il contributo di ciascuno è fondamentale. Tanti di loro riescono ad arrivarci, gli altri restano in cammino, sfidando la natura crudele che a volte si scatena con tutta la sua forza. Mio padre, che è figlio di Madre Natura, conosce bene i suoi segni; con il suo attrezzo scava velocemente un canalino di giusta misura per seppellire tutte le zappe, anche quella del primogenito della famiglia, questo per impedire che il fulmine scarichi la sua energia intorno a noi. Subito dopo prende uno dei sacchi di nailon e unendo i due angoli nel fondo crea un cappuccio per ciascuno di noi. Dall’orizzonte le nuvole si formano in fretta, diventando dei brutti mostri che scendono molto in basso, quasi sopra di noi; l’impressione è che basti allungare un braccio per fermarli (magari quello di mio papà che è più lungo, penso) in modo non ci facciano più così tanta paura. Incappucciati, uno a destra e l’altro a sinistra di nostro padre, ci siamo messi seduti nella direzione opposta, di schiena, per non guardare in faccia quei nembi paurosi che impazziti correvano in tutte le direzioni del cielo. Il sacco mi copriva solo la schiena, le gambe rimanevano scoperte. Ricordandomi allora dell’insegnamento di papà, in grande fretta mi butto con le mani della terra nuda e bollente per coprirle completamente. Sentivo bruciare la pelle, però dovevo essere al riparo.
Guardando in giù, verso valle, scorgevo i nuclei famigliari ammucchiati sotto le loro tende e questo alleggeriva la mia paura. Non eravamo soli sotto il cielo grigio e arrabbiato. Sistemati come noi, in pochi minuti il campo assomigliava a un paesino con le casette poco distanti l’una dell’altra. Tra la luce dei lampi e l’oscurità delle nuvole il suono dei tuoni faceva tremare la terra. Noi a occhi chiusi, sbattendo i denti, stavamo abbracciati stretti al tronco del nostro albero, seguendo il consiglio di papà. Ci facciamo il segno della croce e poi tutti insieme iniziamo la preghiera al Signore Dio a voce alta, affinché ci aiutasse a superare quel momento. Sul tettuccio di plastica il rumore delle noccioline bianche era molto forte, quasi a coprire ogni altro suono, a coprire persino le nostre voci in preghiera. Le lacrime si univano alle gocce d’acqua della pioggia bagnando il viso. Poi lentamente comincio a non sentire più le gambe. Al grido di aiuto le donne prese dal panico abbandonavano il loro nido marciando nella terra fangosa in salita. Gli indumenti estivi che coprivano il loro corpo si inzuppavano velocemente, impedendo il cammino. Alcune donne scivolavano, altre invece, con i bordi alzati delle gonne lunghe, ormai inzuppate, allungavano il passo per arrivare in fretta al riparo. Il papà, in piedi, contava i suoi passi indietro: uno, due e tre…
infine lanciava una pala bianca che stringeva tra le mani e che atterrava sul mio petto, spezzandosi in tanti cristallini di ghiaccio e trasformandosi poi in acqua fredda. Bagnata e infangata aprivo gli occhi, il cuore era troppo piccolo per una paura così grande. Stanco e sollevato, mio papà si metteva in disparte, mentre la gente addossata a me riscaldava il mio corpo intirizzito con il loro. Alle quattro del pomeriggio il sole tornava a risplendere, le piante si raddrizzavano e io, saltellando con gioia nella terra morbida e ancora calda, sentivo le sue carezze ai piedi, affondati fino alle caviglie. Miracolosamente tutto ricominciava a vivere. Lasciandoci tutto alle spalle, raccogliamo le poche cose che abbiamo e ci prepariamo a rincasare. Il papà segna il passo per noi facendoci strada lungo il sentiero. Io lo seguo, mettendo con attenzione i piedi nelle orme che lascia dietro di sé; nello stesso modo fa anche mio fratellomaggiore, camminando in questo ordine. Nessuno di noi correva il rischio di scivolare per terra facendosi del male. Al tramonto ci ritroviamo in paese. Il profumo di cibo appena cucinato ci fa aumentare la fame. Impazienti rompiamo la colonna e corriamo verso casa, intanto che il papà si ferma a chiacchierare con la gente del paese. La mamma ci aspetta con la cena pronta. Dopo la doccia, fatta nella vasca con l’acqua tiepida riscaldata al sole, mamma ci fa indossare degli abiti puliti e asciutti. Arrivato il papà ci sediamo a tavola tutti insieme. Per cena abbiamo le patate cucinate con una ricetta rustica in agrodolce, l’insalata di pomodoro, cetriolo e cipolla coltivati nell’orto di casa e come dolce latte appena munto, bollito insieme alla pasta, preparata da mamma al momento in casa ( lapte cu tocmagi), con aggiunta di zucchero vanigliato a fine cottura. Durante la cena si parla poco. Finisco il dolce che subito la stanchezza mi invita a letto. Come se nulla fosse accaduto durante quella giornata, mi addormento.
Nella mente quel momento è rimasto ancora inspiegato ed è il primo di tanti altri nascosti da qualche parte nel cervello. Nutro sempre la speranza che il giorno in cui il Maestro, che portò la luce del Verbo, ritornerà nel mondo, io possa vedere svelati i misteri che abitano in me.
La vita di campagna è dura e faticosa, ma ti insegna a guadagnarti da vivere con onestà e ad apprezzare le piccole cose di tutti i giorni, come una giornata di pioggia per riposare.
Il passaggio dall’estate all’autunno è veloce, così come gli anni di scuola dalle elementari alle medie, dove scopro quanto sia meraviglioso il mondo del sapere fin dai primi dettati della maestra. Al suono della campanella all’alba di un nuovo giorno, con la nuova scuola mi trovo davanti a un palazzo immenso. La struttura è imponente, al primo impatto mi spaventa; con lo zaino stretto tra le mani, quasi strisciando lungo il muro, compio i primi timidi passi lungo i corridoi tappezzati di moquette, mentre ammiro, appesi ai muri, i quadri raffiguranti le generazioni di studenti che mi hanno preceduta. Tanti di loro sono diventati, grazie alla formazione ricevuta in questa scuola, grandi scienziati, professori, maestri