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E tu, continua a tenermi per mano
E tu, continua a tenermi per mano
E tu, continua a tenermi per mano
E-book147 pagine1 ora

E tu, continua a tenermi per mano

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Info su questo ebook

“Vi racconto di me e di mio padre. Della sua mano e della mia. Avvolte tra di loro negli ultimi giorni. Ultimo baluardo del nostro comunicare su questa terra. Epilogo della nostra sintonia in vita. Se medito, è l’unica cosa di cui sono stato privato. Ed ora che sono qui, in questo dopo, mi convinco che non ti ho perso. Perché tu continui a tenermi per mano.“ Alessandro Melchionna
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2015
ISBN9788860222695
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    Anteprima del libro

    E tu, continua a tenermi per mano - Alessandro Melchionna

    A.M.

    Incipit

    Le storie non si inventano, le storie esistono.

    Esistono nei nostri pensieri, nei nostri sogni, nei nostri desideri, nei nostri ricordi.

    Esistono in tutto quello che abbiamo fatto ed in quello che faremo.

    Esistono, in ogni istante della nostra vita.

    Ed è proprio quando un singolo istante, incontra, anche solo per un attimo, un’emozione, è lì che nasce una storia.

    Ed è proprio da lì che voglio iniziare.

    Da quell’istante.

    Da quell’emozione.

    15.356 giorni

    Faceva freddo. La città si era riempita di luci. Non quelle solite di tutti i giorni. Ma quelle piene di colori e di festa. Quelle che cerchiamo insistentemente tutti i giorni dell’anno e che poi inevitabilmente facciamo fatica a mettere alle spalle.

    Dicono siano effimere, consumistiche, superflue, prive di quella profondità che il momento dovrebbe avere. Ma se bastassero a far tornare il mondo, anche solo per poco, nello stato in cui è importante quello che si sente dentro, allora ben vengano. Sta a noi tenerle accese, affinché non vivano un periodo di buio troppo lungo, fino al loro riaccendersi.

    Ricordo ogni lampadina di casa accesa.

    Ricordo il percorrere tutto l’appartamento, stanza per stanza, da un interruttore all’altro, senza dimenticarne alcuno. Ad ogni pressione il sorriso rivolto verso l’alto a cogliere il cambio di stato che si conosceva ogni giorno, ma che in quel momento sapeva di meraviglia. Arrivare, infine, fino alla presa collegata alle luci sul balcone, sapientemente stese e combinate tra di loro. Luce ovunque. Immersi in un bianco che sapeva di accecante.

    Quell’usare ogni fonte luminosa che si aveva a disposizione aveva dentro un desiderio che andava oltre i confini delineati dalle pareti e dalle visioni catastali. C’era la voglia di irradiare la felicità in ogni dove là fuori.

    Andare oltre le mura.

    Andare oltre le strade, raggiungere altre luci, altre persone, altre case, poiché la luce è più veloce di tutto ed arriva ovunque. E quell’ovunque diventa casa.

    Ma questo avvenne dopo, anche se era lo stesso Natale.

    Ad essere precisi, era uno di quei giorni che precedono il venticinque. Uno di quei giorni in cui l’atmosfera dell’attesa è più grande di quella dell’evento.

    Si corre in ogni direzione per consumare quell’energia accumulata per mesi e racchiusa dentro di noi, per farla esplodere nel momento giusto. Conservata per quei giorni in cui sembra sia giusto farla uscire da dentro, dopo averla custodita gelosamente, con l’obiettivo di consumarla tutta e trasferirla dentro pacchi colorati e pietanze saporite.

    Assaporare il gusto della felicità di aver creato quel gusto stesso.

    A volte, e per fortuna spesso, alcuni giorni assumono significati ulteriori, dandoci la possibilità di goderceli fin dal momento in cui riusciamo a concepirli.

    Non ricordo cosa avvenne di preciso, non posso ricordarmelo. Ma ho ascoltato, diverse volte, le parole di chi ha saputo raccontarmelo negli anni.

    Decine di volte.

    Centinaia di volte.

    Migliaia di volte.

    Ed ogni volta con dettagli uguali o diversi, a prendere le sfumature del ricordo, che ognuno dei narratori ci aveva costruito intorno, e i significati dell’emozione che lui stesso aveva provato.

    Una cosa però mi è rimasta in mente. Comune a tutte quante le occasioni in cui ascoltavo questo racconto. Una frase. Una singola frase. Asettica e concisa. Parafrasata ma realistica. Colorita ma asciutta. La stessa identica frase che ogni volta descriveva il tutto in maniera fantastica.

    È piccolo come un pollo, ma è vispo.

    Le prime parole che descrivevano me.

    Si, proprio io.

    Quell’istante da cui tutto ebbe inizio, quel singolo istante, era quello in cui il sottoscritto arrivava in questo mondo.

    Quell’istante era un evento irripetibile nella vita di un uomo, sia per quello che nasce che per quello che aspetta.

    Quell’istante stava incontrando, per un attimo, la stupenda emozione di dare la vita.

    Quell’istante era l’inizio della sua storia.

    Quell’istante Federico diventava mio padre.

    Tutto era cambiato.

    Tutto iniziava.

    Tutto proseguiva.

    E la cosa che mi colpiva di più, era che io Federico, fino ad allora, non l’avevo mai conosciuto.

    E questo perché, caro Federico, io ti ho conosciuto solo come mio padre, fin dal primo momento che ti ho visto, quando ero ancora piccolo e vispo come un pollo, 15356 giorni fa.

    Il professore

    Mio padre faceva il professore. Mio padre era un professore. Lo aveva dentro. Era come se non potesse farne a meno. Azzarderei che fosse nato esattamente per quello. Aveva dentro lo spirito di insegnare, di far conoscere agli altri le meraviglie che aveva imparato. Era una forza a cui non poteva sottrarsi. Era lì, per chi lo ascoltava, a saziare la sua curiosità.

    Sapeva scegliere le parole con saggia accortezza, al fine di riempirle dei significati opportuni, e far sì che colui che aveva davanti potesse carpirne il loro contenuto pienamente.

    Descriveva gli argomenti con leggiadria, mostrando agli occhi interessati e alle orecchie spalancate, quelle sfumature che legavano la questione, al resto del mondo. Riusciva a dare alla sua conoscenza il legame alla cultura che aveva dentro e che regalava ogni volta diffondendola.

    Saltava.

    Si, saltava aggrappandosi a liane invisibili per portare chi aveva davanti, da una parte all’altra del pensiero. Liane tutte collegate. Voli sapienti e mirati che lasciavano scoprire il nesso con un mondo che non vive di argomenti isolati ma di una infinita moltitudine di legami.

    Mio padre era un social network dell’insegnamento.

    Bastava averlo davanti ed essere registrati nel suo mondo. Scoprire le infinite liane e gli infiniti posti a cui portavano. Bastava averlo davanti che si cominciava a saltare. Si saltare. Da un posto all’altro. Da una persona all’altra. Da un mondo all’altro.

    Si era in ogni dove, scoprendo cose che facevano parte della sua cultura e che non poteva fare a meno di diffonderle.

    Aveva un modo di insegnare che andava oltre i tempi, non si focalizzava su un unico argomento ma cercava, e trovava le connessioni con il mondo che lo circondava, dando ai suoi allievi la possibilità di essere immersi in ciò che imparavano.

    Ogni volta che mi alzo presto, guardo all’orizzonte e sorrido al pensare alle sue parole. Immagino che sparsi ovunque, coloro che lo hanno ascoltato si comportino alla stessa maniera, sorridendo e guardando il punto esatto in cui nasce il sole.

    Astro che la commedia, che seppe dotarsi del termine divino, battezza come la lucerna del mondo. Esso surge a noi

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